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Chiacchierata con l'autore di "Stasera sono in vena"

Abbiamo incontrato Oscar De Summa all’inizio dell’estate, quando il suo ultimo spettacolo “Stasera sono in vena” stava cominciando a girare e a farsi apprezzare. Oggi , quasi a fine anno, pubblichiamo questa chiacchierata dopo che il suo spettacolo, con 14 voti, è arrivato al secondo posto, dietro il molosso “Lehman Trilogy”, nella categoria “Nuova drammaturgia italiana” ai recenti Premi Ubu. Un piazzamento che non porta riconoscimenti, medaglie, ne premi, ma certifica la bontà di un progetto che fin dalle prima battute ci era sembrato luminoso e solido.

Le ciabatte nere, i pantaloncini neri, la polo nera, il cappellino nero. Solo la barba è sale e pepe. Lunga, folta, ci immerge le mani, per consuetudine, per una sorta di lieve imbarazzo, per cercare la parola giusta. Ha il nome da premio hollywoodiano e il cognome è totale. Così tutto nero, una macchia che si aggira nel giardino della Casa delle Storie di Aurora Aru, Oscar De Summa parrebbe pessimista, negativo, appassito. Tutt’altro. Si tocca la pancia, sorride, si inarca, la risata larga, piena, corposa, pastosa. Parliamo di possibilità, aure, chakra. Aperti e chiusi. Sta leggendo un volumone sul tema. E’ di quelli che aspettano tre ore prima di fare il bagno. Vecchio stampo. Sta portando in giro il suo nuovo “Stasera sono in vena” facendo riemergere i suoi trascorsi tra eroina e Puglia, un grande salto di maturità, una prova di messa in discussione, continuare a cercare, ad indagare, senza lasciare niente in sospeso, né nasconderlo sotto la sabbia, sotto il tappeto del tempo.
Dopo ogni replica scatta un filo strano con il pubblico che vede in questo piccolo uomo un amplesso di energie, un inesauribile fonte di rinascita, di scardinamento dei percorsi esistenziali segnati, di rivoluzione, di presa di posizione, di vivere e non lasciarsi vivere. Verbi attivi e non passivi. Sembra risolto, pacificato. Ha messo da parte la rabbia, l’astio. Non cerca, ma trova. E’, senza la frenesia dell’avere. E’ l’uomo di questa estate teatrale: Modena con “Trasparenze” e Gualtieri, passando per Castrovillari per “Primavera dei Teatri”, “Inequilibrio” a Castiglioncello, Soleminis al “Cantiere”, Agriteatro ad Alessandria, Il Grande Fiume sul Po, “Kilowatt” a Sansepolcro, Le Badesse ad Ostuni, Granara dalle parti di Parma. Il prossimo anno sarà in stagione al Teatro Puccini di Firenze, al Cargo di Genova, all’Atir di Milano, al Kismet di Bari, all’Itc di Bologna.
Niente vino, molte verdure. Occhiali da sole. Scuri, ovviamente. Ma lo sguardo è chiaro, limpido, sereno. Qui dalla magnetica Aurora Aru, luogo magico che riesce a tirar fuori empatie e i fili invisibili della creatività, sta ultimando il suo nuovo spettacolo, “La sorella di Gesù”, un’indagine sulla violenza e sul tradimento, testo che ha inviato al Premio Riccione. E’ lì in cortile con la faccia di uno che vorrebbe assolutamente un’Ichnusa ma poi chiede una minerale. Ieri scirocco, oggi maestrale. Le strade dissestate, le pecore in mezzo alla strada che brucano le vigne basse mentre allungano il passo ballonzolano le mammelle rosa e la lunga coda a battere la polvere. Gli ulivi tutto intorno carezzati con vigore dal vento. Verde, tanto verde da ogni lato. Il brullo non abita qui. In tutti i sensi. Un vento che rischiara, nuvole e brutti pensieri stantii.
“Avevo venti anni e ho cominciato prima a fare teatro e poi a vederlo. Nella vita ero tormentato, depresso, agitato, il teatro mi ha costretto a stare nel “qui ed ora”, a stare in quel momento, il teatro mi ha rivelato quell’attimo. Mi sono innamorato della sensazione. Il primo spettacolo che ho visto era “Il guardiano” di Pinter con Claudio Morganti, per me un Maestro di scelte, di sintesi di un pensiero, Giancarlo Ilari e Alfonso Santagata. Per me fu un autentico choc. Continuo a lottare contro un teatro che si fa bella mostra di sé. Lo spettacolo successivo fu “Il cielo per terra” per la regia di Roberto Bacci, con le sorelle Pasello e Stefano Vercelli che alla fine correva nudo in cerchio. Il mio cervello si spaccò in due e mi dissi: a teatro si può veramente fare tutto”.
Ad un corso di formazione attoriale litigò con Thomas Richards. “Nella vita, come nel teatro, cerco la stessa cosa, valorizzare ogni minuto vissuto, essere al cento per cento dentro il momento, e come sulla scena non puoi mai assentarti, non voglio assentarmi da me nemmeno nella vita. Sono per il sì. Il sì ti costringe ad inventare nuove traiettorie, ad uscire fuori da te, ad abbattere quelli che credi siano i tuoi limiti. Nella vita, come in teatro, ti prepari il terreno, poi tutto può accadere, devi essere pronto ad accoglierlo, non puoi far finta di niente. Un tempo credevo che si poteva essere una brutta persona e un grande attore, adesso penso che non ti puoi più permettere di essere una brutta persona. Il teatro è un mezzo. Quello che cerco è pienezza. I momenti più belli della mia vita sono quelli dove non avevo niente”. Le mosche ronzano.
“Dobbiamo meditare sui luoghi, sulle persone, rimanere in ascolto, nell’abitudine all’apertura, nel gusto di ciò che verrà. Combatto la paura, il sentirsi corpi-merce. In teatro vedo con grande ottimismo situazioni come Monticchiello, la costruzione di una comunità attorno ad un bisogno, ad una necessità, come è accaduto per i No-Tav. Passione e amore sono banalmente le uniche parole con le quali ti puoi salvare. Non voglio difendermi. Il teatro è un modo per salvarsi. Non dobbiamo abdicare al presente. Se incontrassi il me dei 20 o dei 30 anni lo abbraccerei, gli direi bravo. Per lunghi anni mi sono accusato, mi davo dello stupido. Ho molta tenerezza per il me che ero”. L’odore di cipolla sale dalla cucina. Il rituale della mensa. Anche questa è salvezza.

Tommaso Chimenti 02/12/2015

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