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Le Ore Piccole del teatro indipendente: dall'Accademia Silvio d'Amico all'"Audizione". Intervista ai quattro componenti della compagnia

Le Ore Piccole” hanno un entusiasmo grande, e fanno sul serio.
Galeotto fu l’incontro all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma per i quattro componenti: Chiara Arrigoni e Francesco Toto, hanno ottenuto il diploma del Master di Drammaturgia e Sceneggiatura, mentre Andrea Ferrara e Massimo Leone quello del Triennio per Attori.
Un incontro di creatività che debutta, a fine 2016, con “Audizione”, il primo spettacolo scritto da Chiara, diretto da Francesco e interpretato dalla stessa autrice con Andrea e Massimo.
Un sodalizio professionale e umano che ha dato i suoi frutti (tra cui, ricordiamo, il Premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro, il Premio Nazionale delle Arti Miglior Drammaturgia, una Menzione Speciale della Direzione Artistica del Teatro San Genesio - Concorto 2017, la Selezione per il Festival Dominio Pubblico - La Città agli Under25 2017 e la Selezione per il Festival Milano Off 2017).
Dopo aver macinato repliche e chilometri in giro per l’Italia, Recensito li ha incontrati per capire meglio cosa significhi essere una giovane compagnia teatrale indipendente di professionisti.Orepiccole01

Dove e come nasce l’idea di “Audizione”?

Chiara: "E' uno spettacolo che si scopre poco a poco. Senza rivelare troppo, posso dire che l’idea mi è venuta l’anno scorso, lavorando per il Master a una richiesta che ci era stata posta: provare a portare una proposta per un atto unico che avesse a che fare con la contemporaneità e le sue contraddizioni. Io avevo letto qualche giorno prima un articolo di giornale che è l’ispirazione. Questo diceva che in Inghilterra c’erano dei medici che si erano ritrovati a curare pazienti sieropositivi, in quanto avevano partecipato festini super cari dove c’era un malato sieropositivo che però non si sapeva chi fosse, una sorta di roulette russa sessuale. Io ero rimasta turbata da questo mondo di ricchi disperati perché non riuscivano a dare più senso alla vita a tal punto da disprezzare la propria e invidiare chi è malato, qualcosa che interrompa la loro noia... Mi interessava parlare di chi sono questi sieropositivi, attraverso un colloquio di lavoro che parte in medias res. Io e Andrea siamo due candidati, una ragazza e un ragazzo giovani. Il pubblico capisce subito che siamo lì perché siamo disposti a tutto per avere quel lavoro. Massimo, l’esaminatore, è sadico ma tratta anche la materia con quotidianità, perché è il suo lavoro: vuole scoprire chi dei due è più adatto e più “cattivo”, chi ha la capacità di “andare oltre”, andare fino in fondo, ovvero considerare le vite degli altri meno importanti della propria, senza problemi di coscienza. Questo succede spesso anche oggi...è un’idea molto asciutta infondo, di un colloquio che sembra come mille altri. Verranno fuori le vere motivazioni dei due e anche una possibilità di contatto umano tra due persone che dal primo istante si presentano come totalmente rivali".

Ti sei ritrovata a recitare con due attori professionisti, diplomati alla Silvio d’Amico. Com’è stato interpretare il tuo stesso testo?

Chiara: "Un’emozione mai provata prima. Io ho fatto molto teatro in precedenza, prevalentemente teatro antico. Non era la prima volta che mi trovavo di fronte a un pubblico, anche molto numeroso. Mettere in scena il mio testo che è stato come essere tornata alla primissima volta sul palcoscenico. Noi tutti credevamo nella qualità del lavoro, un paio di persone erano venute a vederci in prova e ci avevano confortato molto sul fatto che fosse una cosa forte che arrivasse a chi guarda. Ma la paura della prima per questo spettacolo non l’ho mai più riprovata, neppure sul palcoscenico del Teatro India, che è stata la prima della versione estesa da cinquanta minuti [il debutto è stato al Festiva ContaminAzioni nella versione da trenta minuti n.d.r.].
È come se fosse un tuo figlio, che è figlio nostro. Ma la mattina prima della prima mi sono risvegliata con un’ansia fortissima. Tra l’altro la parte iniziale dello spettacolo è tutta sulle spalle dell’esaminatore, una sorta di “one man show”. Il mio personaggio inizia a parlare dopo dieci minuti di silenzio e terrore. Io sono rimasta quei primi dieci minuti a incamerare quel senso d’ansia. La mia ansia però viene sfruttata sulla scena, io la uso. Quando ci sono repliche in cui non ho ansia cerco di farmela venire".

E il regista, alla sua primissima esperienza, come ha lavorato?

Francesco: "Ho letto il lavoro di Chiara, sapevo l’idea ma non gli sviluppi narrativi. Era una bozza senza un reale finale. Non mi sono approcciato visivamente alla storia come prima cosa, ma da collega. Ho preso il testo, ho fatto le mie annotazioni da editor e non da regista. Ho fatto le mie proposte e siamo partiti dal testo in divenire che era molto potente di base, ma non sapevo dove saremmo arrivati. Ho sperimentato molto con loro. Abbiamo fatto anche un sacco di esercizi, molti tentativi. Ma ho sempre voluto accompagnarli in questo viaggio, non è mai stato un semplice: fai così!"

Orepiccole03E per voi, attori, com’è stato lavorare con coetanei neodiplomati?

Andrea: "L’umanità messa da Francesco in questo lavoro gli ha permesso di guadagnarsi il titolo di bravo regista. Certo, non aveva il metodo di preparazione di chi ha studiato per questa professione. È vero che la tecnica è necessaria per dirigere, ma se non c’è, quello di cui ci si può servire è l’ascolto della persona, il contatto umano che poi diventa contatto artistico. Capire come è fatta la persona che hai davanti, capire il personaggio e trovare un punto di contatto. Lui mi ha fatto fare esercizi che hanno dato vita a un personaggio autentico, reale. In alcuni momenti è stato molto severo, ma è la severità di cui avevo bisogno, grazie a quella si rinnovano gli stimoli".

La cosa più “severa” che il regista vi ha detto?

Andrea: "Eravamo nel giardino dell’Accademia e ha iniziato a volermi far lavorare sulla tensione relativa al mio personaggio. Pensavo stesse interpretando il ruolo dell’esaminatore, spronandomi e trattandomi molto duramente. Mi ha proprio detto “mettiti d’impegno!”. Ma non era basato sul personaggio, ma su Andrea. Questo tipo di spettacolo dovrebbero farlo tutti gli attori, sono quei tipi dove se non sei teso dall’inizio alla fine vengono male. Quando hai un po’ di esperienza verrebbe naturale mettere “il pilota automatico” e usare solo la tecnica, magari vengono cose buone ma dai la metà di quello che potresti dare al pubblico".
Francesco: "Noi dobbiamo consegnare il nostro miglior possibile. Gli ho chiesto se voleva fare davvero questo mestiere, perché ce la doveva mettere tutta soprattutto perché siamo all’inizio, ed è un po’ una metafora anche per il suo personaggio. Questo lavoro l’ho fatto perché mi piace ma l’ho fatto anche per loro, perché non ho mai pensato di fare il regista prima. È una grandissima responsabilità, a volte si è costretti a essere particolarmente diretti con il proprio gruppo di lavoro".

Per Massimo: come hai fatto a costruire il personaggio dell’esaminatore, forse più distante rispetto al tuo essere un giovane?

Massimo: "Ho pensato a tante cose che mi facevano arrabbiare. In parte porti sempre in scena qualcosa di tuo come persona, ma principalmente il lavoro dell’attore è calarsi nei panni di una persona anche molto diversa da te, ti estranei.
Ho cercato di capire cosa potesse volere un esaminatore nella sua posizione. Ho usato anche tante cose di background abbastanza approfondito, ho inventato molto per mettere poco di mio. Ci sono svariati modi per arrivare a un personaggio, l’importante è che sei tu, attore, ad arrivare a lui, e non farlo calzare semplicemente su di te".
Francesco: "Con Massimo ho lavorato in modo del tutto diverso rispetto agli altri due. So che è un grande professionista. Le parti di Andrea e Chiara sono emotive, mentre per Massimo è recitare qualcosa di veramente altro. Abbiamo anche usato riferimenti cinematografici. Meno emotività e più presenza scenica, d’altronde Massimo regge molto spettacolo sulle spalle. È una sorta di regista all’interno dello stesso spettacolo, perché dà indicazioni agli altri due personaggi, come una dimensione “meta-teatrale”. Non avendo diretto nulla prima, ho cercato sempre di essere “pubblico”, guardare una performance e capire quello che non va, quello che non piace. Si lavora su quello che non va e si salva quello che va. Sono un critico, solo che lo faccio con persone vere che devono affrontare la critica ed essere mature abbastanza per accettare di rifarlo".

Quindi ora siete una compagnia...

Chiara: "Sì, Le Ore Piccole. Anche se come giovane compagnia oggi, non ci si può limitare solo al proprio lavoro creativo, ma essere pronti a fare altre mille cose, tra cui gli aspetti tecnici, promozionali e amministrativi. Per esempio la prima cosa che abbiamo fatto dopo “ContaminAzioni” è stata una giornata dedicata alla ricerca di più bandi possibili per candidarci e a redigere una lettera di presentazione dello spettacolo, che non avevamo mai fatto prima. Ci piaceva investire sulla compagnia perché ci siamo trovati bene a lavorare insieme su un progetto che si basasse su un’idea, che avesse qualcosa da raccontare. Il teatro ha allontanato le persone forse perché ha perso anche la semplicità e il gusto di raccontare una storia e un’idea".
Francesco: "Noi vogliamo consegnare un messaggio, che sia il più chiaro possibile. Bisogna trovare una cosa da dire e consegnarla in maniera intellegibile. Portare troppo stile e troppo forma può allontanare il pubblico, perché non capisce, si sente trattato male o preso in giro dopo aver pagato un biglietto. Invece se il pubblico capisce lo spettacolo, e ti dice le stesse cose che hai pensato anche tu mentre lo stavi realizzando, senti di aver lavorato in maniera corretta".

Progetti futuri?

"Il festival Fringe a settembre, ci esibiremo al Teatro San Genesio di Roma e prossimamente a Pescara dove grazie a Massimo abbiamo trovato una produzione presso il Teatro Florian. In ottobre saremo all’interno di “ContaminAzioni”, il festival dell’Accademia Silvio d’Amico. Oggi è interessante partecipare ai festival con testi scritti di da soli, ex novo. Portare l’ennesima versione di un autore non è negativo, però per noi è poco interessante. Anche per noi attori è interessante la sperimentazione. Il teatro è un mezzo per raccontare una storia che conoscono in pochi, o una storia che si conosce di cui si scopre il suo lato oscuro. È più rilevante questo, per noi. Questo è un mondo in cui si hanno molte cose da dire, non avrebbe senso che a teatro si raccontassero sempre la stessa storia, quando poi ci sono ottimi sceneggiatori che creano serie bellissime". Orepiccole04

Per dedicarsi a questo lavoro forse ci vuole una certa “fede”. Il percorso è in salita, all’inizio i soldi sono pochi o non ci sono. Cosa vi spinge a intraprendere questa strada?

Massimo: "Non mi piace parlare di fede perché porta a un fanatismo che ti fa perdere di vista alcune cose. Posso parlare di grande passione. Il teatro non salva il mondo però per me è l’unica cosa nel tempo che mi riesce meglio delle altre e mi fa anche stare bene, scopri continuamente cose del mondo e degli esseri umani".
Francesco: "Perché mi piace fare questo. Ora mi sta mantenendo, per me è un lavoro ed è quello che voglio fare. So cosa vuol dire passare la vita facendo cose che non si vuole fare, perché hai bisogno".
Chiara: "C’è domanda e offerta anche in questo lavoro. Non è solo ciò che si ha bisogno di fare e di dire, ma è anche importante che possa interessare a qualcuno. Non tutto è “degno” di essere ascoltato".
Andrea: "Sulla fede voglio dire una cosa. Il primo insegnante di teatro con cui ho lavorato, al liceo, mi disse: Per essere felici bisogna rispondere sì a tre domande: sei con le persone con cui vuoi stare? Sei nel posto dove vuoi essere? Stai facendo ciò che vuoi fare?
Poter mantenere costantemente il “sì” a queste tre domande è quello che voglio. Questo mi fa dire io continuo, ho diritto e dovere di prendermi questi tre sì”.

Agnese Comelli 02/07/2017