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L’Appia perduta e ritrovata: la mostra di Paolo Rumiz all’Auditorium Expo

Una traversata epica sulla linea del tempo, fra paesi e città, sacro e profano, persone e animali, per restituire alla collettività la madre di tutte le vie, umiliata da secoli di abusi, ignoranza e abbandono. Un tracciato antichissimo, tra i più ricchi di memorie e testimonianze dell’Impero romano, capace ancora, dopo oltre due millenni, di ricongiungere il Mezzogiorno col resto del Paese e di indicare all’Italia la sua vocazione mediterranea. Un’avventura faticosa ed entusiasmante, che da racconto di viaggio si è trasformato in atto politico, in accorata difesa contro lo sfacelo di luoghi dell’arte alterati dal saccheggio dei privati, dall’indifferenza delle istituzioni, dalla fiacchezza morale della gente comune. Come un pifferaio magico che attiri a sé tutti noi cittadini un po’ distratti, il giornalista e scrittore Paolo Rumiz, ci invita a seguirlo con la melodia di parole “narrabonde” (sulla scorta della “Satira” quinta del primo libro di Orazio) lungo la prima autostrada dell’antichità, la Regina Viarum, la diagonale d’Oriente, l’Appia. L’ha percorsa a piedi, zaino in spalla, Gps e armonica a bocca, insieme a una pattuglia di amici “viandanti” (il fotografo Riccardo Carnovalini, il film-maker Alessandro Scillitani, l’architetto Irene Zambon), scavalcando corsi d’acqua, valicando colli e ridiscendendoli, affrontando le intemperie, l’incuria e gli sguardi talvolta sospettosi (ma più spesso generosi) di chi incontrava sul suo cammino. «612 km, 29 giorni di cammino e circa un milione di passi» per far tornare a vivere l’Appia Antica dall’inizio alla fine, per ridisegnarne l’itinerario perduto, la mappatura completa, fra sentieri invasi da rovi, obliterazioni d’ogni tipo, montagne svendute alle multinazionali del vento e dell’acqua. A 2327 anni esatti dall’inizio dei lavori di costruzione dell’Appia Antica, l’appello lanciato da Rumiz, attraverso i reportage pubblicati su “Repubblica” la scorsa estate (“Alla scoperta dell’Appia perduta”) e il libro appena edito da Feltrinelli (“Appia”), è stato raccolto dal Ministro dei Beni e delle Attività Culturali Dario Franceschini con la promessa di un impegno concreto: tutelare un patrimonio archeologico immenso come quello dei territori minori attraversati dalla Linea e favorire un grande progetto di rilancio civile, prima che culturale, rimodellato sull’esempio sistemico di altri camminamenti famosi (il Cammino di Santiago, la Francigena, il Cammino di Francesco, la Via del Sale).
Ma mentre Santiago è un percorso di sola andata, l’Appia è la sola strada europea percorribile in entrambi i sensi: la direzione verso Brindisi, quella delle conquiste legionarie in terre d’Oriente, e la direzione verso Roma, quella di Pietro e Paolo, dei cristiani che sbarcavano in Occidente. Due percorsi opposti e complementari, uno laico l’altro sacro, su cui hanno camminato nel corso della Storia gli antichi Romani, poi papi, re e imperatori. Proprio sull’Appia San Pietro, in fuga da Roma e dalle persecuzioni di Nerone, ebbe la visione di Gesù, che lo spinse a tornare sui suoi passi. E ancora sull’Appia i Goti inflissero un colpo mortale all’Urbe, tagliando gli acquedotti: l’Impero non c’era già più ma l’Appia era rimasta. Poi arrivarono le nobili famiglie romane a costruire le loro fortezze medievali e a saccheggiarne i monumenti, per abbellire le loro dimore. Monumenti “costruiti per l’eternità” di cui Goethe rimase stupefatto nel 1786 e che anche il grande scultore Canova studiò per molto tempo lungo la via. Eppure, se l’Appia è diventata l’asse in grado di riassumere la storia d’Italia praticamente fino ai giorni nostri – narrando storie di Svevi e Longobardi, dicendo delle repressioni borboniche, evocando l’epopea garibaldina e la Resistenza con i combattimenti sulla Linea Gustav – chi ha avuto la sorte di perlustrarla, chilometro dopo chilometro, ha dovuto fare i conti con territori alla deriva, controllati da malavitosi e politici collusi, violentati dall’abusivismo edilizio, seppelliti dalla cementificazione selvaggia. Più volte, durante il cammino, la stessa Appia ha cambiato faccia, camuffandosi con cento altri nomi, trasformandosi in tangenziale, parcheggio, cava, supermercato, acciaieria.
E, allora, ecco la necessità di documentarne anche per immagini le meraviglie e le devastazioni, il nuovo e l’antico, la realtà e il mito, attraverso una mostra fotografica, documentaria e multimediale di grande impatto comunicativo. Concepito dagli stessi quattro esploratori, con la coproduzione del Festival della Letteratura di Viaggio e della Fondazione Musica per Roma, il percorso espositivo allestito all’Auditorium Expo del Parco della Musica, dal titolo “L’Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi”, è nato dalla volontà di portare all’attenzione del “turista consumatore” (italiano, ma soprattutto straniero) la mobilità lenta, l’ospitalità diffusa, il sincretismo dei legami identitari di un Sud chiamato a trasformare la direttrice dell’Appia in opportunità concreta di promozione territoriale e di crescita socio-economica. Dai Colli Albani ai Monti Lepini con le fortezze preromane sugli strapiombi, dai boscosi Ausoni ai cavernosi Aurunci, fino ad arrivare al Sannio e alla Puglia: sono tanti i luoghi rappresentati attraverso le fotografie di Riccardo Carnovalini, integrate da un ulteriore reportage di Antonio Politano, realizzato per National Geographic Italia, dalle musiche di Alfredo Lacosegliaz e dalle istantanee estratte dai filmati “on the road” di Alessandro Scillitani. Scatti di viaggio che si dispiegano sui muri come un rotolo di pergamena, capace di farci avanzare nello spazio e nel tempo alla maniera degli eserciti di pietra sulla Colonna Traiana. Di farci riflettere sulle infinite migrazioni – in direzione contraria – di tanti esiliati in fuga dal Nord Africa e dal Medio Oriente (foto dai viaggi di Luigi Ottani); di farci sorridere alla vista di scritte e colorite iettature sui muri di tombe e mausolei, di caseggiati e capannoni; o di offendere il nostro occhio, specie nel tratto romano, dove, dal dopoguerra a oggi, l’inerzia delle amministrazioni locali e l’appropriazione indebita da parte di “gangster” (per citare il “nume” Antonio Cederna, giornalista specializzato nei temi ambientali e così addentro all'argomento da diventare nel 1988 il primo presidente del Parco Appia Antica) hanno lasciato che, accanto alla Tomba di Cecilia Metella, alle catacombe di San Callisto, alla villa di Massenzio e al tumulo dei Curiazi, sorgesse un quartiere di residenze esclusive, alle quali l’antico conferiva un fascino speciale.
Nelle intenzioni del MiBACT la sensibilizzazione alla salvaguardia dell’Appia, inaugurata da Rumiz e compagni, dovrà produrre numerose novità: recupero di caselli ferroviari e case cantoniere, restauro di cippi miliari, messa in sicurezza del basolato, collocazione di cartellonistica informativa, copertura wireless, monitoraggi e cartografie. Alcune sono state già realizzate – la creazione di un logo, di un sito web e di una app dedicati –, altre, le più ambiziose, rischiano di arenarsi non appena i grandi proclami saranno dimenticati. C’è allora da sperare che la tutela non venga dall’alto, ma dal basso, dai cittadini, da ognuno di noi, affinché, come auspicato da Rumiz, «un esercito di viaggiatori venga a prendere in mano il filo d’Arianna steso sulla mappa dello Stivale».

Valentina Crosetto, 20/06/2016

La mostra resterà aperta fino al 18 settembre 2016, tutti i giorni dalle 12.30 alle 20.30 (a eccezione del periodo di chiusura estiva dell’Auditorium dal 1° al 28 agosto).

Per informazioni: http://bit.ly/28JcFkF 

"Kudoku", infiniti tentativi di evasione da sé

Cosa succede quando chiudiamo gli occhi mentre ascoltiamo la musica? Si Attiva l'amigdala, la parte di cervello che contiene la memoria emozionale. Daniele Ninarello e Dan Kinzelman, autori e interpreti di "Kudoku", ricreano una situazione di questo tipo per “prepararci” all'esplorazione di un territorio: lo spazio fisico.
Ogni fessura, ogni spiraglio di luce è stato serrato, sigillato nelle sale Apolinee del Teatro la Fenice:
l'inizio è una totale immersione nel buio, solo sax del compositore statunitense. Lo spettacolo, presentato in prima assoluta alla Biennale Danza di Venezia (prodotto da Codeduomo e da Novara Jazz con la cura di Enrico Bettinello, e con il sostegno di CSC Centro per la Scena Contemporenea di Bassano del Grapp, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fabbrica Europa e grazie alla residenza di Caos Terni sostenuta da Indisciplinarte e Demetra) , è un climax di sensi che partono dall'interno e provano a evadere fuori. Le emozioni sono tutte contenute nell'involucro-corpo, uno spazio che però è troppo stretto. Si avverte il bisogno di dare una forma a quell'inquietudine interiore che rende l'uomo insicuro. I gesti si caricano di instabilità, dell'insicurezza dalla quale non riesce a sottrarsi, di tentativi.
Su un sound d'aggregazione polistrumentale che parte da una loop station, Kinzelman mischia clarinetto, flauti, sassofono e voce per ricreare questa schizofrenica evasione a cui la pelle, le ossa, la massa tutta pone resistenza. I ritmi della musica cambiano sempre e con loro anche la composizione istantanea di Ninarello.
Questi continui esperimenti fisici non consumano il corpo ma al contrario lo stimolano alla ricerca di nuove soluzioni per cui anche la bocca e gli occhi partecipano all'azione coreografica. Ma solo l'abbandono alle sensazioni permette di raggiungere una tregua tra dentro e fuori, tra sostanza e forma, essenza e materia. Non la resa dunque, ma la presa di coscienza conduce al karma. La danza e la musica raggiungono così uno stato di trance.
Una complicità fatta di reciproche relazioni quella di questo duo d'interpreti che per la prima volta si ritrova a lavorare insieme.

Laura Sciortino 21/06/2016

Foto: Francesco Trombetti

(articolo realizzato in collaborazione con il blog "La danza nella città")

I chiaroscuri del potere di Olivier Roller in mostra a Roma

Le immagini del fotografo francese Olivier Roller instaurano con il divenire storico una dialettica autentica, eterna. Esse sembrano incarnare il concetto di “immagine dialettica” di Walter Benjamin: “improvvisa, balenante, nella quale passato e futuro si illuminano a vicenda a partire dal presente”. Un’immagine dialettica in sui si palesa una sintesi e si racchiude il senso di un evento originario. “Immagine di potere” è la prima retrospettiva in Italia di Olivier Roller, a cura di Guillaume Maitre e Paulo Pérez Mouriz e presentata nell’ambito de “La Francia in scena”, la stagione artistica dell’Institut français realizzata su iniziativa dell’Ambasciata di Francia in Italia, con il sostegno della Fondazione Nuovi Mecenati - fondazione franco-italiana per la creazione contemporanea. Dal 16 giugno al 17 luglio a Roma, il Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps, ospita 18 opere dell’artista che si appresta ad entrare nel cerchio dei fotografi di fama mondiale. Nel legame profondo tra arte classica e fotografia contemporanea l’artista francese, esperto di ritrattistica, crea un’esposizione in cui è visibile la forza, la compostezza, la maestosità delle figure, ma al tempo stesso l’umanità, la verità nuda. Un percorso artistico che sintetizza due differenti filoni di ricerca portati avanti dal fotografo: da un lato i potenti del mondo di oggi, dalla politica all’alta finanza, dalla moda al cinema, dall’altro i ritratti delle statue antiche romane. Un progetto espositivo commissionato dal Louvre di Parigi, e condotto attraverso le collezioni dei più importanti musei al mondo, dal British Museum ai Musei Capitolini e ora al Museo Nazionale Romano.
“Non cerco una luce che illumini ma che vesta, come se uscisse dalla pelle della persona piuttosto che posarsi su di lei”, questo l’intento degli scatti dell’artista, la cui produzione colpisce soprattutto per l’estremo realismo e radicalità dell’obiettivo. Si tratta di un cammino visivo che avvolge il visitatore e stabilisce un dialogo intenso tra gli scatti di Roller e le sculture antiche di divinità e imperatori romani della collezione di Palazzo Altemps. Attraverso la luce l’artista riesce a esplorare i tratti profondi di un’umanità eterna, ma al contempo il processo di consunzione che il tempo attua sugli esseri umani, sugli oggetti, rendendoli più fragili, ma anche più veri. L’accostamento della statua del Dio della guerra Ares accanto alla fotografia del volto di Augusto, o l’immagine di Plutone che come uno specchio rivela la scultura, sono la rappresentazione di un dialogo eloquente che talvolta può creare forti contrasti. L’uso sapiente delle luci e delle ombre riesce a strappare la statua dal proprio oblio e a ridonarle vigore, in alcuni casi enfatizzando gli aspetti più intimi per poter osservare nel profondo la natura del potere. I volti di Luigi XIV, di Giulio Cesare accanto a Jeanne Moreau, l’immagine della bellezza dell’età moderna affascinano e turbano al contempo. Il loro sguardo duro sembra segnato dalla responsabilità del potere e della fama che li hanno resi protagonisti nella storia. Dall’oscurità del fondo nero si stagliano dei ritratti che si discostano dall’iconografia contemporanea, ma richiamano invece una magnificenza classica, antica, severa. Lo spettatore cammina tra questi volti sentendo nella bellezza la soggezione dell’eternità del potere. Arti lontane millenni, grazie alla spinta creativa di Olivier Roller, si incontrano, creando complessi dialoghi e spunti emozionali per l’osservatore.

Serena Antinucci 21/06/2016

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