Nel 1914, quando l'Italia pensava di poter trovare il dinamismo per costruirsi un'identità, ignorava che sarebbe inciampata in una "cattiva dea". Elena Bucci, in scena al Teatro India di Roma dal 3 al 5 maggio, colloquia con la furia di una divinità sterminatrice.
Italo Calvino ne "Le citta invisibili" sostiene che l'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se esiste è quello che abitiamo tutti i giorni stando insieme e scrive che ci sono due modi per non soffrirne, il primo è accettarlo e diventarne parte fino al punto di non vederlo più, mentre il secondo consiste nel saper riconoscere chi e cosa, in mezzo a quell'inferno, inferno non è, e farlo durare, e dargli spazio.
Crede che la sua drammaturgia possa dare conto di quanti modi di accettare l'inferno della Grande Guerra siano esistiti da parte di coloro che l'hanno subita e combattuta?
“Penso, come di fronte ogni esperienza della vita e della morte, che abbiamo una grande possibilità di scelta anche quando a noi pare di non averla. Semplicemente si tratta di questione di libertà della psiche e di coraggio e di molti modi nei quali si affronta la paura.
È chiaro che l'esempio della Grande Guerra rappresenti un evento spaventoso, di una violenza difficile da eludere per qualsiasi individuo e da parte di ogni schieramento. Il fatto stesso di avere intenzione di sopravvivere, lasciando in disparte le categorie morali, essendo noi in parte anche pura anima, significa uscire dall'inferno. I modi nei quali ognuno sceglie di sopravvivere o meno, costituiscono un polmone attraverso il quale respirare.
L'inferno è il buio, l'infelicità di non vedere il futuro. Le voci che più colpiscono sono quelle che con evidenza hanno attraversato un'esperienza di quel genere trasformandola in qualcosa che noi riteniamo in qualche modo volontà di uscire dall'inferno, alcune figure, invece, hanno semplicemente fatto un'altra scelta.
Sono voci che appaiono più volte, si mescolano e si susseguono, una signora di Monza che non ha visto la guerra da vicino assieme a una contadina che invece soffocava nella zona del fronte, non fanno che parlare”.
Ragioniamo sulla scelta di parlare con "una Cattiva Dea", non voglio presumerle una precisa identità, piuttosto vorrei attribuirle un'allegoria: se la Prima Guerra mondiale fu un conflitto terribile e divoratore, esattamente come una divinità cattiva al quale l'eroe non ha altra scelta che opporsi, è corretto parlare del suo come di un colloquio tra le voci che hanno fatto quel conflitto e il conflitto stesso?
“Sicuramente sì. È incredibile come si accordino le nostre parti peggiori nonostante in ognuno di noi ci sia un atto celato di sorvegliarsi che reagisce e comprende il malessere di questo comportamento ma ne viene prevalso.
Ci sono potenze che si traducono in malignità e, senza dover cadere in manicheismi o moralismi biechi, andrebbe studiato il processo che trasforma una società con dei fondamenti positivi, con degli strumenti per sottrarsi alla necessità della violenza, in una cattiva dea. Ogni giorno nelle nostre paurose reazioni, nelle paure giustificate, si cela l'incomprensione stessa della paura”.
L'incomprensione stessa della paura. Nel 1968 esce di Enzo Forcella e Alberto Monticone "Plotone d'esecuzione", sulle fucilazioni di massa da parte dei comandi italiani durante il primo conflitto mondiale. Uno spaccato sulla spietata repressione dei militari disertori che so essere uno degli spunti da cui ha tratto la sua drammaturgia: perché si sceglierebbe di morire per mano della stessa patria che si dovrebbe essere eticamente intenzionati a difendere? Lei parla di incomprensione e Forcella sembra doverle rispondere con un'apologia della paura.
“Per volontà d'essere giudici della propria esistenza, per reazione di fronte alla libertà di morire che doveva scavalcare una forma di imperativo che non si percepiva come proprio.
Oltre a ciò, si deve tenere bene in conto d'essere il nostro uno Stato recente, fatto di persone che non parlavano una lingua unitaria, molte non avevano coscienza di appartenere a una nazione, non sapevano per mezzo di chi si stessero muovendo e il perché lo stessero facendo. Il mio rammarico è aver capito di sapere ancora poco, per il mio lavoro è importante entrare nella vite individuali delle persone, nei particolari in cui riemerge in bocca il sapore dell'esistenza, non posso avere l'ambizione di esaurire storicamente un argomento in modo alcuno e neanche in un piccolo particolare, però di certo posso restituire, restituire delle punte che toccano mente e cuore.
Tornando alla paura, ho memoria della sensazione di comunione che c'era tra i testimoni del dolore, mi sono resa conto che l'esigenza di molti era dire, ma la volontà d'altri era non voler ascoltare, perché non affiorassero più le immagini, per condannare la memoria, per rimarginare assieme.
Annotare e mandare a mente dei particolari è stato un modo di affermare la propria esistenza poiché la prima cosa che veniva minata era la sensazione di aver perduto la propria storia a causa di un troppo violento impatto con ciò che si vedeva e che si viveva. La loro conservazione muta e tacita si è rivelata in un patrimonio riaperto oggi al pubblico, ragazzi di vent'anni si sono trovati in mano le loro parole da riordinare.
Immagini un analfabeta scrivere per mano altrui una lettera e quanto poco involontariamente quella carta, incisa e ordinata da un altro pugno, conservi della sua vera identità. È questo il volto della paura che è un cristallo di facce: un'altra? Pensi allo spaesamento di un uomo trasportato in Friuli, quando cerca il punto più alto per vedere l'Etna e questo non gli si rivela”.
Un'altra fonte che ha citato è "Animali al fronte" di Eugenio Bucciol, una testimonianza dell'uso che si è fatto degli animali in guerra: colombi viaggiatori, orsi "da baraccone" il cui compito era distrarre dal conflitto i soldati, delfini utilizzati come radar dagli Americani nel conflitto del Golfo nel 1991 perché individuassero le mine irachene. In che modo riflette sul destino comune tra umani e animali in battaglia pensando al lungo tempo che li lega?
“Oltre all'utilizzo strumentale che se ne è fatto, mi premeva assicurarmi di quanto non fosse affatto un esperimento recente quello di ricevere una sorta di terapia dagli animali, di accorgersi della loro capacità di assorbire l'angoscia dell'uomo.
Ho voluto, tra l'altro, riportare gli esempi di questi libri, trarne stralci, a volte solo l'evocazione di un rigo, perché mi hanno nutrita: cogliere in un frammento la necessità di avere un cane al seguito a cui spesso appendere la propria vita più che a un compagno o la caparbietà di puntare al cavallo per annientarne l'uomo, sono esplosioni di senso che hanno accresciuto il mio sentire, la ricerca di immedesimazione”.
Immedesimazione. Come ha potuto la sua prova attoriale parlare di guerra e raccontare di guerra con la medesima voce di chi l'ha fatta e di chi le è sopravvissuto? Mi riferisco questa volta a quanto lei abbia sofferto, a quanto, credendo a ciò che leggeva, abbia intuito che il pubblico a sua volta le credesse.
“La fiducia è l'obiettivo di chiunque lavori per un pubblico, il mio intento era costruire un concerto. La presenza dei leggii, pur indicando una lettura, in realtà evidenzia ancor più l'effige della storia, dev'essere presente a ognuno il fatto che si tratta di una narrazione, essendo documenti e lettere altrui, la mia è una forma mediativa. Lavorando a questo modo si entra a gamba tesa nel teatro, che pare essere dimensione autoreferenziale ma ch'è orientata a compromettere il pubblico.
Tanto più se si tratta di una drammaturgia musicale, Simone Zanchini è un musicista e compositore inarrivabile.Vi sono momenti nei quali a parlare è solo la mia voce o solo il suo strumento, la fisarmonica. Ma tutto il concerto è un ancorarsi dei nostri mezzi musicali, un duetto vero e proprio, a volte un intermezzo lascia parlare registrazioni storiche o la mia voce registrata conta i morti delle guerre mondiali sulle sue personali improvvisazioni”.
Francesca Pierri 03/05/2016