FIRENZE - Daniele Bartolini è attore, performer, regista. Da cinque anni vive e lavora (e nel frattempo è diventato padre di Niccolò) a Toronto in Canada e la sua vocazione teatrale la esplica e la esprime in spettacoli, per pochi spettatori alla volta, curiosi, a tratti inquietanti, certamente che non lasciano indifferenti; ti scuote, ti fa partecipare, sono interattivi, ti smuove, ti chiede di prendere parte, parola, posizione. Non puoi addormentarti né essere passivo: devi viverli, assaporarli, muoverti, non puoi fare tappezzeria con l'arredamento, non puoi essere massa ma devi dare il tuo contributo: faticoso ma stimolante. L'intervista, che qui viene riportata nella versione integrale, è stata pensata, condotta, ideata, e pubblicata in formato concentrato sul numero 56 del mensile Lungarno di novembre 2017 (lungarnofirenze.it)
Quando e perché sei andato via dall'Italia, cosa non c'era qua (a livello artistico) e che cosa invece hai trovato, nel tuo caso, in Canada?
“Ho preso la decisione di andarmene essenzialmente per due motivi. Il primo è che ero stanco della chiusura del meccanismo teatrale e della la quasi impossibilità di accesso al mercato. Specialmente di un certo teatro di avanguardia che frequentavo allora. Nelle sale in cui mi ritrovavo, sia come attore che come spettatore, ero sempre circondato dalle stesse persone. Avevo bisogno di facce nuove. Trovavo che tutto fosse autoreferenziale, il pubblico era sempre meno, ci si parlava addosso (ricordo che la vivevo come quasi una situazione da circolo di periferia di amici annoiati, persone che stanno assieme ma non ne hanno realmente voglia; da qua viene il nome della mia compagina, DopoLavoro Teatrale). Sentivo un’insopportabile distanza tra la comunità teatrale e il mondo che stava fuori. Poi c’era la politica del favore. Tutte le volte che mi mettevo a sedere con un direttore artistico c’era sempre il sottofondo “ti sto faccio un favore”. Una certa propensione al familismo mi infastidiva, l’idea che qualcuno ti facesse crescere perché poi sarai un loro protetto e gli dovrai sempre qualcosa. Poi mi ricordo che tutti, quando mi mettevo al tavolo per discutere una proposta, mi dicevano “sei troppo giovane”. Io ero giovane sì giovane e pieno zeppo di idee. Allora ho deciso che era tempo di partire.
Tutto questo descritto sopra, in Canada non l’ho trovato. Qui ho incontrato una grande inclinazione all’ascolto. C’è più distanza nei rapporti. Alla fine di un meeting, quando si ringrazia, la risposta è sempre: “sto facendo il mio lavoro”. Poi non si guarda alla carta di identità; si incontrano molti direttori artistici nei loro primi trent’anni.
La seconda è stata la voglia di esplorare nuovi territori. Letteralmente, perché avrei vissuto lontano da casa, ma soprattutto artisticamente. Avevo bisogno di sentirmi fuori posto, di crearmi del “discomfort”, stimolarmi artisticamente sentendomi straniero, estraneo a tutto, in modo di innescare all’ennesima potenza il mio processo di osservazione. Per questo ho scelto il nord america, il Canada. Un terreno di cui alla mia partenza ignoravo praticamente tutto. Avevo bisogno di sentirmi lontano e dislocato.
Il mio obbiettivo era anche quello di iniziare a lavorare in lingua inglese, una lingua più universale, in modo di aprire più orizzonti e affacciarmi a un mercato più ampio”.
È più "facile" lavorare all'estero? C'è meno burocrazia? Come ti interfacci con gli enti, con i finanziatori, con i teatri, con le produzioni?
“Non è necessariamente più facile. Bisogna essere capaci di mettersi in discussione completamente. Io qua mi sono reinventato da cima a fondo. Ho dovuto imparare un nuovo modo di costruire il mio lavoro e di attrarre un pubblico che ha una forma mentis molto diversa dalla nostra. Si è proprio trattato di creare una sintassi completamente nuova.
È forse però più facile arrivare a dei risultati. C’è più concretezza. Si è più diretti nei rapporti umani. Vi è certamente meno burocrazia per qualsiasi business si voglia intraprendere (io considero il teatro un business). Per certi versi il Canada è simile agli Stati Uniti, è una terra di marketing e di concorrenza spietata. Bisogna aver ben chiaro a chi si vuol parlare. Io ricerco un pubblico che non va normalmente a teatro. Cerco persone che hanno voglia di divertirsi nel senso alto del termine. Divergere dalla propria routine, fare un salto nel buio, in una strada che non si conosce, dove ci può ritrovare a fare una carezza ad uno sconosciuto o a ballare freneticamente sotto ad un ponte.
Posso dire che ciò che mi piace di più del Canada è l’aspetto imprenditoriale del teatro. Qua è possibile assumersi un rischio economico, quasi da capocomico di altri tempi - se lo paragoniamo al panorama italiano - quasi eduardiano - e ottenere dei risultati concreti. Specialmente qua a Toronto, dove c’è molta domanda di nuovi lavori di spettacolo dal vivo. Può andare benissimo o malissimo ma è certamente possibile prendersi un rischio, sparare il proprio colpo in canna. Come dicono qua everyone deserves one shot, a ognuno spetta, un colpo, un’opportunità.
In generale a tutti i livelli ci sono meno sovrastrutture, i rapporti sono più asciutti e diretti. Ci vuole molta insistenza e determinazione, ma nessuno ti nega la possibilità di un incontro. Ci sono meno intermediari, i rapporti con le istituzioni sono più aperti. Quasi tutti i fondi ministeriali sono accessibili a tutti e ogni proposta a bandi di concorso, o a festival e partner co-produttivi, viene esaminata sempre al pari degli altri. Devi competere, sia che tu sia un artista affermato o meno. Si parte tutti dalla stessa posizione, alla pari.
Qui c’è la cultura del “pitch”, un termine che deriva dal baseball, letteralmente si tratta di “lanciare un’ idea”, nella quale diventa quasi un’arte la capacità di descrivere il proprio lavoro e dove il tuo obbiettivo è quello di far innamorare del tuo progetto il potenziale acquirente. Lo trovo un meccanismo divertente che ti spinge ad esser concreto e pensare in modo creativo a come ti vuoi presentare e inserire nel mercato”.
Come reagisce il pubblico? Se mi puoi spiegare le differenze, se ce ne sono, tra il modo di concepire una performance, per la tua esperienza, tra L'Italia e il Canada.
“Nonostante ci siano delle somiglianze nella ricezione dei miei lavori interattivi come ad esempio The Stranger, il pubblico italiano e quello canadese reagiscono generalmente in modo completamente diverso.
Trovo che spesso il pubblico italiano voglia giocare il ruolo di dar prova di essere all’altezza della situazione, di capire tutto e non essere mai completamente sorpreso. È un pubblico più formato e di conseguenza meno spontaneo. Trovo che si voglia spesso dimostrare che si conosca già la materia che si sta trattando, quasi come fosse un rito di autocelebrazione. Quello che però mi piace molto del publico italiano è che un pubblico più colto e anche un po’ più cattivo. E che forse sa cogliere meglio, e con più distacco, le varie sfumature di un lavoro.
Qua in Canada invece il pubblico non è formato, però nel senso buono del termine. Specialmente per il mio lavoro, dove ricerco sempre un pubblico di non addetti ai lavori. Gli spettatori vivono l’esperienza dello spettacolo senza filtri o schemi mentali dettati a priori. Sono più spontanei. Non hanno paura di farsi vedere entusiasti. Nonostante si riscontri a volte una certa propensione alla bontà (o al buonismo) che a volte mi infastidisce e che trovo sempre deleteria per la valutazione di un lavoro artistico, ritengo che il pubblico canadese sia particolarmente ricettivo e abbia una genuina voglia di farsi affascinare.
Un’ altra differenza è che In Italia c’è il gusto di vedere un classico reinterpretato da un regista, qui invece si preferisce ascoltare una storia nuova, è una terra ottima per chi porta avanti un discorso di drammaturgia originale”.
I prossimi progetti in cantiere?
“In questo momento sto lavorando ad un esperimento che mi diverte molto di uno spettacolo natalizio, una sorta di A Christmas Carol Italian Style. Il progetto, pensato per uno spettatore alla volta, è basato su una nota autobiografica, ripercorre la storia di un natale speso in solitudine da un immigrato italiano che sogna di fare un impossibile ritorno a casa. Lo spettacolo si svolge in un appartamento e il pubblico fa il suo ingresso nella psiche del protagonista/assente di cui ne scopre la storia attraverso i suoi oggetti e dei personaggi che rappresentano le sue proiezioni mentali.
Si entra in un’atmosfera psichedelica, in uno spettacolo giocato tra vicinanza mancata e distanza, meraviglia e incubo. Lo spettacolo sarà presentato in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Toronto.
A gennaio presenterò una nuova edizione di The Stranger all' International Theatre Festival of Kerala mentre a febbraio sarò a Berlino per sviluppare una nuova creazione a cui tengo particolarmente: Haunted Weather for a Stranger. Si tratta di un lavoro che porta avanti il mio discorso di interazione e dialogo artistico con lo spettatore. L’esperienza si basa sulla sottrazione della figura dell’artista che diventa presenza invisibile: il pubblico, da solo, entrerà in una stanza dove verrà lasciato libero di interagire con l’ambiente circostante. La stanza, piena di sorprese, è articolata come una matrioska - scatola cinese, dove il pubblico si perderà e svilupperà la propria linea di racconto, lasciando tracce della propria presenza. Tutte queste tracce verrano poi raccolte in una mostra, che andrà a creare una sorta di ossario delle comunità che visiteremo. Svilupperò il lavoro con due artisti italiani residenti a Berlino, il compositore e video artista Matteo Pennese, e la scultrice e scenografa Antonella Bersani. Alla fine della fase progettuale questo sarà un spettacolo che girerà per corrispondenza: i potenziali acquirenti riceveranno un pacco contenente la nostra “stanza” e un manuale d'istruzioni su come montarla.
Durante il corso del 2018 svilupperò anche due progetti molto grandi, il primo è una serie teatrale interattiva di cui il pubblico farà esperienza a puntate. Si chiama That Ugly Mess, un viaggio immersivo di 72 ore sulle tracce di una persona scomparsa, una sorta di live Twin Peaks, per il quale useremo come location un’intera città fantasma del sud dell’Ontario. L’altro è An incredible day (tradotto in italiano in Una giornata particolare) che coinvolgerà gli spettatori per la durata di un giorno intero. Un viaggio attraverso il tessuto urbano e suoi luoghi più nascosti attraverso gli occhi di immigrati italiani e di altre nazionalità, dove il pubblico sarà trasformato in straniero nella propria città.
Sto anche lavorando ad un altro progetto, di cui non posso rivelare molto, un vero e proprio viaggio immersivo che avrà il suo inizio in una città nei pressi di Toronto e che culminerà a Londra”.
Tornerai? Hai intenzione di tornare a lavorare in Italia? Cosa ti manca di più di Firenze e di che cosa invece sei più che soddisfatto della tua scelta canadese?
“Non so se mai tornerò. È una domanda che mi pongo spesso. Voglio certamente continuare a fare dei lavori in Italia e confrontarmi nuovamente con il territorio da cui provengo. Ma al momento non credo che tornerò in pianta stabile, ho voglia di continuare a esplorare le possibilità che questo territorio mi offre.
Di Firenze, e della Toscana in generale, forse quello che mi manca di più, sembra banale dirlo ma è vero, è la bellezza a perdifiato, camminare e sentirsi coccolato dal panorama, per dirla con Malaparte dove “tutto è gentile intorno, tutto è antico e nuovo”. Vedere attorno a me le testimonianze dei grandi uomini che ci hanno preceduto e che ci aprono la strada ovunque andiamo quando diciamo che siamo di Firenze.
Mi manca molto anche il cinismo dei fiorentini, la loro bonaria cattiveria e l’intelligenza, il sarcasmo e il gusto per la dissacrazione.
La cosa che mi rende più soddisfatto della mia scelta è di essere riuscito, partendo da zero, a crearmi un mio pubblico che è sempre in espansione e di essere in un luogo che mi permette di materializzare ogni fantasia che mi abita".
Tommaso Chimenti 07/11/2017