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Dal deserto dei Tartari allo Spazio 18 b. Intervista ad Alberto Melone che indossa la divisa del tenente Drogo

Alberto Melone della Compagnia dei Masnadieri indossa l’uniforme e veste per la prima volta la divisa del tenente Giovanni Drogo in "La Fortezza. Momento unico per tre attori soli", adattamento teatrale da Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, in scena dal 19 al 31 marzo allo Spazio 18 b. 

Perché la scelta di portare in scena Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati?

Il testo è stato pubblicato nel 1940 ma per Massimo Roberto Beato, che ha curato la drammaturgia e l’adattamento, e la regista, Elisa Rocca, è un testo attuale proprio perché è costruito sulla non definibilità di un contesto storico e geografico preciso in cui si svolge la narrazione. È uno spazio sospeso in cui lo scorrere del tempo ha la forma di un’attesa senza termine, nella quale ci si volge indietro e non in avanti. Invece che un futuro distopico, potrebbe definirsi un passato distopico. La Fortezza nel deserto è come una campana di vetro, il cuore ovattato di un meccanismo inceppato e incontrollabile che gira su se stesso. A questo proposito, il capitano Ortiz è il personaggio “anziano”, nel senso di disilluso e disincantato, che più di tutti rappresenta La Fortezza, perché all’interno della Fortezza Bastiani ci ha passato e consumato tutta la vita.

Avete avuto dei punti di riferimento per la costruzione dello spettacolo? Penso, per esempio, al film del 1976 di Valerio Zurlini.

Nessun riferimento al film. Il lavoro di Elisa Rocca è stato un lavoro di rilettura del testo drammaturgico scritto da Massimo Roberto Beato, che a sua volta lo è stato dell’originale di Buzzati. Se c’è un qualche riferimento è al teatro di Tadashi Suzuki, fra le personalità più importanti della scena teatrale giapponese contemporanea. La regia di Elisa si basa proprio sul metodo Suzuki, che unisce e kabuki moderni e che prevede un lavoro specifico sul corpo e sulla fisicità dell’attore, la cui scelta determina la rappresentazione e la resa scenica. Tutti quei paesaggi rocciosi fatti di strade deserte, della durezza desolante della pietra, che si leggono nel libro e si vedono nei disegni e bozzetti di Buzzati, si fanno corpo nella scena vuota attraverso noi, appunto, “attori soli”. Lo spettacolo è una scrittura visuale dove sono i corpi a farsi immagini e paesaggio nello spazio scenico. 

Cosa viene sacrificato e cosa resta nel testo drammaturgico, La Fortezza. Momento per tre attori soli, del testo di Buzzati? 

Lo spettacolo è per lo più incentrato sul personaggio di Giovanni Drogo, il mio personaggio. Il sottotitolo Momento per tre attori soli indica che il lavoro teatrale non è diviso in atti, ma si concentra su un unico momento scelto, un dettaglio, un brandello di tempo. Nel libro, la storia di Drogo alla Fortezza Bastiani dura tutta una vita. Quel che viene sacrificato è il racconto di una narrazione lineare nella forma teatrale tradizionale degli atti, quel che resta è una sintesi evocata per immagini e allegorie. 

Qual è la fatica che hai fatto nell’affrontare il tuo personaggio?

Ho dovuto immaginare il corpo di un uomo confinato in una fortezza ai limiti del deserto e avere coscienza che quell’uomo consuma la sua esistenza nell’inutile attesa dell’invasione dei Tartari, o chissà cosa, che non arriveranno mai. In questo sono stato seguito dalla regista che mi ha guidato, durante la lettura della drammaturgia e le prove, alla creazione della partitura fisica del personaggio. Il personaggio di Drogo, già a una prima lettura, porta alla struttura fisica del testo: battuto dal ritmo interno che hanno tra loro le parole, scandito dalle pause e dai silenzi di un tempo immobile, viene tradotto in azione. Come ho detto, sia Drogo sia l’intero testo drammaturgico sono pensati sul metodo Suzuki giapponese.

Cosa rappresenta per te l’infinita attesa dei Tartari?

I Tartari sono il confine, la frontiera, il limite dell’inimmaginabile, la fuga del tempo. L’idea dell’arrivo dei Tartari genera azione e adrenalina tra i soldati che fremono, allo stesso tempo, dalla paura e dalla voglia di combattere nella speranza che la routine di una quotidianità alienante si spezzi. Dire routine o immaginare, come ha fatto Buzzati, una fantastica militarizzazione della vita è la stessa cosa.

Parlando di routine, come scorre il tempo nella tua vita artistica di attore e qual è il rapporto tra il tempo sulla scena e il tempo della vita reale?

Quello dell’attore è un mestiere che ti cambia e soprattutto che ti apre al nuovo con sempre nuovi stimoli a dispetto della routine. Per me, almeno, è così in scena e nella vita. Prima di fare l’attore, invece, ricordo di essere sempre stato timido e certamente più chiuso.

Nel comunicato stampa si legge che attraverso il personaggio di Drogo si riflette sul destino degli “anti-soggetti”, gli sconfitti. La Fortezza è infatti il primo capitolo della “Trilogia degli sconfitti”. Puoi parlarci di questo progetto di ricerca e di come si è sviluppato nel corso dei tre anni di Accademia?

La Fortezza è il primo capitolo della “Trilogia degli sconfitti”, progetto di ricerca triennale di indagine sulla generazione nata tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento, attraverso gli echi e gli spunti offerti sia dalla letteratura classica che dalla drammaturgia contemporanea. La battaglia degli sconfitti è interiore, Drogo combatte contro se stesso nell’attesa dei Tartari, nell’attesa cioè che nella sua vita qualcosa cambi, e quello verso la fortezza nel deserto è un viaggio senza ritorno. Ma l’idea di trasformare Il deserto dei Tartari in un lavoro teatrale nasce anni fa, nel 2015, quando la Compagnia dei Masnadieri ha portato in scena Il castello di K, adattamento di Massimo Roberto Beato da Il castello di Franz Kafka e regia di Jacopo Bezzi. Kafka è considerato il Buzzati italiano, non c’è racconto, romanzo o commedia dove i critici non abbiano trovato somiglianze e analogie tra l’autore italiano e lo scrittore boemo.

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Com’è stato lavorare con Massimo Roberto Beato che ha curato l’adattamento?

Mi sono diplomato cinque anni fa e quello con la Compagnia dei Masnadieri è stato il primo contratto dopo la fine dell’Accademia. Ammetto che inizialmente è stato per sostituzione, ma alla fine, oggi, sono ancora qui.

Chi vorresti vedere seduto in platea a vederti la sera della prima?

Massimo Popolizio, che ho conosciuto negli anni di studio all’Accademia e con cui ho avuto modo di lavorare durante alcuni stage. Sono rimasto affascinato dalla sua capacità straordinaria di essere un attore di parola, dal suo modo di stare in scena e di essere corpo nella voce. Senza alcun movimento riesce a farti vedere tutto, a fare incontrare attore e spettatore.

Elvia Lepore, 21.03.2019

Beatrice Gattai racconta l'esordio di “Petrolio – Una storia a colori”: "sesso e disabilità sono un tabù di cui dovremmo parlare"

Fino al 24 marzo il teatro Cometa Off di Roma ospiterà Petrolio – Una storia a colori, di e con Beatrice Gattai, per la regia di Alessio Di Clemente. Il giorno dopo la prima ho parlato con Beatrice:

Ieri sera c'è stata la prima di Petrolio, uno spettacolo che hai scritto e interpretato. Raccontami le emozioni dell'esordio.

“Volevo mettere in scena Petrolio da almeno tre anni, c'è voluto un po' di tempo per trovare la squadra giusta e finalmente ci siamo riusciti. È stata un'emozione molto grande: tutta l'ansia che ho di solito prima di salire sul palco è stata sostituita da una sensazione diversa e completamente nuova, dovuta alla gratitudine e alla felicità di quello che stavo per fare.”

Petrolio è la tua prima esperienza come drammaturga: come ti sei avvicinata alla scrittura?

“Non avevo mai pensato di scrivere prima di approcciarmi a questa storia. Mi sono avvicinata alla scrittura attraverso le mie esperienze professionali e sopratutto grazie allo studio degli autori che amo: Tennessee Williams, Ibsen, Strindberg e i contemporanei come Shanley. Volevo cimentarmi in qualcosa di nuovo, raccontare una storia alla quale tengo molto. Il processo creativo è stato istintivo, ho scritto quasi di getto, e penso che gli anni di letture mi abbiano aiutato.”

Perché hai scelto questo titolo?

“Si chiama Petrolio, innanzitutto, perché è un nome che richiama il denaro: ogni cosa al giorno d'oggi è diventata un prodotto e ciò riflette alcune tematiche dello spettacolo. Mentre il sottotitolo Storia a Colori si riferisce alla ricchezza della vita interiore della protagonista, appassionata di pittura e disegno.

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Prima mi dicevi che Petrolio è un progetto che ha avuto una lunga gestazione. Parlami dell'esigenza che hai sentito nel voler raccontare questa storia a tutti i costi.

“Ho degli amici che hanno difficoltà a concepire un figlio, sento questa tematica molto vicino, poi il mio compagno ha lavorato diversi anni nella cooperativa Serena che si occupa di aiutare i ragazzi disabili. Ci siamo fatti quelle domande che si fanno tutte le coppie ad un certo punto della propria vita: come ci comporteremmo se avessimo difficoltà a concepire o se dovessimo avere un figlio disabile? Ecco, due dei temi di Petrolio riguardano il sesso e la disabilità. Sono un tabù per la nostra società, ma essendo dei problemi bisognerebbe parlarne. All'estero esistono gli assistenti sessuali, in Italia ancora no.”

E sull'utero in affitto?

“Anche in questo caso ci siamo posti delle domande. Sappiamo che negli ultimi anni c'è stato un crollo delle adozioni, mentre la medicina sta offrendo nuove soluzioni: l'utero in affitto, la donazione di ovuli o spermatozoi. Non voglio dare delle risposte o dire se sia giusto o sbagliato, credo però che dovremmo affrontare queste tematiche guardando entrambe le facce della medaglia. Ci sono delle questioni etiche di cui non si parla abbastanza, la più evidente riguarda lo squilibrio in termini di ricchezza tra chi offre questi trattamenti e chi li richiede.”

In che senso “Petrolio” è una storia d'amore ma non è una storia romantica?

“È una di quelle storie d'amore che molti vivono, nelle quali c'è tanta passione ma poco romanticismo. Non è una commedia romantica, quindi non bisogna aspettarsi il classico lieto fine.”

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È più difficile scrivere o recitare?

“Ah, bella domanda. Forse scrivere perché recito da quando ho sette anni e riesco a stare tranquilla, anche se le ansie in quanto attrice ci sono eccome. Invece se faccio un'intervista o mi trovo in ogni altra situazione in cui mi devo esporre senza avere le battute sottomano, non mi sento a mio agio come quando sto sul palco. Quindi direi che per me è più facile recitare, però è vero che la scrittura è molto intima e nella solitudine della propria stanza è più facile esprimersi.”

Cosa diresti a qualcuno poco incline a frequentare i teatri se dovessi convincerlo a venire a vedere il tuo spettacolo?

“Innanzitutto che il teatro fa bene. Poi punterei sui temi affrontati dallo spettacolo, specificando che non ho la presunzione di dare delle risposte. Ho inserito la mia opinione, certo, ma il testo serve soltanto ad aprire un dibattito.”

Alessandro Ottaviani – 20/03/2019

La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia al Teatro Palladium: Recensito incontra il regista Fabrizio Catalano

Sarà in scena in prima nazionale al Teatro Palladium, dal 21 al 24 marzo, "La scomparsa di Majorana", spettacolo tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia e diretto da Fabrizio Catalano - nipote del grande scrittore di Racalmuto. Un sogno a occhi aperti, un thriller mozzafiato che ripercorre e va a ricostruire gli eventi che condussero alla presunta morte del celebre fisico siciliano Ettore Majorana, facendoci riscoprire i suoi i suoi tormenti e i suoi pensieri.
La storia di un uomo che avrebbe potuto stravolgere il destino dell’intera umanità e che invece scelse di essere un ragazzo modesto, schivo.
La raffinata scrittura di Sciascia ne offre un ritratto inedito e accurato, a metà tra un’inchiesta e un saggio romanzato, che Fabrizio Catalano ha adattato per la scena. Durante una notte d’agosto del 1945, in un ospedale di provincia, una donna, dopo aver ucciso da partigiana, è tornata a indossare il camice bianco per medicare, per guarire. Un uomo, avvolto in una tunica da certosino, rifiuta di rivelare la propria identità. Un commissario di pubblica sicurezza crede di riconoscere, nei tratti del monaco, quelli di Ettore Majorana, al quale invano ha dato la caccia per tanto tempo. Laura Fermi, la moglie dell’illustre premio Nobel, è chiamata a identificare il giovane scienziato dileguatosi nel nulla.
Sul palco Loredana Cannata, Alessio Caruso, Roberto Negri e Giovanna Rossi nelle vesti dei quattro personaggi che per tutta la notte, oltre l’alba, fino al tragico scioglimento dell’enigma, daranno vita ad una sorta di processo: dove l’intruso si trasformerà da imputato in accusatore, da inquisito in voce della coscienza.
In questa intervista sulle Pagine di Recensito, il regista ci guida alla scoperta del suo spettacolo, ma anche di un’opera letteraria come quella di Leonardo Sciascia, a trenta anni dalla sua scomparsa, e di una personalità geniale come quella di Ettore Majorana.

Cosa vuol dire per Lei dirigere un testo così importante, scritto da suo nonno?
Non è la prima volta che mi capita; e, sebbene percepisca che, in un sistema produttivo molto schematico e poco incline alle novità, questo tende a confinarmi a volte in uno spazio sicuro ma angusto, è per me sempre un piacere confrontarmi con l’opera di mio nonno. Considero questa discendenza un privilegio. Nel caso de La scomparsa di Majorana, poi, si affronta un tema dolorosamente attuale: quello della deriva della scienza e, soprattutto, dell’etica.

Che differenze ci sono tra il romanzo di Sciascia e il suo adattamento teatrale? Ha apportato importanti modifiche?
Il libro di mio nonno è al contempo un saggio romanzato e un’inchiesta; ho provato a calare il dramma di questo scienziato giovane e geniale in un contesto simbolico ma riconoscibile: tutto si svolge in una notte d’estate del 1945, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. Un mondo in cui l’entusiasmo per la rinascita nasconde già i germi delle derive che si verificheranno nei decenni successivi e di cui oggi constatiamo gli effetti…

Dal punto di vista registico come ha trasposto in scena il testo e come sta lavorando con gli attori? Come è avvenuta la scelta del cast?
In questa notte d’agosto del ’45, nell’ospedale di una cittadina della provincia italiana, viene ritrovato un uomo che, per i suoi tratti somatici e per le sue conoscenze, potrebbe essere Ettore Majorana. Il presunto Majorana è interpretato da Alessio Caruso, il commissario che tenta di accertarne l’identità da Roberto Negri: due attori che hanno lavorato con me diverse volte negli ultimi anni. La dottoressa, ed ex partigiana, che scopre il presunto Majorana ha il volto e la presenza scenica di Giovanna Rossi. La signora Laura Fermi, chiamata a riconoscere Majorana, è invece Loredana Cannata. Mi è sembrata subito suggestiva l’idea che fosse un’attrice da tempo impegnata nella difesa dell’ambiente ad interpretare la moglie di uno di quelli che hanno progettato la bomba atomica. E del resto io stesso, nell’autobiografia della Fermi, ho avuto l’impressione, o l’illusione, di cogliere l’ombra del rimorso…
Un cast di persone giuste al posto giusto, dunque, che si deve anche ad un rapporto di stretta collaborazione ma mai invasivo con il produttore Gino Caudai. Inoltre, l’avvolgente atmosfera della pièce non sarebbe stata possibile senza la scena dall’eco Art Déco di Katia Titolo, le musiche struggenti di Fabio Lombardi, l’attenzione ad alcuni movimenti coreografici, e non solo, di Giulia Avino, e al lavoro di un’eccellente squadra tecnica.

La storia di Majorana è un vero e proprio enigma, reso come un processo. Ha accentuato l’aspetto più “giallo”?FotoJet
Lo spettacolo ha un gran ritmo ed è condotto come un interrogatorio. Più ottant’anni dopo la sua scomparsa, credo che non sia risolutivo sapere dov’è andato Majorana, ma perché ha deciso di dileguarsi. Insomma, è il tratto psicologico di quest’uomo – introverso, timido, per nulla competitivo, per nulla interessato a far carriera – l’elemento più importante della vicenda.

È la storia di un uomo, di uno scienziato che ha dedicato la sua vita per la scienza e che per il bene e la salvezza dell’umanità ha in qualche modo annientato se stesso. Un sacrificio per il bene del pianeta. Che valore ha tutto ciò nel contesto e nella società odierna?
È probabile che Ettore abbia avuto prima degli altri l’intuizione di qualcosa di terribile. Forse la bomba atomica. Secondo alcuni addirittura di un raggio in grado di annichilire la materia. Probabilmente è stato, di fronte a questa intuizione, sopraffatto dallo sgomento. Vista da questa angolazione, la storia di Majorana ci insegna che abbiamo sempre il diritto e il dovere di assumerci le nostre responsabilità. Oggi il progresso scientifico e tecnologico è gestito con l’intento di anestetizzare l’indipendenza di giudizio, non di stimolarla. Oggi vige una regola non scritta, di fronte a molte scelte: tanto, se non lo farò io, lo farà qualcun altro. Ma non dovrebbero essere queste le regole del gioco.

La scomparsa di Majorana è un thriller a orologeria, dove emergono i tormenti di un uomo, ma anche il contesto storico sociale e politico di quegli anni. Tutto questo come viene reso in scena?
Come ha detto Gesualdo Bufalino, “Il gioco fra mistero e verità è tale che non si può frugare troppo addentro nell’animo di un uomo”. Negli anni ’30 e ’40 del ‘900 molta gente ha dovuto fare una scelta. Queste scelte hanno creato deliri, dittature, guerre, ma hanno anche forgiato le coscienze. Tutti questi contrasti emergono sulla scena: secondo la tradizione del buon teatro, attraverso i dissidi e i momenti di empatia fra i vari personaggi.

Cosa spera possa arrivare al pubblico?                                                                                                                                                                 Intanto 75 minuti di emozioni e di suggestioni. Poi, molto semplicemente, che, come Leonardo Sciascia ed Ettore Majorana, tutti noi abbiamo il dovere di farci una nostra idea sulle cose. Sono le idee che muovono il mondo.

Gli scienziati moderni cosa dovrebbero imparare da un fisico come Majorana? Quale insegnamento ha lasciato secondo lei?
Dire che dovrebbe esserci sempre l’etica alla base di ogni decisione è perfino scontato. Quello che credo abbia innescato la deriva delle società in cui viviamo è che esse non sono più dirette dalla cultura. È l’arte il perno di una società sana. Della vita culturale italiana degli ultimi trent’anni rimarrà ben poca traccia. Prima in Italia c’erano Sciascia, Pasolini, Calvino, Moravia, registi, pittori, intellettuali coraggiosi; e ora?

A trent’anni dalla scomparsa di Sciascia, secondo lei in cosa risiede l’attualità e la grandezza della sua opera letteraria?
L’essere libero e controcorrente. Non per il gusto dello scandalo ma per quello del ragionamento. Non per un tornaconto personale ma per amore della giustizia.

Prossimi progetti?
Nell’ansia di utilizzare bene la mia vita, cerco di differenziare le mie attività. È appena uscito, per i tipi delle Edizioni Rogas, un mio saggio dal titolo spero eloquente: L’immaginario rubato: senza arte, ogni società è indifesa. Ho faticosamente in preparazione un film in Bolivia, Il lato invisibile dell’eternità. E mi piacerebbe ritornare presto in teatro, magari per un spettacolo, come mi è fuggevolmente accaduto in passato, che mescoli prosa e danza…

Maresa Palmacci 20-03-2019

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