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“2115” di Dynamis Teatro: tassonomia del presente per la società del futuro. Un racconto del direttore artistico Andrea De Magistris

Dynamis Teatro, giovane e intraprendente formazione romana, non smette di sorprendere. Sabato 4 giugno la compagnia diretta da Andrea De Magistris sarà in scena al Teatro India di Roma con “Alice”, l’incontro di due percorsi formativi finanziati da Associazione AMICI DEI BIMBI Onlus e condotti da Dynamis presso il Teatro Vascello e il reparto di Neuropsichiatria dell’Ospedale Bambino Gesù. In scena venti ragazzi, adolescenti o poco più, ciascuno con la sua identità, le sue specificità.
Il mondo degli adolescenti è sempre stato al centro dell’interesse per la compagnia Dynamis, che però non ha mai inteso formulare un giudizio su quel mondo (si veda ULTIMI, per esempio), solo presentarlo, esporne i valori predominanti. Sulla stessa linea, nel tentativo di restituire una visione oggettiva, quasi una tassonomia del reale, si situa un progetto straordinario che Dynamis sta portando avanti da circa un anno: 2115.
Andrea De Magistris e la compagnia Dynamis stanziano per un breve periodo in un luogo dove viene approntata una camera neutra, una sorta di confessionale in cui le persone si recano, di propria spontanea volontà, responsabilizzate dynamis1dall’invito a lasciare un messaggio per il futuro. I materiali raccolti vengono racchiusi e interrati in un luogo simbolico, durante una performance aperta al pubblico. Queste “capsule del tempo”, che contengono materiali in formati diversi, di tipo analogico e digitale – perché «il medium» è anche «il messaggio», direbbe Marshall McLuhan – saranno aperte nel 2115 grazie ad accordi con gli enti dei vari luoghi che hanno accolto l’iniziativa.
Presentato finora in tre luoghi, Pergine Valsugana, Grosseto e Roma, 2115 è un progetto dal valore inestimabile, che speriamo possa essere veicolato almeno in parte dalle parole di Andrea De Magistris, in questa intervista, e che abbia seguito ovunque, in Italia e all’estero.

Siete stati prima a Pergine Valsugana, poi a Grosseto e ora a Roma, nel tentativo di classificare una società, costruire una geografia, con tutti i suoi aspetti antropologici, sociologici. Come è nato il contatto con la Luiss? E poi, rispetto alla mappatura che state creando, quali differenze avete riscontrato nel corso dei vostri attraversamenti?
“Il contatto con la Luiss è nato in una maniera un po’ bizzarra, mi piace raccontartela. Una nostra allieva, di un liceo, si è iscritta alla Luiss, un’università notoriamente di prestigio frequentata da persone con un certo tenore di vita. Questa ragazza viene da tutt’altra condizione, ma è riuscita a iscriversi grazie a una borsa di studio. Era molto entusiasta del nostro lavoro e dei nostri laboratori al Vascello, e allora è andata a bussare alla porta del Rettore e gli ha detto: “Qui, in questa Università di prestigio, si parla di molte cose, di marketing, di economia, di storia, ma non si parla di relazioni umane. Io conosco un gruppo di persone che lavorano sulla valorizzazione delle relazioni umane”. Il rettore ci ha fatto così subito convocare dalla responsabile delle “soft skills”, le materie integrative rispetto a quelle ordinarie, e ci hanno inserito. L’anno scorso abbiamo fatto una prova di cinque appuntamenti, un piccolo seminario che si chiamava “Open”, di apertura, sulla relazione umana fisica, non verbale. E quest’anno ci hanno inserito proprio nel sistema di studio. Ho appena concluso un ciclo di seminari con questi ragazzi della Luiss. Effettivamente ne hanno bisogno, perché si tratta di un’Università che per le specifiche che ha predilige un certo tipo di studio e di attenzione. Dall’imprenditore al manager, hanno sempre bisogno di avere a che fare con l’organizzazione degli esseri umani, che è la cosa più complessa da gestire. Da lì il contatto con la Luiss, raccontando i nostri progetti di esplorazione urbana, di contaminazione e di ibridazione delle forme teatrali con quelle performative delle realtà sociali che incontriamo, raccontando le nostre esperienze pregresse, e della capsula del tempo, si sono innamorati del progetto e hanno detto “Facciamolo anche qui da noi”.
I contesti sono diversi. Facendo sul nostro sito una mappatura, abbiamo cominciato a evidenziare i nostri percorsi, tutto ciò che stiamo fotografando. Il progetto, 2115, lo abbiamo fatto finora in tre città al momento. Adesso lo abbiamo fatto in un contesto più stretto, un parco universitario, ma si potrebbe fare anche in un condominio, in una classe di una scuola. È un modulo malleabile, duttile, mercuriale, liquido. Si riesce a portare ovunque. Abbiamo scelto questa cosa della tassonomia un po’ senza giudizio, ti diciamo cosa vediamo in questo momento, ma a un occhio esterno arriva un panorama. Non ci piace mettere il giudizio all’interno. C’è un’intenzione sociologica, ma c’è soprattutto una voglia di cercare le diversità: un contesto di una piccola cittadina di provincia del trentino è completamente diverso da questa cellula universitaria romana. Questa tassonomia alla fine ti dà un quadro che abbiamo mutuato dalle tecniche psico-geografiche, da scrittori come George Perec, che ha fatto di questo puzzle narrativo una letteratura. Sono stati stimoli interessanti per questa ricerca”.

Trattandosi di materiale anche digitale oltre che cartaceo (come si spiega anche nella performance, è importante trasmettere, insieme ai materiali, la consapevolezza di questo passaggio caratteristico della nostra era, dall’analogico al digitale): vi siete posti il problema di come la posterità potrà leggere questi materiali? Avrà ancora gli strumenti per farlo, considerando la velocità di evoluzione dei nostri dispositivi tecnologici? Penso ai floppy disk, sono diventati un materiale vintage.
“Ovviamente è un pretesto un po’ utopico e assurdo quello che vogliamo, nessuno di noi ci sarà tra cento anni, però i posteri dissotterrando questa capsula vedranno comunque un “materiale”: se tu ci pensi cento anni fa, nel 1915, una nonna che aveva lasciato sotto il letto, dietro una mattonella, un materiale di latta, una piccola “capsula del tempo” con dentro una lettera, una penna, un rollo del cucito, ha consegnato una fotografia del presente, di quel momento lì. Gli egizi facevano capsule del tempo, perché testimoniavano la loro presenza. Erano messaggi al futuro. Se vai al museo egizio di Torino ci sono cose preservate perfettamente, di quattromila anni fa”.

Quindi avete realizzato qualcosa che si mette in riga con un bisogno archetipico dell’essere umano.
“E’ sempre esistito “conservare”. Se tu pensi al nostro immaginifico, per esempio i faraoni (ma anche le persone di classe inferiore amavano lasciare i loro oggetti). Se infatti andiamo a Torino a visitare il Museo egizio ci rendiamo conto di quella società anche attraverso le loro tecnologie”.

Vi augurate che in qualche modo quello che avete lasciato sia anche il punto di partenza per altri tipi di ricerca?
“Gli egizi lasciavano delle cose molto interessanti! Non so se la nostra epoca lascia qualcosa di interessante! Questa è un’altra bella domanda! Sicuramente viviamo in un’epoca un po’ buia, in continuo movimento, perché il presente è continuo, non si riesce mai a vivere. È fuggevole. La tecnologia avanza. Siamo continuamente in corsa rispetto al tempo. Il mio auspicio sarebbe quello di fermare il tempo, controllarlo. Già nella nostra indagine esploriamo una dimensione qualitativa dell’esplorazione, cioè abbiamo un tempo a disposizione per indagare. Questo dal punto di vista filosofico, sociologico, antropologico è un grande contributo nella nostra ricerca, per gli abitanti e i luoghi che attraversiamo. I parametri che stiamo seguendo sono la radice di “abito”, “habitat”, “abitanti”, “abitudine”. Quali sono le “abitudini” di questi “abitanti”?”.

dynamis2Da questa geografia, da questa raccolta di materiali su un determinato campione di realtà ci si aspetta anche che vengano fuori dei luoghi comuni. Questo pre-giudizio ha avuto riscontro nella vostra indagine?
“Ci sono state delle cose che mi hanno sorpreso. Dipende molto da come si cerca questo messaggio per il futuro. Perché, naturalmente, lo spettro della retorica è sempre dietro l’angolo. È facile dire “Io vorrei la pace nel mondo!”. Non conosciamo la sfera dell’individualità, perché di solito si classifica anche per stereotipi. Dietro lo stereotipo, però, c’è anche un’ordinaria follia, un’ordinaria originalità, un’ordinaria bassezza, inquietudine. Ognuno poi si porta dietro il proprio mondo, e credo che per i posteri e anche per il presente ciò sia uno stimolo ludico per riflettere. Questi dispositivi servono più che altro a essere un termometro, un indice di quello che accade. Infatti tutti i messaggi privati vengono raccolti in una stanza neutra, privatamente: in questa sala tu puoi entrare autonomamente e lasciare il tuo messaggio, puoi andare lì e fare un balletto, presentare un tuo pezzo, puoi andare e formulare un’invettiva, per esempio”.

Delle persone che hanno lasciato testimonianze avete preso anche nomi e cognomi? Mi immagino che tra un secolo ci saranno i nipoti di queste persone e che saranno curiosissime di visionare il materiale.
“Abbiamo proprio schedato le persone. Alcune persone hanno lasciato addirittura il proprio albero genealogico. Ognuno ha lasciato il proprio contributo. Tutti questi messaggi, che vengono inseriti in un hard disk, noi non li vediamo, noi non sappiamo nulla, però questo è interessante perché le persone si sentono responsabilizzate a lasciare un messaggio per il futuro. Sanno di essere totalmente libere, non c’è una censura. A Grosseto io ho accompagnato nella camera una signora anziana, è stata dentro quasi quaranta minuti, mi ha raccontato tutta la sua vita, è uscita fuori da lì piangendo. Abbiamo visto entrare anziani, bambini, ragazzi. Quello che ci interessa è anche che le forme d’arte siano “orizzontali”, più universali: per noi è interessante che il messaggio sia chiaro, tutti lo devono comprendere, e che sia spalmabile su tutto. Ogni persona con il proprio grado di istruzione ed educazione dovrebbe avere voglia di trasmetterlo”.

Come siete riusciti a coinvolgere le persone? Ci sono state delle perplessità all’inizio?
“Abbiamo iniziato con Pergine Valsugana, perché lì abbiamo vinto un bando l’anno scorso in estate. Pergine Valsugana la devi immaginare come una vallata del Trentino dove ci abitano i mòcheni, che sono un’isola linguistica, alcuni sono rimasti veramente all’Ottocento. E anche per quanto riguarda la città, di provincia, ci avevano detto “Attenzione, perché qui sono tutti molto chiusi, in periodo di festival fanno resistenza”. Al terzo giorno di permanenza ci offrivano le cose al bar, ci riconoscevano in mezzo alla strada. Erano tutti stra-entusiasti! Noi, a differenza di qualche altro nostro progetto avevamo una sorta di quartier generale, un luogo dove potevano venirci a trovare. Poi la cosa interessante è che questa ricerca si conclude con la performance finale dove tutta la comunità è coinvolta, e considera che lì sono solo circa quattrocento persone: quattrocento persone che fanno una performance a mezzanotte, tra bambini e anziani, gente che non ha mai visto una performance, non gente del mestiere, e questo è importante. Quello che mi piacerebbe – e piace – dei nostri progetti è che si coinvolgano altre persone, non i soliti addetti ai lavori. Lo dico con assoluta umiltà che quest’operazione è una piccola goccia, un piccolo intervento nella comunità. Sicché quella sera, quattrocento persone responsabilizzate dal messaggio sono venute a vedere dove sarà interrata quella capsula, perché il pensiero che hanno è “mi riguarda”. Ed è ancora lì, la gente va a farsi ancora le foto, sono ubicate in luoghi-simbolo”.

Come fosse un’opera d’arte sul territorio, un monumento? Nel senso che è qualcosa di materiale, fisicamente presente e permanente.
“Anche questo è abbastanza intrigante, perché di solito la performance, il teatro hanno sempre qualcosa di effimero, fuggevole. Invece qui non stiamo recitando, c’è veramente una capsula in plexiglass e l’azione è fattuale, viva, e questo viene riconosciuto anche dal pubblico. Non è una menzogna. Questi luoghi simbolo sono un castello a Pergine Valsugana, oppure le mura medicee a Grosseto, a Roma l’Università. Noi però ci auguriamo che questi luoghi aumentino, e speriamo di portare il progetto anche all’estero”.

Renata Savo 02/06/2016