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FIRENZE – Quanti danni ha fatto la pandemia e quanti ancora non sono visibili ma respirano subdoli sotto la pelle delle nostre esistenze all'apparenza così soddisfacenti e piene e colorate. La solitudine innanzitutto, quel sentimento che adesso è vigoroso e ci rimbomba addosso mentre fino a poco tempo fa ci potevamo tuffare nella confusione degli altri per zittire le voci di dentro che chiedevano imploranti soluzioni e via d'uscita. Adesso, da due anni, l'eco sotto la nostra cassa toracica si è fatto prima pressante e adesso soffocante: domande alle quali non abbiamo nessuna risposta e quella socialità, gli altri, che si allontana sempre più tra divieti da una parte e mancanza di desiderio dall'altra; tu chiamala se vuoi depressione. Su questo filo cammina come un trapezista armonioso l'intelligente testo di Edoardo Erba, “Il marito invisibile” (prod. Gli Ipocriti Melina Balsamo) che prima parte come una sitcom, con due straordinarie interpreti brillanti, poi vira sul noir con tocchi di thriller, ed infine si fa esistenzialista e drammatico lasciandoci un vuoto incolmabile di amarezza e un grande senso di voragine e abisso. Marina Massironi è Lorella, over 50 disillusa dall'amore e dagli uomini, rimasta sola durante il lockdown, Maria Amelia Monti invece è Fiamma, coetanea dell'amica, sposata, abita in campagna con il marito mentre i due figli grandi vivono lontano, sembra realizzata, una vita dove tutte le caselle sono al proprio posto. Ma la realtà, scavando sotto la superficie, non è mai come la facciata vuole farci credere.edoardo erba

“Il marito invisibile” risente fortemente del post-pandemia e di come è cambiata la comunicazione e di come sono mutate le relazioni amicali e di come percepiamo il reale. La messinscena, che ha un qualcosa che ci ha ricordato l'adattamento teatrale di “Festen” dei torinesi Il Mulino di Amleto, ci presenta due “palcoscenici” visivi: puoi vedere il sotto con le due protagoniste alle loro scrivanie intente nel chiamarsi in questa call su Zoom, oppure puoi guardare sopra sui maxi schermo dove è possibile seguire le nostre due “eroine” come se fossimo direttamente noi a chattare con loro vedendo lo schermo del portatile e lo sfondo casalingo dal quale si stanno connettendo. Una visione teatrale e “sporca” sul palco e sopra quella perfetta e ripulita (ne è già stata tratta una versione per l'online che uscirà alla fine della lunga e fortunata tournée; è una delle poche piece che si può prestare ad una visione che l'utente può usufruire da casa proprio perché pensata per quel mezzo e non adattata allo scopo). Uno spettacolo dove alcuni elementi concorrono alla sua felice riuscita: un testo che scandisce e puntella, una recitazione che non è né parodistica né sopra le righe, piccoli interventi musicali che ne sottolineano i cambi di climax, di status e i vari passaggi, e ovviamente lo strumento tecnologico (con riprese in soggettiva) che diventa centrale e cardine, fulcro e perno sul quale poter ruotare tutto il senso della vicenda. Una telefonata ti salva la vita, diceva Massimo Lopez in una pubblicità anni '90, oggi potremmo dire una call, anche se il vedersi a distanza, una volta che abbiamo staccato la comunicazione, ci lascia ancora di più un senso di vuoto e di buco nero facendoci sentire ancora più forte i morsi del mancato contatto.

teatro.it il marito immaginario marian massironi maria amelia monti spettacoloPotrebbe essere “Donne sull'orlo di una crisi di nervi”, ma sarebbe troppo semplicistico e riduttivo: due amiche si sentono dopo molto tempo e dopo qualche convenevole Lorella spiega a Fiamma che, dopo tanti amori andati al macero e alle ortiche, stavolta ha trovato il grande amore e, non paga del recente passato che l'ha illusa e poi delusa, se lo è addirittura sposato in fretta e furia. L'amica è da una parte sconvolta, dall'altra felice se l'altra, da sempre sfortunata sul fronte uomini, ha trovato la sua stabilità e serenità dopo tanto cercare e vagare di fiore in fiore. Ma le sorprese devono ancora arrivare quando la Massironi-Lorella confessa che il suo Lui è invisibile. Sì, proprio invisibile, ovvero c'è ma non si vede. La Monti-Fiamma prima va su tutte le furie dicendo all'amica di una vita che la solitudine le sta facendo male, di non smettere di prendere le medicine e gli ansiolitici, che si deve far curare. E qui ci è venuta in mente la recente e dolorosa vicenda del pallavolista italiano che ha avuto una relazione online, senza mai vedersi dal vivo, per quindici anni con una donna che si fingeva una modella e che gli ha sottratto 700.000 euro. Se l'amica bolla il marito dell'altra come “amico immaginario”, l'altra invece glielo presenta portandolo davanti allo schermo e, non vedendo né udendo alcunché, ottiene l'effetto contrario. Fiamma ora ha la certezza che l'amica non sta effettivamente bene. Ma i colpi di scena sono soltanto agli inizi. Qui sentiamo, nella drammaturgia di Erba, una strisciante denuncia di complottisti, terrapiattisti e no vax che hanno fatto presa sulle persone sole e fragili, abbandonate prima davanti allo schermo della tv e che adesso, con una tastiera a disposizione nell'era del 2.0, si sentono protagoniste e finalmente hanno trovato qualcuno che realmente ascolti le loro istanze e paure. Ognuno di noi ha fortemente bisogno di credere in qualcosa.

“Il marito” si fa noir, con inserti hitchcockiani e pennellature sonore, quando si affacciano ipotesi di spionaggio o addirittura l'idea aliena. Fanno capolino Spielberg o Carpenter, Lynch e Cronenberg: magia e mistero, nebbia sul fronte logico ma ampi spazi di manovra su quello poetico e catartico. Ma è tutta la drammaturgia che veleggia amabilmente sul doppio binario del reale da una parte e del metaforico e simbolista dall'altra e quando pensi di aver capito e inquadrato personaggi e situazioni in un attimo, con una virgola o una sospensione, ribalta il senso precedentemente e sapientemente costruito attorno, appunto, a quello che non c'è (come cantava Manuel Agnelli). Sta di fatto che Lukas (il nome del marito invisibile che Erba ci dice essere norvegese: un aggancio e un'autocitazione riferendosi al suo testo “Utoya” basato sulla strage di Breivik?) è come un virus che si propaga e si diffonde e tutto travia e tocca e sposta e macchia. Mentre constatiamo che anche ilzelbio cult 174029.660x368 matrimonio di Fiamma sia basato su fondamenta deboli di sabbia: chi è più invisibile tra il marito reale dell'una e quello effettivamente invisibile dell'altra? E non è che tutti noi siamo invisibili agli occhi degli altri, considerati di volta in volta come oggetti o numero o massa o folla? Tutti abbiamo bisogno di essere ascoltati e di essere amati.

Il finale, ancora più sconcertante e che lascia definitivamente lo spumeggiante (le due attrici tengono magnificamente le redine del play in un continuo ping pong pirotecnico) per sondare un terreno più intimo, acre e tormentoso, collegando lo scomparire alla sparizione sociale, al perdersi come eremiti nichilisti (gli hikikomori ne sono un esempio giovanile) nascondendosi nelle proprie abitazioni-loculo, chiudendosi senza relazioni soli tra le quattro mura domestiche nelle nostre case che diventano prigione ovattata e nido caldo o al gesto estremo del suicidio diventando energie che fluttuano senza più preoccupazioni terrene, senza più timori materiali. Ma è un testo che ci parla anche di una trasformazione che ormai è necessaria, nella società e dentro ognuno di noi, di un cambiamento perché i tempi sono diabolici e i passaggi fanno paura. La paura di scomparire (o morire) è quella che più fa tremare e tribolare noi occidentali nel mondo che abbiamo costruito a nostra misura, fondato sull'apparenza e sul concetto di avere che determina l'essere. “Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono, supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare, ti salverò da ogni malinconia, perché sei un essere speciale, ed io avrò cura di te”, Franco Battiato ci indica sempre la via giusta.

Tommaso Chimenti 01/01/2022

REGGIO EMILIA – La riflessione che consegue la visione di “Stelle Nere” (prod. Centro Teatrale Mamimò) è che risulta qualcosa mancante, un'insoddisfazione di fondo, un'apertura per poi ritrarsi, un vorrei ma non posso. Il tema era di quelli potenti, centrali, da sviscerare, ovvero se l'arte, da qualsiasi pulpito arrivi e venga prodotta, abbia il diritto e la cittadinanza di poter essere promulgata senza che questo diventi propaganda. Ci spieghiamo meglio: il “Mein Kampf” doveva essere pubblicato e ristampato fino ai giorni nostri dopo la caduta di Hitler e del Terzo Reich oppure si sarebbe dovuto farne un falò come in Fahrenheit 451? L'arte ha anche il compito di raccontare uno spaccato storico e quindi ben venga il manuale hitleriano per mostrarci e farci capire, leggendolo, le aberrazioni di un certo credo indottrinato. Senza il passato a farci da monito il futuro è certamente più nebuloso. Quindi da una parte l'arte, che anche al netto di strumentalizzazioni politiche dovrebbe stare al di sopra, e dall'altra la politica. Stelle Nere MaMiMo 1

L'autore e regista Fabio Banfo, fresco vincitore per “Alfredino” del Premio Fersen per la regia, ci porta dentro una vicenda ancora misteriosa e avvolta dal fumo del tempo e dalla mitologia partigiana: Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, attori dagli anni '30 fino al '44, coppia sul set e nella vita, che abbracciarono l'idea del fascismo prima e della Repubblica di Salò successivamente e per questo pagarono (l'ordine fu dato in persona da Sandro Pertini) con la vita. A pesare sulla loro estrema fine furono le feste, con tanto di musica, balli e cocaina, all'interno di Villa Triste dove ai piani inferiori venivano torturati i partigiani arrestati e a quelli superiori si faceva baldoria tra champagne e sesso. Storia vera.

stelle nere teatro mamimoMa c'è stato un fraintendimento tra le intenzioni e la messinscena che ha mostrato principalmente un quadro pirandelliano di teatro nel teatro dove i due protagonisti (sul palco il sicuro Umberto Petranca e l'efficace Cecilia Di Donato) rimanevano imbrigliati in questo limbo-cantina-set disfatto tra i ruoli interpretati e la loro vita lì costretta. Un sottoscala che poteva essere un palco distrutto, anche metaforico, con oggetti e cianfrusaglie sfatte e lasciate e abbandonate e buttate come i loro corpi in attesa. Il misunderstanding scaturisce anche dal fatto che furono i partigiani a rinchiudere i due attori e poi a fucilarli mentre in “Stelle Nere” i due sembrano ingabbiati da Pietro Koch (proprio Fabio Banfo, veramente convincente; entra e cambia il clima), capo di una banda violenta fascista attiva nel torturare e catturare i partigiani. E' qui lo scarto che non convince (forse per non mostrare i partigiani come torturatori ed esecutori sommari a loro volta): Osvaldo, Luisa vessati da Pietro come se quest'ultimo fosse il loro carnefice. Ed è in questo frangente che ci perdiamo proprio perché non arriverà mai il momento della distruzione o sparizione delle bobine delle ultime pellicole delle due star del cinema nostrano che non sappiamo se siano andate perdute nella guerra civile e nei saccheggiamenti o se distrutte volontariamente e scientificamente per non lasciare traccia del loro passaggio, della loro arte proprio perché affiliati al regime. Sarebbe stato questo il nodo focale sul quale porre la lente d'ingrandimento anche per una riflessione che poteva andare oltre queste due figure dimenticate che qui vengono leggermente tratteggiate senza un approfondimento incisivo.Stelle Nere MaMiMo 3

Stelle Nere MaMiMo 5Si cade nel vortice più che altro di un ragionamento su che cos'è il teatro, un pensiero lievemente “chiuso” e autoreferenziale del mestiere che parla alla sua pancia. Rimaniamo nel guado tra la realtà e la finzione, tra la recitazione e i personaggi che recitano la loro parte di attori in un continuo scambio debordante (non privo di inciampi) che sconfina facendoci perdere di vista l'obbiettivo del ragionamento e del pensiero iniziale se l'arte, in toto, debba essere comunque salvata e mostrata ai posteri anche se arriva dai nostri avversari politici o se è stata prodotta da oppressori feroci. Qui Banfo ci mostra, giustamente e con garbo ed eleganza, un accadimento sconosciuto ai più ma rimaniamo sospesi in una narrazione che evidenzia due persone in cattività in questo carcere perenne attendendo la propria condanna (traslando gli esecutori materiali del fatto) mentre la drammaturgia non riesce pienamente a scandagliare e raschiare (e rischiare) il fondo del barile nel far emergere considerazioni che possano esulare dal contingente e assumere vesti più universali. Forse il mirino non è stato messo così a fuoco.

Tommaso Chimenti 29/12/2021

MALAGA - In mezzo scorre il fiume. Già. Una volta. Ora è secco, vuoto, prosciugato. Sotto, alle pareti di quelli che furono argini bagnati, schizzi di Street art colorati e in secca. Se lo percorri dal mare verso le colline circostanti si arriva allo stadio dove i colori bianco e azzurro spiccano alla Rosaleda. La squadra però è in Segunda Division, la nostra serie B. A Malaga a dicembre ci sono dai 15 ai 18 gradi. Come una primavera. La spiaggia in città, addobbata di ristorantini sul mare con le tovaglie a scacchi e il braciere a forma di barca di pescatori, è un regalo per la salute, per quella forma di libertà che il mare sempre riesce ad elargire con il suo fruscio. Sulle infinite palme altrettanti infiniti pappagalli verdi, un’onda che cinguetta persistente e senza resa. Non puoi non assaggiare i churros con il cioccolato fondente nel Bar Central in Plaza de la Constitution, come non puoi non addentare le tapas o i pinchos che gli innumerevoli bar e ristoranti propongono. e798cb83e6f64a3d92ac2868223d7a0d.jpgUn mimo con il costume del gorilla e uno intento nella sua posa plastica polveroso e annerito come un minatore stanno agli imbocchi della via principale, Calle Larios. Sopra Malaga la fortezza Alcazaba di chiara origine araba mentre salendo ancora ecco il Castello dal quale si vede la plaza de toros attualmente chiusa al pubblico, il tondo dell’arena con il giallo della sabbia circondata dai palazzi a pochi metri dal mare. Al Museo Picasso è un continuo meravigliarsi così come al Centre Pompidou, filiale della madre parigina, che con il suo quadrato colorato si staglia, a fianco di un semicerchio nero, al Muelle Uno, il nuovo molo dove attraccano le grandi navi, luogo che ha trasformato Malaga rendendola più dinamica e giovane e moderna (anche più commerciale, che non è sempre una cosa negativa) con mercatini e locali alla moda.

Uno degli kelipe-arte-flamenco11.jpgspettacoli di Malaga però è, da centinaia di anni, il flamenco collegato a doppio filo alle popolazioni gitane che arrivarono nel sud della Spagna dal quinto secolo dopo Cristo in avanti. Lo storico locale Kelipe è caldo, nero e rosso, tavolini come in un club, candele, l’atmosfera prende fuoco, la magia si può respirare intima. Siamo dentro un mondo antico fatto di chitarre e scialli e tamburelli appesi, luci soffuse e tradizioni, folklore e corazon, sentimenti e sofferenze amorose. In quelle corde pizzicate con le unghie ed estrema armonia, in quella voce roca a strascicate il canto e ulularlo alla notte, in quei passi di danza fremente e arrabbiata, decisa e impetuosa, sta un miscuglio di ricordi e nostalgia, di amore e brividi che si spargono, ti travolgono come un’onda, ti abbracciano, ti scardinano. Tutto è intenso e profondo, le mani scivolano sulle sei corde pizzicandole e accarezzandole, i piedi battono roboanti sul palco che rimbomba di tonfi sordi. Il giovane cantante Josè de la Nana rimanendo a sedere sulla sua sedia ha le movenze del cunto, la sua voce baritonale è un’estensione che sfida le dinamiche della vocalità, le vocali finali allungate a perdifiato, i due danzatori, Raul Ruiz forza intrigante e determinazione, e Susana Manzano bellezza, fascino e atletismo, e l’energia soave del chitarrista Amit Zuker virtuoso senza limiti, fino alle lacrime, alla commozione, alla pelle d’oca. Quel battere di mani continuo, quell’incitarsi tra i quattro sulla scena in una marea di sensazioni a ricorrersi, a scaldarsi, a prendersi, ad abbracciarsi con voluttà, esotismo, eccitazione. L’aria è fumosa, da sottobosco urbano vissuto. L’atmosfera potrebbe essere quella di una balera romagnola come di una milonga argentina. Lo spettacolo è un alfabeto di gesti ancestrali, come i movimenti coreografati di un torero, intrisi di tecnica, intenti di passione, un’allegria triste che ci pervade, una tragica fiesta che ci bacia Opera_La_Cenicienta_baja_Foto_Daniel_Perez_08.jpgsulla bocca come un matrimonio, come un funerale. I quattro in scena, generosissimi e scatenati, si guardano costantemente, si cercano con lo sguardo fiero, sono consapevoli dell’arte che maneggiano e la rispettano e ce ne fanno dono. Tra le righe potremmo trovare delle similitudini con la musica araba come con Opera_La_Cenicienta_baja_Foto_Daniel_Perez_09.jpgi vocalismi neomelodici napoletani. Le scarpe con il tacco rinforzato fasciano e avvolgono piedi sensibili che ci scuotono con i colpi dati al pavimento che risuonano fuori e dentro di noi come martelli pneumatici ci sondano lo sterno. E il canto è un lamento di sirene, una preghiera verso l'eterno, il ritmo incalza e ci prende l’anima, la attorciglia, in un ritmo frenetico e appassionato che trasuda storia ed eros, mulinano i tacchi, sprizzano le punte, spiccano le caviglie, guizzano i quadricipiti femorali: una gioia per il petto e per gli occhi.

Favola che non conosce tempo, come il flamenco del resto, è anche “Cenerentola” (Cenicienta in spagnolo, prod. Teatro Real di Madrid, Teatro de la Maestranza di Siviglia, Teatro Cervantes di Malaga, Fondazione Opera di Oviedo) vista al Teatro Echegaray, un bell’esperimento riuscito di commistione tra teatro ragazzi e opera. Ne esce un pastiche godibilissimo con sette giovani cantanti eccelsi e un pianista dal vivo per una storia colorata antica ma con riflessi e risvolti pop e contemporanei. Quasi come se fossimo dentro “Sei personaggi in cerca d’autore” pirandelliano, gli attori e protagonisti della recita all’inizio entrano sul palcoscenico, una sorta di teatro nel teatro, in questo luogo mitico e magico ma chiuso da troppo tempo, e quindi polveroso. Da un baule è come se prendessero gli abiti di scena, che calzano a pennello, e i ruoli si impadronissero dei ragazzi trasformandoli nel Opera_La_Cenicienta_baja_Foto_Daniel_Perez_10.jpgplay millenario del gioco del teatro. Se una sorellastra ha i capelli tinti e il bomber rosa in stile Kardashian, se l’altra li ha arancioni e ci ricorda Lady Gaga ed entrambe hanno leggings e marsupio e cellulare e scarpe con la zeppa che si illuminano, se al posto della matrigna ecco il patrigno. Piccoli e pieni di senso accorgimenti per spostare, ampliare e avvicinare, divertendo, la fiaba al nostro tempo. Se le sorelle sono istupidite, arroganti, ignoranti e starnazzanti, Cenerentola, nel suo abito double face davanti grembiule da faccende domestiche e il risvolto diventa invece un bellissimo vestito da sera da ballo a corte di tulle e trasparenze mentre la carrozza è un carrello portabiti da Grand Hotel e il ciambellano finto-principe balla come in Walk like an Egyptian. Ne viene fuori un'operetta da camera ben costruita e congegnata per tutte le età con cantanti all'altezza, uno spettacolo fatto di trasformazioni perché in teatro si entra sempre come spettatori e se ne esce come partecipanti, come visionari, come sognatori.

Tommaso Chimenti 27/12/21

Foto Cenicienta: Daniel Perez

FIRENZE – Inevitabile, con un titolo così lungo, non pensare all'appena scomparsa Lina Wertmuller. Forse un omaggio del duo Nicola Borghesi, scrittura (in collaborazione con Daniele Parisi e Gioia Salvatori) e regia, e Lodo Guenzi, autore e attore. Un uomo solo su un palco gigantesco che all'inizio pare perdersi poi pian piano, attraverso i passaggi, le età, le delusioni, le sconfitte, se ne appropria, lo fa suo, lo riempie di corpi e di senso, lo colora sempre sul filo della commozione e dell'emotività. Lodo Guenzi, il frontman della band Lo Stato Sociale, ci dà una grande lezione di umanità. E' dimesso e sconfitto, è Paperino e Calimero, è un Woody Allen nostrano, è un ultimo di successo, è un perdente di lusso che improvvisamente è diventato “famoso” e ancora, con modestia e scarsa autostima, non si considera meritevole delle attenzioni e dei complimenti altrui, uno schivo, uno che vorrebbe stare nell'ombra e che invece ogni sera viene catapultato fuori a dire qualcosa, uno che si meraviglia ancora che gli altriLodo_Guenzi_1.jpg trovino interessanti le sue parole, un umile che ha paura del microfono, uno stonato che è diventato qualcuno cantando. “Uno spettacolo divertentissimo” è un romanzo di formazione, un racconto della crescita personale, soprattutto interiore, di questo ragazzo che vorrebbe rimanere tale, che vorrebbe rifuggire le responsabilità (Peter Pan non c'entra niente), che vorrebbe scappare dal tempo che scorre, che vorrebbe sparire davanti all'adultità.

Tra un aneddoto giocoso e una parodia (Jovanotti e Roby Facchinetti), sempre senza prendersi sul serio altrimenti che gusto c'è, arrivano le stilettate ben assestate di malinconia e nostalgia e bisogno di calore; in questa sua Via Crucis ci presenta personaggi che lo hanno ferito, che lo hanno offeso o fatto sentire piccolo e insignificante, che lo hanno messo da parte e fatto sentire incapace, superfluo, emarginato: alla fine ha vinto lui, ad esultare è stato il suo gandhismo. lodo-guenzi-crop-853x1024.jpgNessuna vendetta, nessuna rivalsa, nessuna rabbia nelle sue parole. Guenzi è uno che ce l'ha fatta e si sente in colpa proprio per aver avuto successo ed essere su un palco rialzato, nella luce, a raccontarci la sua storia che lui stesso in primis non avrebbe voluto che fosse stata eccezionale. Uno che voleva sparire con la carta da parati e che invece, dopo Sanremo e dopo essere stato giurato ad X Factor, si trova al centro dell'attenzione mediatica, sballottato, fotografato, cercato per un selfie: bidimensionale mentre ha una profondità esondante tutta da esplorare.

Due sono i cardini sui quali gira l'intero show, perché si tratta di una vera e propria autobiografia snocciolata costruita attraverso i ricordi più viscerali e toccanti di una giovane esistenza: la canzone di Endrigo “Io che amo solo te” che torna e ritorna e ancora che in definitiva è dedicata al suo primo vero amore, quello per il teatro, e un monologo che lo ha accompagnato dall'Accademia Nico Pepe di Udine, passando per un ragazzo che è morto in scena, per errore, sul palco. Refrain che ci lambiscono, ci scuotono, ci destano, ci prendono per il bavero, ci smuovono le coscienze dalla nostra comfort zone. Uno spettacolo utile per tutti quei ragazzi che non sanno quale sarà il loro futuro, che lo vedono nero e nebuloso, che non sanno che strada e che direzione prendere, che non sanno chi sono o dove vogliono andare, per tutti quelli che hanno paura del domani. Lodo Guenzi ci dice che ce l'ha fatta ma che lo stesso vorrebbe ancora essere quel ventenne con tutti i sogni intatti nello zaino: “Non so perché sono sopravvissuto”, confessa. Ci dice più volte: “Io ho paura” e passa onestà e verità e non solo drammaturgia. E ci dice che, nonostante tutto: “Io sono come te”.

Una riflessione (leggermente dilatata e large: 1h 45') dove appaiono, come epifanie da dribblare, persone e personaggi fulcri per ambire ai passaggi successivi, come un videogioco nel quale quel che vinci Lodo-Guenzi-e-Nicola-Borghesi-3.jpgsei te stesso: i bulli a scuola che lo picchiavano, la scuola di recitazione, la ragazzina che si sente fuori luogo a X Factor e che lui deve giudicare invece che consolare e stringere, l'inadeguatezza provata a Sanremo, il sosia di Malgioglio con il quale condivide la tristezza nei confronti di quel mondo che ti inscatola, ti usa e ti isola, una ragazza bellissima che voleva assolutamente (e secondo lui inspiegabilmente) andare a letto con lui dopo un concerto, un regista che lo massacrava ad ogni prova: “Vi perdono tutti” catarticamente. Un one man show che è un reset, una ripulitura, un respiro per riprendere il fiato e ripartire.

maxresdefault.jpgForse avrebbe voluto continuare a prendere treni regionali e frequentare piccoli teatri. Forse il sentirsi perennemente “sfigato” sarebbe stato meglio che doversi giustificare, con se stesso, soldi e fama. Forse sente addosso la “sindrome dell'impostore” “il fenomeno per cui una persona si sente incompetente e pensa di aver ingannato gli altri circa le proprie capacità, vivendo uno stato psicologico intriso di senso di colpa, mancata introiezione del successo”, come ben spiegano le psicologhe Clance e Imes. Il fondale di paillettes luccicanti è la maschera dello showbiz che tutto ammanta di riflessi e bagliori confondendo, traslando la realtà, trasformando anche le tragedie in qualcosa di amabile pronto ad essere “venduto” e digerito e “comprato” proprio perché tollerabile e accettabile. Caduto quello rimangono le impalcature e la scena per quel che è: sporca, sdrucita, certamente imperfetta e sbilenca. Come lo sono anche le vite “famose”. Lodo Guenzi si mette a nudo e ci incoraggia, ci infonde fiducia, non cerca nuovi fan ma persone con le quali parlare. Ha bisogno di raccontarsi. Le parole lo hanno salvato. Adesso vuole restituire questo dono con un mix di dolcezza colma di pietas e cinismo velenoso. Non è un superman, è per questo che ci piace ancora di più.

Tommaso Chimenti 12/12/2021

BOLOGNA – Identificazione, empatia, sentirsi dentro una storia, dentro un corpo anche se quella storia, quel corpo ti sono distanti sideralmente, per cultura, per latitudine, per storia, per nascita. Identificazione e identità, stessa radice, diversa propagazione semantica. Comincia lenta questa nuova produzione del Teatro dell'Argine, freschi vincitori dell'importante “Premio Rete Critica” a Padova, come un diesel sembra che non ingrani. L'apparenza inganna. La storia appare lontana, lontanissima, l'Africa nera, purtroppo una narrazione già sentita, di fame, miseria, superstizioni, sofferenze, dolori. Sulla scena una incredibile, meravigliosa Micaela Casalboni che, a piccoli passi, ci conduce, a sorsi millimetrici, dentro questa vita che ad un primo ascolto ci è sembrata distante, talmente separata dal nostro vissuto quotidiano da sentire una scissione, una separazione, una frontiera. La scena, che successivamente prende corpo e si fa viva (grandi lavori di intaglio evocativi quelli di Giovanni Dispenza), ad un primo sguardo ha la forma e le fattezze caratteristiche ed usuali del teatro ragazzi: statuette di legno sul boccascena, cornici vuote, manichini, sculture automatizzate, pupazzi da muovere in questi microsipari. Il racconto pare non ingranare: che cosa mi stanno raccontando le parole scritte da Nicola Bonazzi (appena vincitore del “Premio Malerba” di narrativa)? Non riesco a trovare il gancio, l'appiglio, la connessione.045_Harperstudio__S4_0092.jpg

Poi, come un fulmine, una vera e propria illuminazione, si attua il miracolo, si accende lo storytelling. La Casalboni tocca le corde invisibili del parallelismo, della vicinanza umana non tanto come compassione per le vite altrui ma quanto come identificazione dentro le vite degli altri, trovare i punti 122_Harperstudio__S4_0316.jpgdi contatto (che ci sono sempre) anche con le esistenze più disparate e apparentemente discordanti dal nostro piccolo e misero intorno. In definitiva, non giudicare nessuno da sopra un piedistallo ma mettersi allo stesso piano, sullo stesso livello perché ogni vita ha uguale dignità in qualsiasi tempo e luogo e spazio sia stata respirata. L'attrice monologante (in vero stato di grazia, palpabile e tangibile), con la forza, la passione, la convinzione che la contraddistingue, attua uno switch tanto interessante quanto funzionale: da una storia da vedere con il cannocchiale, da dover zoomare per poterne vedere i contorni comunque sgranati e sfocati, si passa repentinamente alla sua autobiografia, dall'Africa alla Romagna e tutto ci appare improvvisamente così vicino e comprensibile e la vicenda di sofferenza e tragedia vissuta dal ragazzo africano adesso è nostra, è sulla nostra cute, non la vediamo più da uomini europei “buoni” con i dirimpettai del continente nero ma la sentiamo sottopelle perché qualcuno ci ha mostrato la via per parteciparla, per comprenderla finalmente.

Non si tratta di compassione ma di, finalmente, vedere chi si ha di fronte non come un disperato ma come il nostro specchio che ci proietta la nostra immagine. E tutto cambia. Radicalmente. E “La luce intorno” davvero si anima e prende davvero campo e si libra e tutto avvolge e si spande ed è folgorante come le parole si aprano e la commozione inizi a scorrere in un vortice di ferite che ora sentiamo 153_Harperstudio_RHS_0301.jpgaddosso. Stanno parlando a me, stanno parlando con me, stanno parlando di me. Quella che ci stanno raccontando dal palco non è più la storia di uno sfortunato ragazzo africano al quale viene negata per ben due volte la famiglia e che, per grette e pericolose superstizioni e credenze animiste, viene definito e considerato “maledetto”, non è più la storia di barconi e prigionia in Libia, ma diventa la nostra storia perché l'attrice palleggia la vicenda del Benin e del Togo in alternanza con la Romagna prima e con Bologna poi ma soprattutto il parallelismo più forte e viscerale e ancestrale è tra le madri, non certo perché siano uguali le mamme africane che ripudiano il nostro protagonista e la mamma della Casalboni, ma perché il “chi sei” e il “da dove vieni”, da “quale famiglia vieni”, il “cosa fai nella vita”, le incomprensioni, diventano le domande pressanti ad ogni latitudine e rimbombano e fanno rumore e se a queste domande non riesci a 159_Harperstudio__S4_0404.jpgdare risposte il castello di sabbia cade e tutto si frantuma e sembra inutile e senza fondamenta.

Come è esplosiva la simmetria tra il figlio non voluto e ceduto e allontanato che è stato il nostro antieroe e il figlio mai nato dell'attrice, voluto con tutte le forze ma mai arrivato. Ci sono madri e ci sarebbero state madri. Ci sono storie fortunate in esistenze devastanti come ci sono vicende sfortunate dentro vite fortunate. E' il riconoscere quel dettaglio, quell'irrazionale minimo pensiero che passa, quel “sarei potuto essere io”, fermarlo e farci i conti. Non è commiserazione né compatimento né pietà, è identificazione. Che passa inevitabilmente dall'identità. Toccante fino alla pancia, al cuore, allo stomaco, al fegato, all'anima. Se non sai da dove vieni non puoi decidere dove vuoi andare. Ognuno di noi ha una “Luce intorno”, molte volte è difficile scorgerla nel buio che spesso avvolge molte esistenze.

Tommaso Chimenti 10/12/2021

FIRENZE – Come essere nel suo salotto, come stare ad ascoltare i suoi aneddoti ad una cena, attorno ad un tavolo, le sue storie, le bizzarrie, le caricature, le follie, i personaggi che si affollano, tutte le stravaganze che poi sono entrate nelle sue pellicole. Ferzan Ozpetek ci accoglie nei suoi ricordi, ci fa spazio, ci dice di entrare in punta di piedi, con il sorriso e la gentilezza, con una leggerezza invidiabile anche quando tratta temi drammatici e argomenti personali strazianti. Subito fa accendere le luci in platea per guardarsi negli occhi. Cerca un filo diretto con il “suo” pubblico mai come questa volta così vicino, così dentro, così vivo. Un uomo solo sul palco, emozionato ma energico e spumeggiante e brioso, che si concede generoso mentre dietro le sue spalle passano le foto della ferzaneide-01-580x580.jpgsua vita: lui da bambino, la bellissima ed elegante madre, i fratelli, gli amici, il marito. Una carrellata del suo mondo questo “Ferzaneide” (prod. Nuovo Teatro di Marco Balsamo), spaziando tra realtà e celluloide capiamo che tutto quello che il regista turco-romano ha fatto confluire nelle sue trame e sceneggiature ha una grossa base fondata nella vita reale, negli accadimenti che gli sono capitati. Si sente, si percepisce che è risolto, che è circondato da amore e anche che tutto questo non è caduto dall'alto. Ci vuole talento anche nell'accettarsi e nell'essere amati.

Ma è il suo garbo quello che più ci ha colpito, l'eleganza, la cordialità e raffinatezza nell'aprire il suo cuore, nel mettersi a nudo. Infatti la locandina, il bellissimo disegno di Mimmo Paladino, ritrae una sorta di Cavallo di Troia (dall'Eneide alla Ferzaneide) come se fossimo noi spettatori ad entrare, con lo stratagemma del cavallo, tra le mura della fortezza del regista. E' salito su un palco senza aver bisogno né di popolarità né tanto meno di guadagni. Attore per una sera senza esserlo. Ma nonostante questo regge benissimo un palcoscenico enorme e impegnativo come quello del Teatro della Pergola. E' a suo agio con le memorie che si affacciano e si affastellano, con questo canovaccio che scorre, saltando dall'amata madre all'infanzia, ai suoi amori, alla scoperta del sesso. Un universo colorato come un arcobaleno il suo costellato non soltanto di lustrini ma anche di perdite, come quella del fratello o di tanti cari amici venuti a mancare in questi anni. Da adesso in poi vedremo in maniera diversa, con occhi più brillanti, i suoi film.

Quando racconta della madre è impossibile non commuoversi. Tutto è accennato senza drammi né lacrimevoli lamentazioni, un pizzico di cinismo disilluso ma anche tanto charme, polvere di stelle e amore sparso come neve in quota a decorare gli eventi che hanno, nel bene e nel male, segnato la sua folgorante vita, artistica e personale, e che, di fatto, sono intrecciate e strettamente legate a doppio filo. Si sente che è aperto ferzaneide-03-880x580.jpgverso l'altro, disinvolto, disponibile all'incontro. E ci racconta della madre che ad oltre ottant'anni si era invaghita del suo fisioterapista o di un suo amore incrociato in giovane età in un bagno turco, della genesi di “Saturno contro” e le sue superstizioni, del fratello scomparso per un tumore al pancreas, di quando era assistente alla regia per Massimo Troisi, di un signore anziano trovato su Ponte Sisto che aveva perso la memoria dal quale è scaturito “La finestra di fronte”, di “Mine vaganti” che è la storia familiare di un suo amico e del fratello.

Come tutti gli artisti Ozpetek “ruba” e prende in prestitoferzaneide-04.jpg dalla realtà che lo circonda e la sublima nel suo cinema. Tutto sembra frutto delle coincidenze e del caso fortuito, degli incroci, degli incastri che la vita ci mette davanti. E ci parla di Istanbul e di Roma, dell'affetto sconfinato che ha per Serra Yilmaz come di omosessualità e di felicità in questa sua chiacchierata fatta di sorrisi e di qualche lacrima, una chiacchierata tra amici. Impossibile non volergli bene.

Tommaso Chimenti 03/12/21

Giovedì, 02 Dicembre 2021 10:40

"Eugenia": tre vite diversamente distrutte

GUBBIO – Come un thriller a ritroso per entrare nelle pieghe di una vicenda sepolta nel tempo che nel frattempo è macerata fino alle estreme conseguenze, finché la pustola purulenta non ha raggiunto il suo culmine sbocciando, deflagrando, talmente infetta da scoppiare. Tre storie per raccontare quella di “Eugenia”, tre punti di vista, spaziali e temporali, per approfondire un caso di cronaca (purtroppo reale e simile a tanti altri) che qui diventa esistenziale ed emotivo, interiore e devastante, umiliante e martellante. Tra palazzoni romani di periferia degli anni '60 (da notare che i tre solidissimi attori sulla scena hanno le stesse età dei protagonisti) Eugenia è una bella ragazza che tutti vorrebbero ma che nessuno ha il coraggio di avvicinare. Lei è segretamente innamorata del più timido che ricambierebbe volentieri ma non ha gli strumenti e soprattutto l'autostima per capire di poter piacere, soprattutto alla più bella e desiderabile del quartiere. E intorno c'è il branco, cattivo, sporco, insoddisfatto, frustrato, insensibile. Il branco che, con la complicità del timido che porta fisicamente con una scusa la ragazza in un sottoscala, violenterà la giovane._DSC5584.jpg

La regia di Massimo Verdastro ha sviscerato il testo di Franco Rossi creando un'atmosfera di suspense e noir attorno a questo evento tragico e drammatico che investirà tutti i suoi interpreti senza mollare la presa. Ogni personaggio ha il suo monologo di mezz'ora, prima Eugenia (Mariella Lo Sardo), nella parte centrale lo stesso Verdastro (nel pezzo più concreto) che è il ragazzino che ha permesso lo stupro, l'ultima è il prete (Emanuele Carucci Viterbi) che, pur sapendo la verità, non ha accompagnato la vittima alla Polizia per denunciare l'accaduto. La scenografia essenziale (Pier Paolo Bisleri), tagliata con rettangoli colorati cangianti sul fondale (luci iconiche di Carlo Cerri), vede sei sedie sul palco, come i protagonisti-testimoni-accusati-colpevoli della vicenda, sedie in cerchio, sedie che cadono pinabauscianamente, sedie accatastate in montagne di menzogne e false verità difficili da smontare, sedie di imputati fuggiti davanti alle proprie responsabilità. Eugenia che dopo anni dalla violenza torna nel rione per ricordare a tutti loro, con la sua presenza e il suo sguardo indagatore e minaccioso, ogni giorno, che lei c'è e ci sarà sempre per a rammentare e rievocare ai sei quello che le hanno fatto, Eugenia (questo personaggio ci ha ricordato “I ragazzi di via della Scala” di Ugo Chiti) che alla fine non regge più il peso del silenzio e si suicida (in definitiva non è un suicidio ma un omicidio), gettandosi dal palazzo (in quelle parole d'angoscia abbiamo rivisto le immagini degli uomini che cadono d_DSC5742.jpgalle Torri Gemelle di NY l'11 settembre 2001), e con il suo sacrificio martirizzato fa emergere tutta la polvere messa sotto il tappeto dal tempo, dall'omertà.

Se il primo e il terzo monologo, “Eugenia” e “Il prete ed Elvis”, sono un mix incentrato sulla vicenda ma anche metaforicamente poetici e immaginifici, è quello centrale, “I funerali di Togliatti” (con un Verdastro superlativo; un pezzo che potrebbe veleggiare anche in solitaria), con una scrittura da commedia all'italiana, dove si miscelano sapientemente ilarità e grottesco, dramma e farsa, che dà corpo e sostanza al precedente e al successivo, creando uno spartiacque fondamentale, un ponte e un passaggio non solo per delineare i contorni dell'accaduto ma anche per dare un quadro sociale, politico, geografico, civile, religioso all'intorno, a tutto quello che esulava dal contingente, aprendo tante finestre sul momento, gli anni '60 in Italia, la politica, la morte di Togliatti proprio catarticamente lo stesso giorno dello stupro, il rapporto con il padre che rende calore umano e vicinanza familiare all'interno dell'affresco delittuoso._DSC6038.jpg

Il sottotitolo della piece è “Trittico della gente invisibile”: pasoliniano. Non solo Eugenia è invisibile, e la sua morte forse non farà notizia e non scalfirà le coscienze, ma sono invisibili anche il ragazzino timido, il padre comunista, gli altri bambini-assalitori adesso diventati uomini di borgata, bassi, incolti, gente che ha fatto al massimo numero, quantità e mai qualità con esistenze misere e miserabili alle spalle. La narrazione, a tratti dura e feroce e straziante e difficile da ascoltare, a momenti pirandelliana, si dipana e si sfila sul doppio binario del senso di colpa e della vergogna, tratti che accomunano sia Eugenia che Palmiro, che in qualche modo li avvicinano nel dramma, nel peso da portarsi addosso, la prima perché vittima indifesa, il secondo colui che l'ha spinta nelle braccia degli aguzzini famelici. In fondo sono tutti colpevoli, tutti complici, tutti vittime di un sistema ignorante, maschilista, sprezzante, senza rispetto per la vita, senza empatia per il dolore altrui. Nel mezzo secolo che separa lo stupro della ragazza dal suo suicidio i tre, Eugenia, Palmiro e Luigi, vivono sospesi in un limbo “non-vivendo”, in attesa che arrivi una forza esterna a proteggerli dal passato, che li ripari dall'irreparabile, li perdoni dall'imperdonabile, li salvi dall'irrimediabile. Ma i giorni passano, _DSC5874.jpgcosì come gli anni e il buco nero di paura monta dentro di loro costringendoli ad una non-esistenza fatta di tempo timoroso, un tarlo che li mangia dentro, un martello pneumatico che lentamente, come goccia cinese, ha scavato al loro interno gallerie di sofferenze e tormenti. Nessuno dei tre si è ripreso, per motivi diversi, dal trauma di quel giorno, da quel momento che ha cambiato, tranciato, trasformato per sempre i loro destini, che ha cancellato il prima e ha reso il dopo un fitto di nebbia e insoddisfazione.

Questo “Eugenia” (che andrebbe assolutamente fatto vedere alle scuole superiori) è la prima felice produzione del progetto “Teatro dell'Inclusione” di Massimo Verdastro al Teatro Luca Ronconi di Gubbio che consiste anche in una serie di incontri pedagogici sulle discipline della scena con grandi maestri del teatro.

Tommaso Chimenti 02/12/21

CATANZARO – Per entrare a Catanzaro si passa sopra il Ponte Morandi. Un altro. I ricordi recenti genovesi non portano niente di buono, soprattutto dopo che sono state intercettate delle conversazioni telefoniche dalle quali si evinceva che i materiali per la sua costruzione non fossero stati così ottimali. A Catanzaro tira forte sempre il vento (per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento). Una città di ascensori e funicolari. Dal belvedere, dove una scultura di un profilo stilizzato di donna appena accennato sembra tagliare le nuvole, in lontananza appare il mare coperto da decine di pale eoliche PHOTO-2021-11-28-13-15-13 (2).jpgche hanno imbruttito il panorama con il loro vorticoso ruotare perenne. Girano girano, bianche, in fondo, sulle colline verdi. Città delle tre V, San Vitaliano, il velluto e appunto il vento: “Trovare un vero amico è così raro come un dì senza vento a Catanzaro”, saggezza popolare. Storica ed eterna la diatriba con Reggio Calabria per spartirsi il capoluogo di regione. Alla fine del corso principale, accanto all'ex carcere, sui tanti alti pannelli di vetro che proteggono la struttura dalla furia di Eolo, sono state disegnate delle sagome nere di uomini di profilo che sembrano guardare la vallata: di gran lunga la cosa, artistica, più suggestiva della città.

Molti tifosi di calcio ricorderanno il rigore, immancabilmente dubbio, segnato poi da Brady all'ultima giornata in Catanzaro-Juventus del 1982 che dette un altro scudetto tentennante e controverso ai bianconeri stavolta ai danni della Fiorentina di Antognoni. Bianco e ricoperto di finestrelle è la strana struttura del Teatro Politeama che tutto sembra, un'astronave, un ospedale, uffici, una banca, un edificio oriental-sovietico, tranne che un teatro. I simboli della città ionica sono il morzello, piatto tipico con frattaglie, cuore, polmoni, trippa, fegato, stomaco affogato in salsa di pomodoro piccante e Massimo Palanca, attaccante mancino che ha fatto le fortune del Catanzaro tra serie A, B e C con un record del tutto particolare da fare invidia a quelli mediatici di Cristiano Ronaldo: tredici le marcature direttamente da calcio d'angolo.

Altri PHOTO-2021-11-28-13-15-15 (3).jpgrecord, poco invidiabili, però arrivano dalla cronaca nera e giudiziaria: centinaia di delitti, nella maggior parte dei casi senza un colpevole, attribuiti alla 'ndrangheta o a vendette tra famiglie che hanno insanguinato per decenni la vita di interi paesi con morti ammazzati sulle strade in nome dell'onore fioco, dell'orgoglio cieco e della difesa della dignità becera del proprio casato, per rimediare a presunte offese ricevute. Tre le faide salite alla ribalta nazionale dagli anni '90 ad oggi, quella di Taurianova, di San Luca e di Cittanova.

E proprio “giocando” sulla scomposizione lessicale del termine, i Mana Chuma, gruppo che ha radici sia calabresi che siciliane e da sempre è impegnato per un teatro che porti a galla temi e argomenti sociali e civili, hanno sciolto e spezzato la parola di vendetta traslitterandola in PHOTO-2021-11-28-13-15-16 (2).jpgquesto “F-Aida” dove dentro, come eros e thanatos, convivono l'odio e il sangue della faida ma anche la bellezza, l'arte e la dolcezza di Aida, come cultura operistica e come nome al femminile. Un'eccezionale e mirabile struttura imponente dell'artista Aldo Zucco riempie ed anima la scena con una vergine, madre e Madonna (ci ha ricordato la serie “Il Miracolo”), sulla sinistra, una mummia al centro (ci ha ricordato quelle del Convento dei Cappuccini di Palermo) su un tavolo operatorio da autopsia, quella del padre, e dietro una struttura-fondale-Titanic che sembra realizzata con pezzi di imbarcazioni andate a fondo nel Mediterraneo (ci è tornata alla mente la scenografia della piece “Kate i Rades” di Francesco Niccolini sulla nave albanese affondata nell'Adriatico dopo una collisione con la Marina Militare Italiana), parti in legno scolorite dal salmastro, colate a picco senza salvezza, senza respiro. Questa fortezza di cartapesta è anche, metaforicamente, l'ammasso di sovrastrutture all'interno della logica mafiosa dell'occhio per occhio, delle usanze triviali e tribali e rurali della giustizia pret a porter, fai da te: sembra le case di fango yemenite con le finestrelle come bocche della verità o feritoie di palazzi medievali arroccati ad antiche tradizioni barbare, aperture come erose dai topi che ci hanno portato alla memoria le torri di Kiefer (o i sette Palazzi Celesti) esposte permanentemente al Pirelli Hangar Bicocca a Milano. Sembra di stare dentro la pellicola “Anime nere” di Francesco Munzi. Una Calabria in bianco e nero chiazzata di sangue a pois, schizzata di plasma e 'nduja.

Il racconto di Massimo Barilla, condiviso come la regia con Salvatore Arena, è onomatopeico e poetico e allo stesso tempo intriso di quella pasta e materia talmente concreta da ferire, da far male all'ascolto, parole che suscitano ed esprimono una violenza ancestrale contro la quale sembra non esserci PHOTO-2021-11-28-13-15-18 (2).jpgrimedio né riscatto né argine né salvagente né purificazione né redenzione. Un mondo corrotto e putrefatto, aggrovigliato su se stesso, che alimenta i suoi figli per farne carne da macello, nuove mattanze per lordare le strade, i vicoli, i marciapiedi per colorare quel mondo antico e buio di nuovo dolore. Arena, solo in scena, incarna in sé, con la consueta forza espressiva e generosità (sua cifra stilistica), una potenza che sembra farsi carico di ogni parola, di ogni sospensione, un'interpretazione partecipata e vissuta centimetro dopo centimetro, respiro dopo respiro sulla pelle, un incedere concitato, un intercalare caracollante, pastoso come ematocrito. Arena non si risparmia, è cuore, è pancia, è fegato, è stomaco.

Il pretesto di questa faida è un agnello nato dal montone di una famiglia e dalla pecora della rivale: i Malapaglia e i Cacciacarta che si appicPHOTO-2021-11-28-13-15-16.jpgciano immediatamente. Come Montecchi e Capuleti. Occhio per occhio e il mondo diventa cieco, sosteneva Gandhi. Pecora, montone e agnello, animali sacrificali come i giovani, gli uomini e i componenti delle due famiglie che si annientano come bestie cadendo come birilli. In questa guerra di rancore rancido che insozza le vite del paese esiste, in tanta sofferenza, uno spiraglio, non tanto di affrancamento ma almeno di intelligenza e lungimiranza nel voler fermare questo stillicidio di corpi: altri agnelli da sgozzare, stavolta con fattezze umane, Rocco (forse proviene dal Fidelio?) e Alfredo (dalla Traviata?), decidono, come Romeo e Romeo, di interrompere questa carneficina. E' una sottotraccia della narrazione, storia nella storia, un fiore deandreianamente nato da tanto letame. Una sorta di perdono (sostantivo). Dove perdono (verbo) tutti. Rocco che, dopo essere stato rinchiuso come un animale in gabbia dal padre in una gattabuia per anni, si trasforma in Aida, che è bellezza e canto e struggimento (musiche di Luigi Polimeni) e l'elemento machista si scioglie e i sentimenti cancerogeni si sfaldano e i nodi maschilisti cedono inesorabilmente: “E' questo l'amore? Questo male che ci avvelena, questa corda che ci stringe”. Tutto lo spettacolo è una lunga confessione rabbiosa sul cadavere del padre, fonte di odio e distruzione. Un teatro di morsi, di denti da strappare, di carne da macellare, un teatro che sanguina, un teatro di fango e lacrime. Se ne esce tagliati e increduli, feriti e consapevoli.

Tommaso Chimenti 30/11/2021

 

Foto: Marco Costantino

CATANIA – Ci sono più linee bisettrici per poter affrontare la disamina del nuovo testo di Rosario Palazzolo. C'è il teatro nel teatro, immancabile nelle sue commedie tragiche, c'è l'en travestì cifra consolidata alla quale fornisce sempre nuove sfumature di senso, c'è il disvelamento, il ribaltamento del fake e della realtà, questa verità che si comprime, si nasconde per poi uscire ancora più esplosiva e detonante nella sua desolazione straziante. E poi i continui giochi e rimandi, chiamiamoli scatole cinesi, matrioske a celarsi: “Eppideis” (prod. Teatro Stabile di Catania; andato in scena nel nuovo Teatro Futura che presenta un cartellone di tutto rispetto con sedici interessanti titoli scelti dalla direzione avveduta di Laura Sicignano) che richiama alla memoria i “Giorni felici”, eppideis-2.jpgovviamente il riferimento è a Beckett, ma anche, semplicemente seguendo il suo filo più diretto e commercial, si rifà, almeno nel telaio e nella struttura di contenimento, a quell'“Happy Days”, serie tv U.S.A., che ha forgiato generazioni, che ha instillato una certa idea d'America, che ci ha insegnato le moto, l'amicizia, i baci, i cazzotti al juke box, la felicità. La felicità e la sua ricerca infatti stanno proprio al centro (è il perno che muove la ricerca palazzoliana) di questo progetto che vede come esecutore sentimentale un Silvio Laviano in stato di grazia, attento al carteggio sottinteso, ai non detto presenti nella drammaturgia, a tutte quelle evanescenze e tonalità che amplificano e comprimono il caleidoscopio di colori che si affacciano dentro questo dramma travestito di psichedeliche visioni leggere e fugaci, come ridere nel pianto, come le cadute nelle Comiche, come gli incidenti sottolineati dalla risate finte sghignazzanti di un pubblico virtuale che in audio spalanca le fauci, digrigna i denti e si fa beffe delle disgrazie altrui per non pensare alle proprie. E' un testo cangiante come velluto questo “Eppideis” che quando pensi di averlo capito o inquadrato ha una virata, un colpo di coda e, come toro meccanico, ti disarciona dalle considerazioni che davi per certe.

In una stanza eppideis-3.jpgattrezzata che sembra un set da fiction e dalle cromature sparate il nostro personaggio ci aspetta in scena, perché la scena, il teatro, vive prima di noi spettatori, prima che si apra il sipario, che infatti non c'è, oltre la platea che, forse, non esiste neanche. Questo è un dramma della solitudine e tutto quello che accade là sopra è avvenuto, semmai, soltanto dentro la sua testa, ed anche il pubblico non è altro che un sogno, una proiezione di questo desiderio: lasciare i panni di uomo infelice di mezza età per rinascere come Joanie, la ragazzina figlia dei Cunningham, a Milwaukee negli anni '50. Quindi cambiare genere, cambiare età, Stato, era temporale. Annientare la figura che ti si para tutti i giorni davanti allo specchio, ripulire quell'immagine che non ti rappresenta, azzerare quel volto sgraziato, sgranato e ricostruirsene un altro più vicino a quello che avresti sempre voluto avere. E' in atto una trasformazione e, spesso, per mutare si ha bisogno di cancellare, happy-days-q.jpgdi far morire una parte o tutto l'insieme che non ci appartiene, non ci soddisfa, ci affossa, ci squilibra, ci distrorce.

E poi c'è tutta la lingua di Palazzolo che in bocca ai suoi personaggi feticcio, e attori, si fa carne sgrammaticata, pratica tattile, un concentrato di onomatopeicità e fallacità lessicali che crea un tappeto originale dove si riconosce, chiaro, il disagio fatto parola, il degrado fattosi lettera, l'analfabetismo, culturale e affettivo, che si fa sintassi. E tutto è storpiato, tutto è traslato, come se visto con un obbiettivo opacizzante e nella scrittura, nella lettura del testo diventa ancora più effervescente e stimolante: Joanie è Gioni, Ricky è Ruicchi, Cindy è Sindi. Ma anche le perifrasi sono morse e smozzicate proprio perché è stata la televisione a insegnare al pubblico quella grammatica del desiderio: “sono mozionata” o “mi timidite”. Si mescolano immaginazione e una ingenuità colma di tenerezza che ci fa stringere attorno a questa figura che da omaccione, bicipiti e baffi, ha messo vestiti a fiori smanicati e parrucca, e racconta e suda, ci spiega e introduce. Come non vedere in Laviano, eppideis-4.jpgche ha tempra e carattere per dialogare costantemente con la platea scendendo tra le poltrone, testa alta e occhi negli occhi, Mrs Doubtfire, il Freddy Mercury nel videoclip di “I want to break free” o, spingendosi ben oltre, la Valentina di Crepax fino a toccare, sacrilegio, la Natalie Portman di “Closer”.

E' una bambola interrotta, rimane, nella prima come nell'ultima scena, come Pinocchio, ciocco spezzato a gambe aperte quando gli hanno tagliato i fili del burattinaio, il deus ex machina, l'autore che lo ha portato in vita dentro questa sitcom che si accende per poi togliergli la spina, si infiamma per poi scoprire la vacuità, la falsità, il trucco di fondo da smascherare. Se la vita è un inganno forse la verità sta solo nel teatro, nelle sue allucinate visioni, realtà parallela con meno dolori.

E se tutti noi fossimo sogni che qualcuno sogna, pensieri che qualcuno pensa” argomentava Fernando Pessoa. “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d'un sogno è raccolta la nostra breve vita” gli rispondeva William Shakespeare.

Tommaso Chimenti 16/11/2021

 

FIRENZE - “La costruzione di un amore spezza le vene delle mani mescola il sangue col sudore se te ne rimane, la costruzione di un amore non ripaga del dolore è come un altare di sabbia in riva al mare”, lo diceva bene Ivano Fossati. “Amore” che parola abusata talvolta, termine del quale abbiamo sempre un po' paura a mettere sul piatto, a elargirlo, a condividerlo, a comunicarlo. Amore che è visione personale e oggetto universale che ci muove, del quale abbiamo necessariamente bisogno. Un bisogno che può diventare anche dipendenza, vicinanza, paura della solitudine, ricerca dell'altro per scacciare i demoni della propria esistenza. L'amore che ci accompagna talvolta anche fino alla tomba e oltre. Come nel caso di questo lavoro del duo Scimone e Sframeli (visto al Teatro Niccolini di Firenze), AMORE-SCIMONE-SFRAMELI.jpgopera sentimentale, sensibile, toccante, che si scioglie lentamente come sciroppo. Due coppie stanno su due tombe in una sorta di parentesi post-mortem, sembrano quasi risvegliarsi nella notte per rievocare tormenti e pesantezze, per riportare alla memoria, fallace, zoppicante, teneramente mendace, momenti di vita vissuta, fallimenti e cadute ma anche sorrisi e abbracci ma soprattutto quello che non è stato, colpevolmente, e per porvi rimedio, mettere un cerotto alle ferite, spargere un balsamo sui traumi. Le parole d'ordine sono combattere la paura di amarsi e la vergogna di amarsi. Paura e vergogna che ci limitano, ci intrappolano, ci ingabbiano, come è successo a questi quattro anziani che adesso dormono sui loro sarcofagi, sul duro e freddo marmo, cercando pacificazione e serenità, riassumendo incontri e attimi già fuggiti via.

L'atmosfera cimiteriale ci ha ricordato “Totò e Vicè” di Franco Scaldati portato in scena da Vetrano e Randisi. A fare da fondale quattro disegni di cipressi alti (la scena è di Lino Fiorito), solidi fusti, imponenti, ingombranti che però, a guardare bene, potrebbero essere anche quattro figure antropomorfe di beghine, bigotte con gambe magre e scialle nero luttuoso a coprirne il corpo e la testa in segno di penitenza e punizione; donne pie, di quelle Foto Amore 6 ok.jpgstereotipate del nostro Sud con il rosario a snocciolarlo sempre tra le mani ossute e lo sguardo giudicante verso ogni forma di diversità, ottuse e acide, cattive nella loro spiccia provincialità. E qui ci viene in soccorso De Andrè: “Ma le comari d'un paesino non brillano certo in iniziativa, le contromisure fino a quel punto si limitavano all'invettiva. Si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio, si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio”. Già, il giudizio sociale che preme, che ci guarda, ci inquadra, ci inchioda.

Paura e vergogna, appunto, i due cardini che hanno recintato l'amore delle due coppie, una formata da marito e moglie (Giulia Weber e Spiro Scimone), l'altra da due uomini (Francesco Sframeli e Gianluca Cesale), colleghi pompieri. Pompieri che arrivano e arrivavano sempre a spegnere i momenti più passionali della coppia,Foto-Amore-AR-7_web.jpg come a raffreddare i bollenti spiriti, a riportare il tutto ad atteggiamenti più accettabili, meno criticabili, più sobri, immettendo, giustappunto, paura del farsi vedere e vergogna dell'essere scoperti, sorpresi a toccarsi, annusarsi, abbracciarsi. Hanno pannoloni e dentiere, il meglio della loro vita se n'è andato e adesso non rimane che il ricordo che diventa un'analisi di quello che è stato, come un sogno per meglio affrontare l'eternità che li attende dopo questo sonno: “Tra poco dobbiamo andare”, si dicono; li attende l'oblio.

Non mancano i momenti ironici (i pompieri fanno il loro ingresso su un carrello della spesa attrezzato con luci e allarmi, sembrano i Ghostbusters, ci hanno ricordato un vecchio spettacolo dei Ricci/Forte) come quelli commoventi tra piccole gelosie e leggere forme di controllo, sofferenze, allontanamenti, incomprensioni, tenerezze, carezze. Sono un sospiro, un alito, un rivolo di vento in una notte fredda al riparo degli alberi, qui, un po' nascosti, lontano da occhi indiscreti possono finalmente amarsi come avrebbero voluto, liberi. Non è mai tardi per amarsi. Anche quando appare la scritta game over possono arrivare i tempi supplementari per dirsi quello che è rimasto bloccato, le parole rapprese, i “groppi d'amore nella scuraglia” come li chiamava Tiziano Scarpa.

Tommaso Chimenti 06/11/2021

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