Antonio Zavatteri è Cyrano, nel Cyrano De Bergerac di Edmond Rostand, per la regia di Carlo Sciaccaluga e Matteo Alonso, in scena dal 3 all’8 novembre al Teatro Parioli Peppino De Filippo di Roma. Recensito lo ha incontrato che chiedergli la sua idea di resistenza e l’evoluzione della sua carriera, dal teatro al cinema, passando per le serie (come Gomorra) e la televisione.
Cyrano de Bergerac, poeta, primo precursore della fantascienza, destreggia le parole al pari della spada, basti pensare agli elogi dei nasi pronunciati o alle sue lettere d’amore. In un teatro che ha visto negli ultimi anni lo sfibramento del testo drammaturgico, dei dialoghi e l’esilio della parola crede che la figura di Cyrano può rappresentare l’emblema della resistenza della parola sul palcoscenico?
"L’arte creativa drammaturgica, ormai da decenni si è dedicata per lo più all’atteggiamento cinico degli esseri umani, ed è comprensibile, visto che il cinismo è diventato l’atteggiamento dominante. La comunicazione si è svuotata, ridotta all’osso, o quando ridondante rimane povera di immagini, pertanto anche la scrittura si è adeguata nella forma e nel racconto.
Cyrano è il simbolo, l’icona del pensiero libero, dell’azione e della creazione di immagini e di bellezza attraverso la parola. Abbiamo osservato che il pubblico ha ancora voglia di un teatro in cui la parola è il fulcro dello spettacolo, naturalmente senza soffocare l’azione e le relazioni fra i personaggi, e se forse parte timoroso di assistere a persone che comunicano in versi e rime alla fine ne viene affascinato."
Secondo Calvino, grande estimatore dell’ ”immaginoso cosmografo”, Cyrano ha sentito il problema di sottrarsi alla forza di gravità, stimolando la fantasia, offrendo un campionario illimitato di modi stravanti per salire sulla luna. Se volessimo attualizzare la sua operazione da quale “peso” vorrebbe sottrarsi e con quali mezzi?
"Vorrei sottrarmi dal peso che mi procura l’ansia produttiva, di creatività, non liberarmi dal desiderio della produzione creativa, ma, ripeto, dall’ansia che questa mi procura, la continua rincorsa del trovare spazio e possibilità di esprimermi. Come mezzo per poter raggiungere lo scopo vorrei esattamente la capacità incantatrice di Cyrano, e quindi tramite la capacità che lui ha di creazione immediata di bellezza, senza tempi di riflessione, e con leggerezza."
Lei ha già lavorato in altri spettacoli con il regista Carlo Sciaccaluga? come si è trovato a lavorare con un regista così giovane? Com’ è nata la vostra collaborazione?
"Cyrano è stato il primo spettacolo che ho fatto con Carlo (che ha firmato la regia insieme a Matteo Alfonso), e successivamente ho fatto Otello (nella parte di Jago). Con lui mi trovo molto bene, ha una capacità notevole di affrontare la drammaturgia e di analizzarla con competenza rara per la sua età. Naturalmente ha bisogno di crescere, ma di questo ne ha bisogno chiunque. La nostra collaborazione è nata anni fa quando ha fatto da assistente ai nostri spettacoli, recitando talvolta anche dei piccoli ruoli, e quando mi ha proposto di fare Cyrano ne sono stato felice. Sono incuriosito dal lavoro e dagli incontri con nuovi registi a prescindere dalla loro età ed esperienza."
Dal suo esordio nel 1993, com’è cambiato il teatro in questi anni? Come si è evoluto il suo rapporto con il teatro?
"Per quanto riguarda il teatro in generale, non mi sembra che ci siano stati particolari cambiamenti, le stagioni dei teatri ‘pubblici’ sono sempre abbastanza povere di idee anche a causa delle regole ministeriali, della non sufficiente relazione fra successo di una produzione con il successo della distribuzione dello stesso, insomma per riassumere: l’eterno problema della mancanza di successo del merito. Il fatto che ci siano meno soldi non credo che abbia determinato un deterioramento della qualità, ma sicuramente un impoverimento della categoria dei lavoratori teatrali, soprattutto per gli attori, che incomprensibilmente sono sempre la categoria più tartassata dai tagli. Il mio rapporto con il teatro invece è cambiato soprattutto nella sua esclusività rispetto alla mia attività: mentre un tempo ritenevo importante solo fare teatro e crescere come attore con l’esperienza e lo studio in palcoscenico, ora sto provando un grande interesse e passione per la macchina da presa e per tutte le difficoltà che comporta il lavoro in cinema e televisione."
Lei è anche regista teatrale, dal 21 novembre debutta al Teatro Duse di Genova Le Prènom (Cena tra amici). Cosa la spinge a scegliere un testo da portare in scena?
"Per me e per la mia compagnia è sempre un parto lungo e complicato la scelta di un testo, perché per vari motivi, non abbiamo quella libertà che ci piacerebbe avere. Dobbiamo fare i conti, con chi co-produce volta per volta gli spettacoli, con la possibilità successiva di vendita, con il numero di attori e tecnici necessari alla messa in scena; e naturalmente, cercando di non farlo diventare elemento secondario, i nostri desideri e passioni. Purtroppo in questo periodo non si può e non si dovrebbe non tener conto della diffidenza del pubblico per il teatro, spesso considerato una forma di spettacolo noiosa, a volte non a torto, e quindi sono fermamente convinto che ogni scelta debba tener conto del luogo e delle persone per cui andrà in scena, siamo ad un punto della storia teatrale in cui è necessario recuperare affezione."
Lei ha recitato nella prima stagione di Gomorra, cosa pensa della fidelizzazione del pubblico? É immaginabile una serialità a teatro?
"So che sono stati fatti dei tentativi, come ad esempio con Bizarra di Spregelburd, ma non credo con risultati clamorosi, ovviamente presenta una difficolta intrinseca: mentre una serie tv si può seguire in qualsiasi momento, anche tenendo le puntate sul proprio computer e guardandole in qualsiasi momento, le eventuali puntate di una serie teatrale bisognerebbe seguirle in preciso luogo a quella data e ora, è già complicato portare persone a teatro per un singolo spettacolo figuriamoci per varie puntate. Detto questo, certo è però che sarebbe affascinante e interessante come forma, ma sarebbe possibile in spazi con un pubblico appassionato, ‘formato’ e appunto fidelizzato, come per eventi eccezionali quali lo spettacolo di 24 ore Mount Olimpus di Jan Fabre o cose del genere."
Gerarda Pinto 11/11/2015