Cammina nel traffico metropolitano, tra fumi di scarico e clacsonisti indolenti, ma non si risparmia nelle risposte e si racconta con gentilezza ed eleganza. Micaela Esdra sarà sul palco del Palladium dal 20 al 25 ottobre per diffondere il testamento di Sarah Kane, Psicosi delle 4.48, diretta da Walter Pagliaro. Noi di Recensito l'abbiamo raggiunta al telefono per riflettere sul ruolo dell'attore e parlare di ciò che è stato e di ciò che è oggi il "godimento vero" della sua vita, il teatro.
Vorrei cominciare da Sarah Kane. Cosa l'ha affascinata della personalità dell'artista inglese?
"Guardi, è molto complesso dirlo, perché è stata una creatura singolare nel panorama contemporaneo. Ha scritto solo cinque opere, come lei saprà, tutte frutto di sensibilità, purezza, di furia nei confronti della condizione dell'essere umano veramente rare. Psicosi delle 4.48, poi, è un piccolo discorso che ha fatto dieci mesi prima di morire, uno suo testamento di morte ma anche di vita, di grande poesia ed effervescenza. Io mi avvicino a questo testo con umiltà e col timore di non essere all'altezza di tale creatura, che ha vissuto sulla propria pelle la sua grandezza e contemporaneamente la condanna che una società ipocrita le ha inflitto, per le grandi sofferenze professionali subite al suo esordio e anche dopo: è stata accusata di essere volgare, ma in realtà è un giglio nel panorama di tutta la scrittura moderna. Mi ha affascinato tutto di lei e ho tentato, nella mia interiorità, di rendere ciò che è un tormento di purezza e non di morte, un grande inno alla vita. È come se si assumesse tutte le colpe dell'essere umano e preferisse morire. Conclude il testo dicendo – e sei mesi dopo si è uccisa – "non ho nessuna voglia di morire, nessun suicida ne ha mai avuta". Credo che le sue parole parlino per lei. Cosa affascina di Sarah Kane? Lei, la sua intelligenza, la sua superiorità. Ci si sente inadeguati non dico a rappresentarla, perché sarebbe offensivo, ma a cercare di essere sua portavoce."
Lei ha spesso confessato di credere molto nell'immedesimazione. Allora le chiedo – ma in parte ha già risposto – che tipo di lavoro ha svolto in Psicosi delle 4.48? Un testo in cui peraltro non ci sono personaggi definiti.
"Ma infatti è sbagliato, secondo me, definirlo monologo. Non ho tentato di interpretare questa creatura, perché non è un personaggio. Noi attori siamo chiamati a disegnare delle altre creature annullando tutto quello che c'è dentro di noi, cercando di avvicinarci il più possibile all'astrazione, perché così si riescono a dare emozioni – tramite l'astrazione, non tramite la verità – e ci si avvicina al fatto artistico. Ecco, questo non è un testo da interpretare: bisogna avvicinarsi a questa creatura come un essere umano e tentare di raccontare agli altri, che sanno cogliere solo la superficie di quello che c'è scritto e che può essere una bestemmia, o una parolaccia. Bisogna cercare di raccontare l'altezza morale di una creatura che si rifiutava di vivere (è morta nel 1999). Se fosse vissuta non so cosa avrebbe potuto scrivere oggi, con quello che l'essere umano sta diventando."
È una riflessione emersa anche col dottor Pagliaro: anche lui si è chiesto cosa avrebbe potuto scrivere Sarah Kane, se fosse vissuta oggi.
"Certo. Questo testo poi non ha nulla a che vedere con le altre quattro cose che lei ha scritto per il teatro, che invece sono creazioni fantastiche e molto particolari. Le letture preferite della Kane andavano da Beckett a Seneca. In molti pensano che sia una moderna scrittrice arrabbiata, no. È – era – una persona di grandissima cultura: io la definirei un'autrice classica, di grandi radici e di grandissima forza culturale. Psicosi delle 4.48 è il frutto di un'anima che cede, che si assume tutte le responsabilità dell'essere umano e preferisce non esserci. Questa è Sarah Kane. Io non mi avvicino al testo come attrice, ma come persona cerco di raccontare che può anche essere possibile la scelta di non esserci, il che non significa essere pazzi o malati. Cerco di avvicinarmi come donna a una grande donna."
Facciamo un passo indietro. Tra i nomi che hanno segnato l'avvio della sua carriera ci sono Folco Quilici, Mario Bava e Luchino Visconti. Nomi altisonanti. Quanto conta – guardando anche alle giovani generazioni – avere un punto di riferimento di tale calibro?
"Io ho cominciato a fare questo lavoro molto presto e ho avuto la gioia e la fortuna – devo dire anche grazie alla Rai – di lavorare a 14 anni con Salvo Randone, a 15 anni con Rina Morelli e Paolo Stoppa. La mia estrazione professionale è quella e in quella io credo, per me è stato determinante e lo è ancora. A 23 anni ho conosciuto un grande maestro, Giorgio Strelher, che mi ha insegnato che la recitazione non può prescindere dalla musica. Sono tutte teorie di cui io sono convinta, ma forse oggi non vanno più tanto di moda. Ma a me non interessa. Oggi, sa, va di moda avere una pronuncia dialettale (ride, ndr), non recitare. Per me ci sarebbe da discutere molto di tutto questo. I ragazzi oggi purtroppo non hanno la fortuna di conoscere persone che possano insegnar loro qualcosa. Questo è il motivo per cui la gente chiede il teatro – e va magnificamente – ma il potere sta cercando di eliminarlo. Poi Roma è in una situazione drammatica. I ragazzi purtroppo non capiscono cosa significhi acquisire un bagaglio tecnico, che unito alla sensibilità e allo sviluppo interiore forma l'attore. D'altra parte, oggi molti al cinema e in tv insegnano a star fermi e non parlare l'italiano, e praticamente l'attore è ridotto a un disgraziato che non ha opinione, non ragiona e non apporta nulla di suo al proprio lavoro, non è padrone del proprio lavoro. I ragazzi, invece, devono capire che devono diventare proprietari della loro professione. E tutto questo si ottiene solo con un bagaglio tecnico che ti possono insegnare i grandi, sviluppando la tua personalità al massimo. Questo è quello di cui io sono convinta, poi può anche essere fuori moda, non lo so."
Sicuramente è una visione figlia di una certa rivoluzione culturale che lei ha vissuto. Il teatro e l'Italia degli anni Settanta erano molto diversi da oggi.
"Certamente. Però, siccome siamo in un'epoca in cui si parla tanto della dignità dei lavoratori, ricordiamoci della dignità degli attori, che non sono presi in mezzo alla strada e non sono dei numeretti in mano a chi deve lucrare. È una professione di altissimo livello, che racconta e disegna altri esseri umani: è una professione filosofica. Si ha il dovere di comunicare questo ai ragazzi. Io mi son trovata con ragazzi piccoli che vengono a teatro e chiedono "come devo fare? Io vorrei fare Braccialetti rossi". Capisce? Tu puoi anche farti odiare da un ragazzo, ma hai il dovere di dirgli la verità. E cioè cosa significa fare questa professione. Poi fare i soldi è un'altra cosa, ma bisogna combattere chi pensa che fare l'attore consista semplicemente nell'aprire bocca, non è così. Purtroppo accade solo nel nostro Paese, perché se lei va in Germania, in Francia e in Inghilterra ciò non esiste. Si può fare tutto nella carriera, anche un lavoro commerciale – non è detto che uno debba fare per forza Shakespeare – però prima bisogna capire che cos'è questa professione."
Scorrendo i titoli degli spettacoli da lei messi in scena con Walter Pagliaro mi è venuto in mente La Venere in pelliccia, film di Roman Polanski che tratta il tema del rapporto tra regista e attore. Ecco, senza peccare di indiscrezione, mi piacerebbe capire che binomio è quello con Walter Pagliaro.
"Siamo stati tutti e due allievi di Giorgio Strelher e abbiamo lavorato molto al Piccolo Teatro e fuori. Nel 1991, 24 anni fa, abbiamo fondato l'associazione culturale Gianni Santuccio – non so quanti anni lei abbia, ma sa sicuramente che è un grande del passato – forse il più grande attore italiano mai esistito, protagonista del Giardino dei Ciliegi di Giorgio Strelher, un attore fantastico. Gli abbiamo dedicato la nostra associazione e producendo un grande spettacolo, durato tre anni – Signorina Else di Shmitzler – abbiamo avuto enormi soddisfazioni. Ci è stato dato l'onore di gestire il Teatro di Villa Lazzaroni a San Giovanni, e l'abbiamo gestito per 5 anni grazie a colleghi che sono venuti a lavorare anche gratis pur di cimentarsi e sperimentare. Dopo cinque anni – non le sto a dire chi e quale partito – il teatro ci è stato tolto – facevamo un repertorio molto importante, capisce? Sofocle, Pirandello e altri – ed è stato dato a Franco Califano. Basta, non aggiungo altro. Abbiamo fondato l'associazione perché se stai ad aspettare le istituzioni...un giorno ti fanno fare una grande regia e l'anno dopo ti fanno dire due battute o ti lasciano a casa per due anni. In questi 24 anni – e devo ringraziare Walter Pagliaro perché mi ha fatto capire che dovevo cimentarmi in cose più difficili, anche rinunciando alle paghe di un teatro stabile – abbiamo fatto cose straordinarie, che neanche pensavo di poter fare. Ho fatto, grazie e insieme a Walter, La marchesa Von O, due ore e venti, con i burattini. Al Teatro dei Documenti di Luciano Damiani abbiamo fatto una stagione su Kleist, con la Pentesilea e altro. Erano degli esercizi di teatro e recitazione, che nelle strutture pubbliche non vedi perché devi dire "sì", "va bene", "il pranzo è servito". Poi se telefona, mi scusi (sorride, ndr), la segreteria dell'onorevole allora forse fai un protagonista. Per il regista non ne parliamo, altro che segreteria. Io penso che delle persone serie debbano, a un certo punto, anche poter dire "cosa sono capace di fare", "fino a dove arrivo". Naturalmente, contemporaneamente Walter ha fatto cose a Siracusa e io per conto mio altre cose a Tindari e Segesta, ma ci siamo anche messi alla prova di fronte allo specchio, e non abbiamo ancora perso il nostro lavoro come invece è successo ad attori e registi che non hanno avuto il coraggio soprattutto di rinunciare ai soldi. Perché in fondo è di questo che si tratta."
Un'ultima curiosità. Lei ha spaziato dal teatro al cinema alla tv, senza tralasciare ovviamente il doppiaggio, una delle sue prime cifre artistiche. Tra queste, quale dimensione preferisce?
"Beh, insomma, il teatro è la cosa più bella e divertente che si possa fare. È un viaggio che tu intraprendi – e non è retorica – per conto tuo, nella libertà, nella tua interiorità. Quando vai in scena, in quel momento lì, possiedi la tua professione. Nel cinema sei comunque in mano agli altri, che se vogliono ti tagliano. Ma quando vai in scena sei tu che fai lo spettacolo, sei nudo, la gente può leggere tutto di te e tu puoi leggere tutto del pubblico che ti sta ascoltando. Questo è un godimento senza fine. Poi il resto è divertente, certo. Il doppiaggio, se è fatto a certi livelli come io ho avuto la fortuna di fare – ho avuto dei maestri indimenticabili come Pino Lochi o Ferruccio Amendola – è un lavoro bellissimo, se è fatto come routine è la morte di un attore. Io penso che il teatro sia un godimento vero, quello fatto sul serio. Poi se dovessi andare tutti i giorni a fare "il marito di mia moglie mi tradisce", in questi spettacoli che circolano per Roma, beh, allora lì ti spari."
Daniele Sidonio 16/10/2015