
Cordiale, disponibile – "diamoci del tu così non sbagliamo i verbi" – citazionista provetto e ragionatore impeccabile anche di domenica pomeriggio. Fresco di vittoria agli Ubu 2015 con il suo Alcesti, Massimiliano Civica ha chiacchierato con Recensito sullo statuto del teatro "inteso come incontro di persone", sul rapporto tra spettatore e attore e sul senso ultimo della scrittura drammaturgica, lo sguardo all'umano.
Qual è il panorama disegnato dagli Ubu 2015?
"Credo si sia messo in luce un altro teatro, ma tra virgolette: Roberto Latini in finale per il miglior spettacolo, Francesca Pennini per il miglior performer under 30, Oscar De Summa per il miglior nuovo testo drammaturgico e Gianluca Misiti miglior autore di musiche. Si è visto al Premio Ubu un teatro più liminare, che non gira nei teatri nazionali e nei TRIC e di cui comunque è stato riconosciuto il valore".
Cosa ti ha spinto a mettere in scena l'Alcesti?
"L'ho messo in scena perché si occupa di due questioni permanenti che riguardano gli esseri umani, cioè l'amore e la morte. Due questioni ineludibili e in qualche modo collegate, che stabiliscono il nostro agire e la nostra responsabilità sia sociale che personale. L'interesse era quindi verso un tema fondamentale che non può non riguardarci".
"Non è importante perché vivo, ma per chi vivo". Nel Simposio, Platone considerava la figura di Alcesti come simbolo dell'Eros più autentico, quello che andava oltre la morte. Ma, citando "Henna" di Lucio Dalla che tu inserisci nella messa in scena, "l'amore ci salverà"?
"C'è un grande uomo di cultura e di azione politica del secolo scorso, Aldo Capitini, che in una sua opera dice "la mia nascita è quando dico un 'tu'". Io credo che l'unica opportunità per uscire dal narcisismo e dagli interessi personali sia comunque l'apertura verso un 'tu', cioè verso l'altro. Poi lo possiamo chiamare amore, amicizia, socialità, compassione, però credo che sia l'unica via che abbiamo per dare un senso alla vita. Orson Welles era abbastanza pessimista e diceva "solo l'amore e l'amicizia possono illuderci che non siamo completamente soli". Credo sia fondamentale".
L'Alcesti per te rappresenta anche una scelta morale. Hai deciso di far assistere solo 20 spettatori a replica nel Semiottagono delle Murate di Firenze, hai voluto ricreare un'atmosfera di partecipazione e di raccolta con lo spettatore, quasi a farlo interagire con gli attori – in questo caso attrici – in scena. È una funzione educativa del teatro che forse oggi si è un po' persa, o no?
"Per me la questione è leggermente diversa, si tratta dell'affermazione di una minorità. Il teatro è minoritario. Questo non vuol dire che sia minore, ma semplicemente che oggi raccoglie l'attenzione di non tantissime persone. Il fatto che non attiri le masse e i mezzi di comunicazione di massa non vuol dire che il teatro non abbia una funzione. Per me era importante rivendicare che il teatro ha di per sé una funzione importantissima nella società, e che non deve aver paura di essere minoritario in questo momento. Mi piace ricordare la frase di un grande critico, Nicola Chiaromonte, che diceva "il teatro non è per tutti, ma solo per chi lo ama". Noi dobbiamo stare attenti che il nostro lavoro sia aperto a tutti, ma non dobbiamo inseguire per forza i grandi numeri, perché questa voglia di inseguire i grandi numeri ha portato oggi a un abbassamento del livello culturale e sociale. Credo anche che per esperire al meglio il teatro, se lo si intende come un incontro tra esseri umani, il luogo e il numero degli spettatori siano importanti. Non credo che il teatro destinato alla sopravvivenza sia quello che attira mille spettatori a sera. Come dice un altro grande maestro, Claudio Morganti: "noi vogliamo come pubblico tutta la popolazione mondiale, ma 30 spettatori per volta". Altrimenti è molto difficile che avvenga qualcosa tra gli attori e gli spettatori".
Diversi critici hanno definito i tuoi spettacoli 'minimalisti'. È una definizione in cui ti ritrovi?
"No, perché 'minimalista' è un aggettivo che funziona solo con un confronto rispetto a qualcosa che non è minimalista. Sono definiti minimalisti perché ci sono solo gli attori, ma per me è lo stesso che definire la pittura minimalista perché è bidimensionale. L'unico giudizio è se c'è quanto basta o se manca qualcosa; se c'è quanto basta vuol dire che va bene, se manca qualcosa va male, ma definirlo minimalista semplicemente perché quasi tutti si poggia su testo e attori sarebbe, appunto, come definire un pittore minimalista perché usa la tela e i colori".
"Colui che non può contare su alcuna musica dentro di sé, e non si lascia intenerire dall'armonia concorde di suoni dolcemente modulati, è pronto al tradimento, agli inganni e alla rapina" si legge nel "Mercante di Venezia". Anche alla luce del lavoro che hai svolto sulla dimensione canora nell'Alcesti ti chiedo: quanto è importante, sia come elemento linguistico e testuale sia come strumento puramente emotivo ed evocativo, la musica nel tuo teatro?
"La musica ha un potere di evocazione irraggiungibile da qualsiasi altra arte, quindi bisogna stare molto attenti nell'usarla. Se devo mettere un commento musicale in un mio spettacolo faccio sentire per intero la canzone, e in genere nella drammaturgia, diegeticamente, questa canzone fa parte della storia. Non mi piace la musica a commento perché trovo che sia in qualche modo "giocare sporco", nel senso che se uno mette una musica banalmente emozionante magari è perché non è riuscito a dare l'emozione attraverso la recitazione e l'azione. Diciamo che la musica è molto importante ma se usata con estrema parsimonia, e credo che sia possibile anche farne a meno: credo che sia possibile una musica delle azioni e dei sentimenti che, se fatta bene, ha lo stesso grado di empatia nei confronti del pubblico di una musica che si ascolta in senso proprio".
Nella presentazione del laboratorio di regia "L'inchiostro invisibile" scrivi: "Di un copione teatrale bisogna imparare a leggere quello che l'autore-regista-attore ha scritto negli spazi bianchi della pagina con una sorta d'inchiostro invisibile". Ecco, come si insegna questo a un giovane attore o a un giovane regista? Nella tua attività di docente utilizzi sempre lo stesso approccio di cui ti servi nel lavoro con i professionisti? O c'è effettivamente un cambio di metodo?
"No, non c'è nessun cambio. Il metodo è sempre quello di far comprendere che il teatro è un'arte autonoma, perché c'è sempre questa tendenza a ricondurla o alla letteratura, o al cinema, o alla politica, o alla poesia o alla musica. Invece è un'arte autonoma che vive sulla scena. I grandi autori classici di teatro – Shakespeare, Molière, Eduardo, i classici greci – erano perfettamente coscienti che la loro opera si svolgeva sulla scena e che quindi ciò che avevano scritto non era un materiale destinato a un uso autonomo, tant'è vero che né i tragici greci né Shakespeare hanno mai curato l'edizione dei loro testi. Bisogna capire che il luogo in cui avvenivano gli spettacoli e le convenzioni teatrali di cui si servivano sono fondamentali per comprendere il loro messaggio: il lavoro è sempre quello di ricondurre il teatro unicamente al teatro".
L'hai portato in scena con "Il mercante di Venezia" e con il "Sogno di una notte di mezza estate". Cosa ti affascina di Shakespeare?
"Innanzitutto il fatto che si tratta di un grande drammaturgo. Nessuno pensa mai a questo: Shakespeare riesce, come ha letto benissimo Peter Brook, a sostenere tutti i personaggi, a renderli credibili e sostenere le opinioni di tutti. Peter Brook diceva che nessuno ha mai inchiodato Shakespeare al suo punto di vista, perché ricrea e dà senso a una pluralità di posizioni e visioni, che è il fascino della vita e del mondo. A me non interessano quelle scritture teatrali in cui riconosco in tutti i personaggi l'autore che parla; non è teatro, è una sorta di dimostrazione filosofica, c'è qualcuno che mi spiega la vita. Sento sempre uno che parla dietro ai 20 personaggi del testo, e quello è semplicemente cattiva drammaturgia".
Che teatro sarà senza Luca Ronconi e Luca De Filippo?
"È morto Shakespeare, è morto Euripide, verrà qualcun altro. Sopravviveremo."
In che direzione si muoverà la tua ricerca? Hai progetti in cantiere?
"Adesso lavorerò per qualche anno con il drammaturgo Armando Pirozzi su quello che per noi è la drammatrugia, cioè la relazione tra gli esseri umani: padri e figli, amato e amante, ricchi e poveri. Lavoreremo sull'umano, l'unica cosa interessante, sulle relazioni tra gli esseri umani e sulle difficoltà, molte volte, di intessere e mantenere queste relazioni."
Daniele Sidonio 14/12/2015

Reperti che riemergono dalla terra, tra polveri e sassi, frammenti di statue che riaffiorano da un tempo antico e dimenticato, su fondali inesplorati, sommersi dall’immenso mare della modernità: queste sono alcune delle “Sommerse visioni” di Paola Crema, rimaste esposte in una interessante mostra alla Biblioteca Angelica di Roma fino al 12 dicembre.
Le opere visibili sono frutto dell’archeologia immaginaria dell’artista, la quale crea un gioco concettuale in cui fa credere che le sculture da lei realizzate siano in realtà reperti riemersi da un continente perduto. È come se ricreasse il set cinematografico di uno scavo archeologico e lo immortalasse nelle sue complesse opere fotografiche, in cui documenta l’atto del ritrovamento.
Sono opere sorprendentemente particolari, in cui emerge tutta l’esperienza, il talento e la passione per l’arte di Paola Crema, un’artista poliedrica che ha iniziato il suo percorso dedicandosi alla creazione di sculture, in argento e materiali preziosi, e gioielli esclusivi, vere e proprie sculture in miniatura da indossare.
Si è poi dedicata alle sculture in bronzo di grandi dimensioni che sono state esposte al Museo Archeologico di Firenze, al Museo del Corso a Roma, a Villa Adriana a Tivoli, al Tempio di Adriano, e che sono entrate a far parte anche di numerose collezioni di carattere internazionale.
La sua formazione, incentrata sullo studio dell’antichità e sul design, all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, l’ha portata ad accrescere la cultura dell’antico, l’amore per il mondo classico e a dar forma a sculture sapientemente modellate che esprimono la sua archeologia immaginaria in un percorso che simula ritrovamenti archeologici nelle sue opere in bronzo, trasferite spesso in meravigliose fotografie.
Sono scavi immaginari che riportano gli spettatori in un'altra dimensione, in un passato lontanissimo che eppure appare vicino grazie alle sculture che sembrano emergere , andare verso chi le guarda, e incantare con i loro occhi che sembrano parlare, comunicare realtà ormai perdute.
Una realtà antica immaginata che diviene reale e concreta attraverso imponenti sculture che raffigurano ibridi, guerrieri, eroi e mostri mitologici, opere fotografiche suggestive in cui tra muri, sassi e strappi fuoriescono volti, frammenti, dettagli di scavi archeologici, wunder kammer, oggetti straordinari e gioielli. “Sommerse visioni” quindi non è semplicemente una mostra, ma è un immergersi in un altro tempo, in un altro mondo, in altri abissi, tra le opere e le creazioni di un’artista eclettica come Paola Crema.
Maresa Palmacci 13/12/2015

“Questa produzione segna il debutto di Eleonora Abbagnato come Direttrice del Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera - ha dichiarato il Sovraintendente Carlo Fuortes - saranno nuove le scenografie, i costumi, le luci e anche il coreografo”.
Dal 20 dicembre all’8 gennaio 2016 andrà in scena al Teatro Costanzi il balletto “Lo schiaccianoci” ma stavolta avrà un tocco innovativo, più attuale grazie alla creatività e al talento artistico del regista e coreografo italiano Giuliano Peparini.
“In questa versione dell’opera di Ciaikovskij ho cercato di adattare la tradizione a quello che io volevo raccontare, la storia ovviamente non cambia ma ho scelto di inserire dei personaggi che ritenevo importanti per il mio sviluppo della messa in scena. – racconta Peparini in occasione della conferenza stampa di presentazione – Il mio obiettivo è stato quello di renderlo ancor più accessibile ai giovani di oggi e per questo motivo i personaggi principali sono adolescenti, non bambini”.
Sarà la prima ballerina Alessandra Amato a vestire i panni della Regina dei fiocchi di neve, vedremo poi l’elegante Michele Satriano nel ruolo del nipote di Drosslemeyer, Claudio Cocino interpreterà lo Zio Drosselmeyer e infine Rebecca Bianchi nel ruolo di Marie, la quale con entusiasmo e commozione ha rivelato alla stampa: “Lavorare con Giuliano è stato molto interessante, ha cercato di costruire quest’opera sulla nostra personalità e questo ci ha spinto a tirar fuori ancor meglio le nostre potenzialità”.
In occasione del debutto e delle 14 repliche saranno in scena due interpreti inattesi, il B-Boy coreano Hong 10 e l’olandese Menno del Red Bull Bc One All Star Team; la scelta di inserire due breakers nel corpo di ballo, spiegano il coreografo e Eleonora Abbagnato, è stata fatta sempre sulla base di una concezione della danza come un mix di generi, un’occasione di incontro e di condivisione tra stili differenti.
Una rilettura contemporanea di un classico del repertorio, questa versione de “Lo Schiaccianoci” segnerà un modo nuovo di leggere e di farsi trasportare dalla tradizione. L’interpretazione della partitura musicale sarà affidata al direttore David Coleman, le scene a Lucia D’Angelo e Cristina Querzola, i costumi a Frédéric Olivier, la video grafica a Gilles Papain e le luci a Jean-Michel Désiré.
“E’ uno spettacolo che farà sognare tutti, dai piccoli agli adulti. – ha affermato Eleonora Abbagnato – E’ un titolo importante che rimarrà a questo teatro, con costumi fantastici e interpreti che vestono i loro ruoli a pennello”.
Giada Carlettini 12/12/2015
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