Riprendere un testo complesso come quello de "La donna del tenente francese" non è sicuramente una scelta convenzionale, almeno all'interno di un contesto come quello della rassegna celebrativa Pinter's Party, promossa dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Nella cornice delle opere del grande drammaturgo, poeta, attore e sceneggiatore per Giacomo Bisordi, giovane regista diplomato in Accademia, è risultato emblematico pescare dal panorama probabilmente più ostico, ma non per questo meno interessante, dell'adattamento scenico di un reading teatrale di un'opera per il grande schermo. In attesa dello spettacolo, che avrà luogo dal 15 al 17 Giugno al Teatro dei Dioscuri di Roma, Recensito incontra il giovane regista lucchese per provare a scoprire cosa si cela dietro questo affascinante tassello del progetto dedicato ad Harold Pinter.
Perché "La donna del tenente francese" è risultato per te essere emblematico per questo Pinter's Party?
Per diverse ragioni. Quella più pratica, più efficace e con meno passaggi -come diceva la teoria di Occam- è perché il testo ha un numero nutrito di attori, e a me piace molto lavorare in questo modo. Poi perché è stimolante e perché credo molto in una composizione che tenga conto dell'interscambio e della contaminazione di gruppi/ensemble che nascono, vivono e muoiono per lo spettacolo. A differenza dei testi teatrali di Pinter, questo, essendo una sceneggiatura, ha un'ampia gamma di personaggi. Un'opportunità da sfruttare, dunque, anche per un reading scenico.
Quale è la sfida, a tuo modo di vedere, con la lettura in scena di una sceneggiatura scritta per il cinema? Anche Mark Healy ne ha fatto una rappresentazione teatrale nel 2006, ma si era basato sul romanzo di John Fowley e non sulla sceneggiatura di Pinter...
Il fatto che non ci sia stata una rappresentazione teatrale precedente sicuramente ha portato ad un ulteriore interesse, da parte mia. Mi ha intrigato molto, ad esempio, la scelta che ha fatto Ronconi con "Lolita": mettere in scena una sceneggiatura, con tutto il bagaglio di informazioni e dettagli che questa porta con sé. Pinter stesso dice che scrivere per cinema e scrivere per teatro è differente per i mezzi. Per il cinema servono però dieci parole. Per il teatro venti. Il problema fondamentale è che si hanno dunque tante piccole scene, e metterle in piedi a teatro necessita di una fluidità che deve trovare il modo di compensare l'assenza di parole.
La potenza della metanarrazione è un ulteriore punto chiave? La relazione tra i personaggi e i narratori è materia importante all'interno delle scatole cinesi della narrazione pinteriana...
Pinter è un autore straordinario, così come questa storia, proprio in virtù del fatto che all'interno di questa ci sono almeno tre livelli: il primo, quello "piuttosto banale" -come dice il protagonista stesso- è la storia vittoriana; poi ci sono gli attori chiamati a recitarla sul set; infine c'è un autore che questa storia l'ha effettivamente scritta. Progressivamente i mondi, come insegna la drammaturgia da Eschilo in poi, iniziano ad “andare in guerra”. Mike scopre che il momento del film è l'unico momento in cui riesce a stare con la donna che ama. E da lì si immerge nel film stesso. Lo spettatore avrà degli indizi sui livelli narrativi, e pian piano questi si fonderanno insieme. Il mio obiettivo è disperdere questi contorni, senza intellettualismi forzati, ma seguendo questo meccanismo a scatole cinesi.
Come credi si possa definire il post modernismo nel teatro? Quale pensi siano gli elementi chiave di questa etichetta, seppur naturalmente, molto spesso, generalista. Un processo che da un certo punto di vista si può iniziare ad ascrivere a Pirandello e arrivare ad uno sceneggiatore come Charlie Kaufman, che ha sempre citato Pinter stesso nel suo modus scribendi...
Questo è decisamente un romanzo postmoderno. Vero è che questo fattore porta una distanza narrativa che mette insieme connotazioni profondamente diverse. Io sento di esserne completamente imbevuto, sia in termini biografici che artistici. Sento di aver bisogno di scoprire questa gabbia e fare i conti con essa. Mi entusiasma la distanza con questo sistema di rimandi, di ironia, di scambio. Sono sicuro che gli spettatori vorranno sapere come va a finire la storia vittoriana, in fin dei conti. Ma questa storia è una trappola che Pinter prepara per parlare in realtà di altre cose. Lo spettacolo per me potrebbe essere in sinossi solo "il più grande spettacolo vittoriano". Ma, naturalmente, c'è molto altro.
Dopo "The Republic Of Happiness" sentivi il bisogno di confrontarti con una nuova sfida personale? Lo spettro del low budget credi sia -in generale- un peso ineludibile per arrivare a confezionare certi prodotti di qualità o pensi che possa fungere talvolta da moto e fiamma per tentare qualcosa di significativo e innovativo?
Per ora le mie regie sono state autoprodotte o sono state sostenute da un basso budget. Questo tipo di rapporto, diverso dal mio lavoro come assistente in grandi produzioni, è importante perché permette vengano fuori lavori come questo, in cui quello che c'è diventa l'essenziale, come le parole stesse di Pinter. Quello che lui dice non può essere troncato neanche di una parola. L'idea è dunque costruire con quello che hai. L'ambizione è enorme ma non è un discorso semplicistico: la grande difficoltà e allo stesso tempo il desiderio/piacere di fare questo lo si vede dall'atteggiamento degli attori. Il low-budget è un propulsore, anche se non puoi fare sempre ciò che vuoi. Devi, di volta in volta, lavorare con quello che hai.
Pensi che il teatro si affaccerà anche ad altre arti per trovare nuova linfa? Il fumetto, i racconti in musica, i videogame…
Le generazioni che si affacciano a questa disciplina antichissima hanno una formazione sempre più permeata di altre forme artistiche. Inevitabilmente un ragazzo di vent'anni è condizionato dal modello "Avengers". Altrettanto inevitabilmente il ritmo della fruizione e quello del racconto devono cambiare con il mondo nuovo. Io arrivo da Lucca e il Lucca Comics & Games è stata la mia casa: c'è molto di tutto questo dentro questo ultimo lavoro. Mi sembra inevitabile, dopotutto. Trovare nel teatro una possibilità di comunicazione e sapere sfruttare questo ritmo -non necessariamente bombardamento- con una consapevolezza sicuramente ponderata: quella sarà la vera sfida del teatro prossimo.
Davide Romagnoli
31/05/2018