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CASTROVILLARI – Primavera dei Teatri rimane primavera anche se siamo ad inizio autunno. Per varie vicissitudini, lo scorso anno lo storico festival della Calabria del Nord, PdT è saltato e quest'anno è slittato da fine settembre fino alla prima settimana di ottobre ma questo non ha influito sulla ricerca dei nuovi linguaggi nella nuova drammaturgia non soltanto di casa nostra. La rassegna, diretta da Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano, quest'anno ha raddoppiato gli sforzi con un prologo a Catanzaro con diverse proposte internazionali. A Castrovillari, dove tutto è nato e dove tutto ritorna, abbiamo potuto seguire otto tra spettacoli e performance. Castrovillari sembra sempre la stessa, sembra sonnecchi con il Pollino sopra con la sua croce e le nuvole grigie a fare da cappello, le strade sempre con gli stessi disegni e graffiti che nessuno copre e nessuno migliora e nemmeno nessuno che ne propone di nuovi. Tutto è fermo anche se il fermento c'è, si sente, si percepisce, basti guardare i tanti giovani che affollano i luoghi del festival, il Teatro Vittoria e il Sybaris nel Protoconvento dove i ragazzi pullulano. Non cambia nemmeno l'immancabile Osteria della Torre Infame, che piace proprio perché rimane fedele a se stessa nei decenni: con il proprietario Nicola neo presidente del Castrovillari Calcio in Serie D e gli spaghetti al fuoco di Bacco, cotti nel vino e piccanti, che sono un must irrinunciabile e da soli valgono il viaggio (come non ricordare il caposala Pasquale). Oltre agli spettacoli ci sono stati i commossi ricordi di Maria Grazia Gregori e di Renato Palazzi, due grandi critici teatrali milanesi che ci hanno lasciato nell'ultimo anno. E c'è stata anche la presentazione del volume scritto da Gigi Giacobbe, altra firma prestigiosa stavolta messinese, su Bob Wilson. Come ogni anno ci attira molto la locandina che stavolta propone un uomo gonfiabile, una sorte di omino della Michelin, tutto avvolto dentro il cellophane, quello da scoppiare, quello per salvare gli oggetti fragili. Siamo teneri, siamo delicati e allo stesso tempo vogliamo stare sotto una campana di vetro per non romperci anche se, vicino a noi, come nostro compagno di viaggio esistenziale, c'è un cactus che, anche se piccolo, potrebbe farci esplodere, potrebbe far scoppiare la nostra scorza, il nostro scudo e armatura.Giancarlo Cauteruccio.jpg

Quello che abbiamo notato, nella maggior parte delle proposte, è stata una solida riflessione sul tema figli-genitori e spesso figli-padre. Chissà, forse parlare troppo delle madri e troppo di Genitore 1 e Genitore 2 ha scaturito un'ondata dissonante. Forse i padri mancano oppure non sono più le figure dei No decisi oppure c'è troppa confusione tra i ruoli. Ma la sostanza sono gli spettacoli, dai quali abbiamo attinto, ai quali ci siamo abbeverati di nuove riflessioni e spunti. Come “La Divina Calabria” di Giancarlo Cauteruccio che non smette di stupirci: idea geniale quella di prendere un locale sfitto sulla via principale, accanto ad un bar dai tavolini affollati e un kebab dagli odori e suoni e lingua araba. Tra caffè e carne bruciacchiata messa dentro pane e stagnola ecco che si apre l'antro della Sibilla Cauteruccio che, sull'immancabile carrozzella beckettiana, feticcio e firma, ha aperto il suo temporary shop dove all'interno un cantore, lo stesso Maestro cosentino-fiorentino in dark, due coriste-vocalist-cantanti in nero e sullo sfondo un performer in un'azione che ricordava il riscaldamento pre-nuoto, lo stretching, la ginnastica per cercare di non affogare nello Stige dei nostri peccati. L'eco rimbombava tra le pareti bianche, immersi nelle luci rosse rotanti di sirene, con questa acre Divina Commedia (canti scelti dall'Inferno, 1, 3, Purgatorio, 1, 2, 5, e Paradiso, 1, 10, 33) tradotta in lingua calabrese che pizzica e morde. Il Maestro si contorce sulla sedia a rotelle, con gli occhiali scuri da sole (non vedente tra Tiresia e Finale di Partita), mentre luci d'allarme come piccoli fari girano su se stesse creando un fremito uditivo e visivo e sonoro. Bianco delle mura, neri gli abiti, rosse le luci per un'immersione totale, da ascoltare anche senza capire. Si percepiscono la musicalità e le assonanze, i suoni e le armonie fragorose. A volte sono solo sospiri e respiri, gemiti, altri sono grida e urla. Siamo dentro una grotta moderna mentre fuori le chiacchiere sono attutite dalla musica, le auto continuano a strombazzare, il mondo è lontano. Un Dante in carrozzina in questo rito per poche persone alla volta. Se Cauteruccio è bloccato, il performer, lo snodabile Massimo Bevilacqua, sullo sfondo è in continuo movimento, i canti, delle brave Anna Giusi Lufrano e Laura Marchianò, addolciscono e sottolineano questa potente esibizione.

L'incastro tra il drammaturgo Mariano Dammacco (e la sua attrice di riferimento e sodale Serena Balivo) e il performer a tutto tondo Roberto Latini non è riuscito alla perfezione in questo “Danzando con il mostro” (prod. ERT - Lombardi-Tiezzi) rarefatto affresco giocato più sulle epifanie e sulle apparenze che su una precisa corposa sostanza. Due personaggi in scena, che non capiamo, tra dialoghi surreali (il pubblico ride, e molto purtroppo, sulla reiterata parola “Cog-lioni”, detta proprio così, staccata e con questa scansione) che più che dipingere un habitat metaforico creano una confusione di immagini, sovrapposizioni, spaesamenti, nebbie, fraintendimenti. Dopo poco non si riescono più a cogliere i confini dei personaggi, scivoliamo, cadiamo, chi sono questi due? cosa fanno? perdendoci dentro dialoghi sospesi tra una Balivo-Franca Valeri e un Latini-Petrolini in un incedere che non NITROPOLAROID.jpegtrova un felice sbocco fluido. Diciamo criptico.

Un tempo c'è stato Antropolaroid che tanta fortuna ha portato a Tindaro Granata. Adesso arriva questo “Nitropolaroid” dei Crack24, scatto impressivo di una famiglia esplosiva. Parte benissimo questo scritto, in parte autobiografico, dell'autore Riccardo Lai. Un racconto fortemente tratteggiato dalla calata sarda, un autodramma per dirla con le parole che Strehler usò per definire il Teatro Povero di Monticchiello. A grandi intuizioni seguono acerbità e ingenuità. Lai, protagonista in scena (somiglia a Nicholas Cage), dà subito una bella carica alla platea, tra il sardo e un italiano sardizzato raccontando, da dentro, la sarditudine, la distanza, geografica e culturale, dell'isola, il mirabolante Continente da temere e da affrontare. Seguono scene e quadri, surreali e grotteschi, parodistici, e fin quando si rimane su questa falsa riga il tutto risulta fruibile e godibile. Poi sembra che gli sia sfuggito di mano qualcosa perché cambia bruscamente il clima che si fa cupo e tenebroso tra streghe e omicidi: un altro spettacolo proprio. Nella prima parte (dove la platea era tutta con loro), che ha il sapore di un Far West simpatico, con risvolti sociali e antropologici ma sempre sul difficile terreno ed equilibrio sottile di un'autoironia pungente, si ha la sensazione di una leggerezza intelligente ma allo stesso tempo siamo rapiti dalle sorti di questa famiglia rurale e da questo figlio che vuole seguire orme e sogni differenti. Qualcuno potrà dire generazionale, sì, è vero, però fatto bene. Alcune scene troppo allungate e annacquate, le streghe nel bosco ad esempio, anche se l'impianto a metà tra “Nozze di sangue” di Garcia Lorca e “Macbettu” di Alessandro Serra, sembra funzionare, tra il I Macbeth.jpgmistico e il mitologico, il sogno e la leggenda. Il ritratto del padre o dello zio (parla come un mix tra Maria Amelia Monti e Gianni Brera) sono folcloristici e curiosi, così come la scena delle tre suore (molto Marta Cuscunà). Poi, inspiegabilmente e senza alcuna ragione e spiegazione, si entra su un terreno drammatico pesantissimo che sconfessa tutto il precedentemente espresso: un Cristo in croce fino, appunto, ad una morte violenta che ci coglie impreparati ed è fuori luogo. A tratti la voglia di gag gli ha preso la mano: less is more. Dopo il crack, il punto di rottura segna anche un punto di non ritorno e “Nitro” diventa tutt'altro spettacolo che, improvvisamente, non funziona più. Purtroppo.

Dopo “Riccardo 3” arriva la seconda parte della trilogia shakesperiana frutto dell'incastro tra Vetrano/Randisi e Francesco Niccolini: “I Macbeth”, prod. Arca Azzurra (seguirà Amleto). L'impianto è quello di R3, una struttura di contenimento coercitivo, un carcere manicomiale di loculi e catene dove sono rinchiusi i personaggi delle tragedie del Bardo o persone che si sono così tanto immedesimate da credersi loro e sentirsi tali. Hanno tic e sentono fantasmi dentro le loro teste, dentro le loro orecchie che ritornano e non li lasciano in pace e i loro dialoghi arrivano direttamente dalla letteratura inglese seicentesca con innesti di quella cultura contemporanea voyeuristica televisiva che ben si presta alle vicende di cronaca nera del Belpaese. Così al Macbeth vengono aggiunti Olindo e Rosa e il caso Varani e tutto prende senso e “questa notte atroce e insanguinata” la sentiamo più vicina, più nostra, più tangibile, meno lontana, meno impossibile. I tratti sono cupi, barbari. Ancora manca qualcosa oppure questo secondo step troppo ricalca il primo passaggio da assimilarli.

Tommaso Chimenti 06/10/2022

MILANO – Sono i due interpreti che più hanno impressionato positivamente al Milano Off Fringe Festival per presenza scenica, carica emotiva, padronanza del palcoscenico, per le loro storie toccanti e struggenti, per la consapevolezza fisica e drammaturgica. Stiamo parlando di Sergio Del Prete, attore campano protagonista di “Sconosciuto”, e Pierluigi Bevilacqua che ci ha portato dentro le spire foggiane di “Frichigno!”. Due storie che hanno molto in comune: ovviamente quello che salta agli occhi è questo Sud che è poco madre e molto matrigna, un Sud che corrode lentamente i suoi figli, che toglie la terra da sotto i piedi, che incastra, impantana, ti affoga nel fango, ti lascia nelle sabbie mobili senza fune, impotente, senza forze, prosciugato. Un Sud lontano dalle cartoline dei turisti che d'estate accendono le luci su sole e mare mentre durante l'anno tutti si scordano, o non vogliono vedere, quello che succede nell'immobilismo, nell'omertà, nell'impossibilità di un futuro degno di questo nome.

E da qui nasceSconosciuto.jpgSconosciuto. In attesa di rinascita” di e con Del Prete, attore solido, che fisicamente riempie il piccolo palco di led a creare un recinto luccicante, che abbaglia quel che non puoi fuggire, la tua sorte che ti insegue come la tua ombra e che non puoi lasciare, che non riesci ad abbandonare. In fondo un'apertura a semicerchio quasi cuccia da cane, tenuto alla catena, forno per passare guccinianamente dal camino, o bocca dell'utero, partorito nuovamente con fatica e sudore e sangue. Come sottolinea il titolo questa è, dovrebbe essere, una rinascita, nuovamente risputato, e rispuntato, alla vita. Ed è un incedere di violente parole d'angoscia e attimi dove la parola d'ordine è “paura”, paura di perdersi, paura di non sapere chi siamo, paura di andare come paura di restare, sempre sospeso, traballante, claudicante tra mille forse, zoppicante tra vorrei irrealizzabili e creduti lontani e impossibili da raggiungere.

In questo clima, in questa periferia, in questo grigiore che dai palazzi arriva a macchiare e lordare anche le pareti dell'anima, la speranza è la prima ad arretrare, a scomparire, a chinare la testa di fronte a quel mondo fisso, eterno, che pare statuario, nell'impossibilità di cambiarlo, nell'impossibilità di felicità, nell'impossibilità di realizzarsi come persona, come individuo, cercando qualcosa in più del sopravvivere e dell'arrivare a domani. Una Napoli lontana anni luce da pizza e sole, da Vesuvio e Maradona, forse più vicina ai fondali naturali di Gomorra o a quelle Vele che non volano. Quello che ci dice Del Prete (ha il phisique du role di Raiz degli Almamegretta), investendoci con le sue parole di battaglia, è un mondo purtroppo già visto e sentito, ma l'attore ci mette forza e convinzione, rabbia e lacrime, una sorta di miserere e buoni propositi che si incagliano negli spigoli oggettivi della realtà sempre Sconosciuto. in attesa di rinascita.jpgpiù acida e fastidiosamente appuntita, scarnificante. C'è poesia e risentimento, rassegnazione e abbattimento, e ogni volta che vede un piccolo barlume nella sua progressione drammaturgica subito rincula verso un abisso consuetudinario a macerarsi nel solito porcile che sterilizza i sogni, che toglie le energie necessarie per poter pensare di cambiare le cose. Le key board sono il non sentirsi adeguati a nessuna situazione, il non ritenersi degni e adatti, la bassa autostima, il vivere con il freno a mano tirato in un continuo vorrei ma non posso logorante, stancante, sfibrante, ammorbante, deludente pieno di solitudine, di desideri ammosciati, di luci fioche, di zero soddisfazioni, con il domani uguale a ieri, con l'oggi in loop impercettibilmente peggiore di ieri. E i debiti e le mancanze e un intorno che propone orizzonti di rifiuti e televisori accesi sul nulla colorato che trabocca manesco e urlante dai vari canali starnazzanti, i silenzi di schiamazzi vuoti che fanno male, “terra bugiarda, terra di veleno, terra in cui l'amore non basta”. “Come fai a riconoscere la bellezza se cresci in mezzo ai palazzi abusivi?”. E' il ghetto che ti mangia, è la distanza che ti tiene lontano, che ti emargina, è l'assenza di abbracci, è quella mano allungata che non riesce mai a toccare l'oggetto del desiderio che diventa sempre più piccolo inasprendoti, inacidendoti, incattivendoti, spezzandoti dentro. Sergio Del Prete, immerso in una bella scrittura pungente, ci racconta queste “nostre vite scassate”, con la furia, tenera e allucinata, di un De Niro in “Taxi Driver”, con decisione, risolutezza e chili di personalità.

Stessa pasta e impronta per “Frichigno!” (Piccola Compagnia Impertinente, testo ricco di Enrico Cibelli): stavolta siamo a Foggia, anni '90, e Pierluigi Bevilacqua (corpulento e corposo, in una parola: di sostanza) dà spazio al suo repertorio che miscela comicità esondante nella prima parte alla quale segue un'amara riflessione acre in quella conclusiva. Illuminante e geniale l'incipit, la molla che tutto fa scattare, l'incastro di due personaggi lontanissimi, uno del grande panorama mondiale, l'altro, anche se ugualmente pubblico, vicino, terreno, tangibile, locale. Come avere un binocolo e poter vedere Seattle e l'intorno a te e poi metterli insieme, sullo stesso terreno comune, nella stessa diapositiva. Miscelare Kurt Cobain, eroe musicale con la sua fine annunciata che aveva distrutto l'era del rock e del pop con il grunge e sovvertito le regole dell'establishment musicale, con Zdenek Zeman, allenatore di Praga, contro i poteri forti, allenatore del Foggia dei Miracoli. Li accomunano gli stessi anni, nel '94 Cobain si spara, la stagione di serie A '93-'94 è l'ultima di Zeman con la squadra pugliese rossonera; e il frontman dei Nirvana e il Boemo vivono dentro, come ribellione, come rivalsa, dentro gli occhi e il petto di un adolescente che trova in queste due “divinità” un appiglio, un antidoto alla solitudine in una città sempre descritta dal Sole 24 Ore come maglia nera d'Italia per mancanza di lavoro, prospettive, qualità scadente di vita, dei servizi, abbandono scolastico, criminalità, fiducia nelle Istituzioni. E Zeman, con la sua squadra tutta votata all'attacco, è come se dicesse a questo ragazzo, e a tutti i foggiani, che finalmente “possiamo pensare in grande”, che “ce la possiamo fare”, che “non siamo sempre gli ultimi”.

La genesi di Frichigno poneFrichigno.jpeg le sue basi con gli americani venuti a liberare lo Stivale dal Nazi-Fascismo: giocando a calcio, quando c'era un fallo il soldato a stelle e strisce gridava “free kick”, ovvero punizione, facile la trasposizione per assonanza in frichigno che, se si vuole, sembra più ricordare un giocatore brasiliano tutto dribbling ubriacanti e colpi di tacco. Se nella prima tranche Bevilacqua è associabile a Checco Zalone (soprattutto quando canta l'inno del Foggia strimpellando, male, le corde di una chitarra), nella seconda si trasformerà in Roberto Saviano. Zeman che porta la fantasia al potere, che è contro il doping e contro il sistema Juventus, uno che non si piega pagandone le conseguenze, uno che non è omertoso, che insegna che, con la fatica e sudore, i risultati si possono ottenere. E Zeman cambia la percezione del mondo per i ragazzi di Foggia di allora, gli dice quello che gli adulti, la scuola e la politica non sono riusciti, o non hanno voluto, dire loro: bisogna lottare, rimboccarsi le maniche, sudare, e dove non si arriva con il talento si può arrivare con la corsa, con la tenacia, allenandosi più degli altri, perché se ti impegni tutto diventa possibile, se rispetti le regole: “Il risultato è casuale, la prestazione no” è l'emblema che se fai le cose per bene prima o poi verrai Pierluigi-Bevilacqua-1068x713.jpgpremiato senza dover scivolare nel vittimismo. Zeman ha ridato una verginità ai foggiani (e al Sud), non li ha fatti più vergognare di ciò che erano, gli ha dato un motivo d'orgoglio, di appartenenza: “Non avevamo più paura”, “Esistiamo anche noi”.

Ed è in questo nuovo clima di giustizia e di voglia di farcela, di rialzare la testa e urlare al mondo “Ci siamo anche noi”, che si interseca l'ultima coraggiosa parte, quella dove Cibelli-Bevilacqua (in una drammaturgia sempre organica e viva) fanno i nomi e i cognomi delle famiglie che da decenni annientano e soffocano Foggia con bombe e strozzinaggio, minacce e pizzo, tangenti e corruzione, attentati e omicidi, rapimenti. Cose che non escono sui giornali, fatti che non arrivano al grande pubblico perché la Puglia è bella, la Puglia sono i trulli e il Salento, ci sono le masserie e i vip, e “lu sule, lu mare, lu ientu”. E' un j'accuse feroce e dritto, senza sconti, senza scorciatoie, con i responsabili chiamati uno per uno, con i tanti, troppi istituzionali “la mafia non esiste”, con il Comune, unico esempio, che non si costituisce parte civile nei processi contro la criminalità organizzata. Il '94 è la fine delle illusioni, l'entrata nel mondo degli adulti, la fine dei giochi, muore Cobain, finisce l'era Zeman e tutto ritorna grigio come prima, sbiadito. E' un urlo per la propria città, per la propria adolescenza che qualcuno si è rubato. A livello italiano dopo Tangentopoli, e l'ondata di proteste e il desiderio di pulizia, arriverà Berlusconi: “La nostalgia è un album da colorare già colorato”. Emozionale, motivazionale.

Tommaso Chimenti 28/09/2022

Foto "Sconosciuto": Guido Mencari

Leggi qui il resconto su Milano Off Fringe Festival: https://www.recensito.net/teatro/milano-off-fringe-festival-resoconto.html 

MILANO – Francesca Vitale, direttrice del Milano Off Fringe Festival assieme a Renato Lombardo, in questi ultimi anni ha viaggiato per il mondo (da Edimburgo a Orlando fino ad Adelaide) per capire, studiare strategie e portare in Italia un modello di fringe che si potesse adattare all'Italia. Nelle ultime stagioni molti ne sono nati, da quello di Roma a quello più organizzato di Torino. In quest'ottica, con il Milano Fringe attivo dal 2016, quest'anno nascerà, sempre diretto dalla stessa organizzazione, anche il Catania Off Fringe nel mese di ottobre. Questa edizione è stata molto più strutturata, composita, dettagliata delle precedenti con ventiquattro diversi spazi dislocati in città, 56 spettacoli diversi (dal 18 settembre al 2 ottobre), un sito ben curato e preciso (milanooff.com), tanti convegni mirati e workshop professionali, due giurie, quella degli esperti del settore e quella dei giovani, e soprattutto grandi premi per i vari vincitori per esportare il proprio lavoro: il premio della “Giuria dei ragazzi” di 1000 euro, il premio “Valore Italia”, il premio “Avignon Le Off”, con ventun giorni di repliche nel famoso fringe francese, il premio “Soho Playhouse” con due settimane di repliche al fringe di NY tutto spesato, il premio “Hollywood Fringe” a Los Angeles, il premio “Barry Church” con partecipazione al “Fringe di Edimburgo”, il premio “Gothenburg Fringe” per partecipare al concorso svedese, il premio “Stockholm Fringe” per esibirsi nella capitale scandinava; e ancora il premio “Palco Off Catania” con repliche al fringe siciliano, il premio “Binario 7” con una data nel teatro monzese, il premio “Teatro Factory 32” con una recita nello spazio milanese, il premio di formazione internazionale “SRSLY”. Un bel quadro, una grande prospettiva di crescita, una spinta di promozione ottimistica per tante giovani compagnie.

Si sa, nei fringe in giro per il mondo, la miglior scelta è buttarsi nel teatro fisico, nel muto, nel gestuale. Questa la scelta del gruppo austriaco Lemour che qui, selezionati dal fringe di Goteborg, Balloon adventures.jpeghanno presentato “Love's left hand” un lavoro che, confusionariamente, ha miscelato danza, circo, comicità in un frullatore che, senza il supporto della musica, onnipresente, decade e si sgonfia inesorabilmente. Una sorta di presentatrice che propone gag ormai abusate e vecchi numeri di cabaret ammicca al pubblica, gioca con il cilindro, tra mosse, mossette, risatine, si mette una barba finta, si atteggia. La drammaturgia è soltanto musicale e nei rari momenti di pausa si sente tutto il gelo del vuoto che si amplifica e si spande dal palco alla platea, il pubblico cade in depressione perché il vuoto cosmico e siderale morde le caviglie. Guardiamo l'orologio ma il tempo, quando ci si diverte, non passa mai. Se voleva far ridere non ci è riuscito. Ma è un lavoro, fatto con la mano sinistra, che ha anche delle pretese: irrompe in scena una coppia che nell'arco di un minuto ha finito la sua parabola esistenziale di incontro, conoscenza, amore e separazione. Non risulta nemmeno infantile perché anche i bambini lo avrebbero trovato banale e sciatto. Non riusciamo a trovare un appiglio, nessuna salvezza arriverà in nostro soccorso. Tocca rimanere fino alla fine per vedere se ci stiamo sbagliando: ecco che imperversano balletti non sense tra la figlia depressa per essersi lasciata dal fidanzato e la madre mentre il compagno resta inspiegabilmente per un buon quarto d'ora sotto il lenzuolo disperato e temiamo che invece non stia soffocando. La madre si veste come il fidanzato (in una sorta di transfert da Psycho al contrario) e il tutto ha un gusto rancido tra il trash e l'incomprensibile. Ma una è la domanda più pressante che ci ronza in testa: perché tutti e tre gli interpreti hanno i calzini bucati? Non lo sapremo mai, come il terzo segreto di Fatima: insvelabile. Il teatro è moribondo, il pubblico allibito, esterrefatto, restiamo increduli tra il soporifero e pesanti silenzi. La recitazione questa sconosciuta. Senza parole era lo spettacolo, senza parole siamo rimasti noi.

Di tutt'altra pasta “Ballon's Adventures” del Collettivo Clown, certamente uno spettacolo per i più piccoli ma che mai scade nella stupidità del gesto, nel facile, nel triviale; invece ha pennellate, poesia, leggerezza, gentilezza, garbo. Già a partire dai costumi dei due interpreti, uno in giallo e l'altro in blu, una chiara presa di posizione cromatica a favore dell'Ucraina. In scena una grande mongolfiera, che muovono con i piedi come fa Fred Flintstones con la sua auto in pietra, e questi due clown goffi e incerti, sbadati e caotici, “sbagliati” come tutti i pagliacci, dalle scarpe grosse e dal cuore altrettanto ampio che si fanno i dispetti ma sono legati da profonda amicizia. Con dei semplici palloncini allungati e cilindrici compiono trasformazioni alchemiche: diventano gabbiani, poi un arco e racchette da tennis, volante di auto e cintura e tergicristalli, ombrello e sterzo di motocicletta, onde del mare e pesci, maschera da sub e pinnai fiori del nuovo mondo.jpg di squalo, bocca e orecchie di coniglio, salsiccia, fiore, ape e cane al guinzaglio (ricorda l'opera di Jeff Koons esposta al Museo Guggenheim di Bilbao), pappagallo sulle spalle dei pirati, fune, elica, spada, fin quando non vengono ingoiati e fagocitati dalle stesse gigantesche palle. Un messaggio anche ambientalista, per insegnare ai più piccoli che niente si crea e niente si distrugge ma tutto si trasforma. E che qualsiasi oggetto può portare felicità e stupore.

Due amici, legati da un doppio filo di dipendenza, sadico e masochista, sicuro e incerto, deciso e titubante, decidono di lasciare il nostro mondo e di imbarcarsi per altre terre forse cercando “I fiori del nuovo mondo” (compagnia Teatro Segreto, testo, interprete, regia e costumi di Ludovico Buldini). Arrivati la sera su una banchina in attesa di questa barca-Godot per salpare per altri lidi ci ricordano i migranti che lasciano tutto per cercare fortuna altrove: ma aspettano una barca a vela e il loro abbigliamento con polo, pantaloni bianchi e scarpe firmate li identifica più con Porto Cervo che con la Libia. La notte una tempesta shakespeariana sta per travolgerli e sommerge tutto tranne quel limbo di asfalto, quella boa di cemento che adesso (come l'abbazia francese di Mont Saint-Michel con la marea) galleggia in mezzo alle onde. Soltanto con una scatola magica-oracolo che contiene delle carte riusciranno a placare i marosi e i flutti confessandosi peccati per troppo tempo celati, mettendo sul piatto recriminazioni e colpe, aprendosi finalmente oltre l'ipocrisia di rapporti consolidati e incancreniti. Tra i due emerge attorialmente, e soprattutto una bella voce profonda, Diego Frisina, il personaggio timido e irrisolto. La storia è buona anche se quando si mischia il reale con il metaforico si rischia sempre di non essere credibili. La mattina dopo, quando è tornato il sereno, e i due protagonisti sono usciti indenni da questo sogno-incubo, riappare la strada e uno dei due prende effettivamente questa barca che arriva veramente a prenderlo; in quel momento il simbolismo decade e noi crediamo un po' meno a tutto l'impianto.

Pezzo generazionale, ma di valore e qualità, è questo “Mi ricordo”, del gruppo siciliano Barbe à Papà, scrittura e regia di Claudio Zappalà, con in scena tre brave protagoniste che tirano fuori dai loro magici cassetti ricordi d'infanzia che mischiano il piccolo particolare personale autobiografico con la grande storia che scorre con noi, attraverso noi, malgrado noi. Ne emerge un quadro per niente consolatorio della generazione under 30 confusa, con i sogni spezzati prima ancora di averli pensati o sperati, alla quale hanno tolto anche le illusioni, il lavoro, la pensione che non ci sarà, una generazione cresciuta in una scuola che non boccia più, in una università triennale a crocette che ti dà il pezzo di carta ma non forma, una generazione di ragazzi in balia di telefonini e falsi miti, like sui social e apparenza su Instagram. Un j'accuse. Tirano fuori i loro diari e appunti (hanno cazzimma da vendere e capacità interpretative Chiara Buzzone, Federica D'Amore e Roberta Giordano), come doni, come conigli da un cilindro delle meraviglie che però porta più lacrime che sorrisi, poesie, scatti di viaggi. Ne esce fuori insicurezza, incertezza sul domani, anzi voglia di vivere soltanto il presente perché il futuro, Mi ricordo - ph Vito Raia 3.jpeganche a breve gittata, fa paura, perché tutto è in rapido cambiamento e non si riesce a prendere le misure e questi ragazzi non hanno antidoti in uno dei Paesi con la più alta disoccupazione giovanile, dove i ragazzi non vanno a votare perché non si sentono rappresentati, dove è facile deprimersi e demoralizzarsi perché non si hanno orizzonti, perché la meritocrazia non è di casa qui, perché i migliori se ne vanno all'estero. Ed escono da questi parallelepipedi medaglie e cd, libri e sciarpe di squadre, polaroid e cravatte, cappelli. Sono giovani e sembrano parlare con una nostalgia canaglia di un mondo lontanissimo e soprattutto che non ritornerà, come se quella felicità non potesse tornare mai più. Si sente sfiducia e rassegnazione e un lasciarsi andare che fa male all'anima. Ma più che altro, la parola che torna più spesso è “paura” di un mondo che non c'è più e di uno che non si riesce né a costruire né tanto meno a vedere né immaginare.

E' complicato quando continuamente ti cambiano le regole sotto al naso e tutto si muove troppo velocemente e tu non sai, anche perché nessuno te lo ha insegnato, come muoverti, in quale direzione andare in questo deserto dove se la cava chi ha le spalle coperte o talenti sopra la media: ma tutti gli altri? Rimangono in quella vaghezza che va ad ingrossare il fiume degli insoddisfatti, dei consumatori compulsivi, degli infelici che si sfogano sulla tastiera. “Quello che oggi sembra imprescindibile domani sarà dimenticato”, “Quello che oggi sembra importante domani ci sembrerà ridicolo”. Senza punti di riferimento, in balia delle onde, in mezzo a cambiamenti che non si sanno fronteggiare, senza scialuppe di salvataggio è normale annaspare, galleggiare a stento se va bene, o perdersi nel vittimismo o peggio ancora nel nichilismo. I ricordi fanno male perché ti portano nel terreno caldo familiare quando tutto era più piccolo e certo, quando le responsabilità erano ovattate, quando tutto era più semplice. Questi ragazzi sembrano siano senza pelle, più soggetti alla sofferenza, senza rimedi né farmaci contro questo mondo globalizzato che ogni giorno sembra sempre più grande tanto da soverchiarli, fagocitarli in un solo boccone, dove tutto è da consumare e in fretta altrimenti si perde, si sciupa, si rompe o qualcuno ce lo ruba: “Sarà così spaventoso il futuro?”, si/ci chiedono. Non possiamo rassicurarli, purtroppo. “Perché a vent'anni è tutto chi lo sa, a vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell'età”, diceva Guccini indossando il suo “Eskimo”. Non viene da condannarli questi ragazzi, verrebbe invece da abbracciarli. Sarebbe bello dire loro “Andrà tutto bene”, ma anche i cartelli sui balconi accanto al basilico si sono sdruciti e sgualciti e scoloriti.

Tommaso Chimenti 26/09/2022

SPOLETO – Gli esperti ci dicono che Don Giovanni e Casanova hanno tratti dissimili, lontani, divergenti. Eppure hanno in comune, a nostro avviso, da una parte la cupezza della disperazione esistenziale che li porta a cercare la carne non come soddisfazione ma come dissoluzione e disfacimento e distruzione, dall'altra la morte che aleggia, quasi la ricerca furiosa e forsennata della stessa, quasi fosse una punizione autoinflitta, una discesa agli inferi attraverso i piaceri smodati, attraverso l'abuso, l'eccesso, la caduta. “Don Giovanni” (3h 30' con intervallo) può essere rappresentato in forma leggera o in una versione più introspettiva, questa del Teatro Lirico Sperimentale spoletino, diretto da Salvatore Percacciolo e per la regia di Henning Brockhaus, tira molto sul lato comico, la prima parte, 02_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpge pesantemente drammatica la seconda, pur sembrando ridondante, troppo sottolineata. Rimane lievemente nel guado, nella non scelta, in un equilibrio equidistante che non soddisfa né l'una né l'altra parte restando imbrigliato in un gioco di colori sgargianti e soprattutto in una scenografia esondante, piena di riferimenti, anche non coerenti, colma di segni e oggetti che hanno spostato l'attenzione sui significati, sulla forma più che sull'analisi profonda di un testo multisfaccettato e composito come appunto il Don Giovanni. Se lo rappresenti soltanto come un donnaiolo irriducibile, un guitto, un bravo, un guappo (forse dovrebbe anche farci simpatia?) che ottiene le virtù delle fanciulle con stratagemmi, furbizie, inganni e violenze, fai un torto alla sua figura e, in maniera maggiore, a tutto il marcio, il sommovimento interiore emotivo psicologico di un personaggio che incontra la Morte, uccidendo caravaggescamente il Commendatore, e portandosi addosso come stigma, il simbolo dell'inferno. Un Don Giovanni che all'inizio entra dentro una tela da pittore, come un Dorian Grey, sfondando la parete ed entrando in un disegno più grande di lui.

Qui, nel primo atto in maniera evidente ma anche nel finale, si cerca più uno sfogo burlesco, burlone e gioviale, si fa leva sul battutistico (ad esempio un Leporello, disegnato con giacca di cuoio alla Fonzie, è raffigurato soltanto come un ruffiano bieco quando in realtà è l'altra faccia della medaglia di Don Giovanni). Si punta molto sul sesso, sugli incontri, sugli amplessi patologici, sul gioco d'accumulazione, anche se sembra che il nostro Cavaliere, rocker irrispettoso, impetuoso, libertino e arrogante, ami più la conquista seriale e sincopata e bulimica che la carnalità vera e propria: come se avendo perso la propria anima volesse cibarsi vampiristicamente di altre aure per riempire questa sua mancanza profonda e vuoto siderale succhiando la vita di vergini per ritrovare la purezza e il candore dissipati e smarriti per sempre. E ci ha lasciato stupiti la decisione di vietare la visione dell'opera mozartiana ai minori di diciotto anni: la parte più scabrosa, ad essere fiscali e ortodossi, era la locandina (scena non presente sul palco perché è un dipinto di Jack Vetriano) con Don Giovanni in piedi e una fanciulla seduta su una sedia 04_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgdi spalle in una posa da possibile, ma non esplicita, eventuale fellatio. In scena invece nessun momento di nudo, nessun quadro discinto o smaccatamente violento, con i costumi delle ragazze che ricordavano il Moulin Rouge con qualche fondoschiena al vento ma niente che non si trovi in ogni sito internet pubblicizzando lingerie e pizzi vari.

La cosa però più ingombrante e imponente che ha destato in noi più perplessità è stata la scenografia monstre, curata più per colpire nella sua abbondanza e voracità che per l'efficacia e la funzionalità: tra i fondali che si susseguono forse soltanto il primo, con sette donne di schiena (una sorta di ballerine di Degas con in mostra in prima vista i sederi rotondi) e l'ultimo con uno sbaffo di vino (sangue e sesso) possono in qualche modo essere in linea con il titolo, gli altri che si susseguono, astratti, riescono a complicare maggiormente la visione di ulteriori colorazioni e cromatismi. 05_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgIn alto restano sospese decine di sedie (Ionesco?) alle quali non siamo riusciti a trovare un significato soddisfacente. Cadono dall'alto infinite paia di scarpe femminili con tacchi vertiginosi per feticisti, mentre ai lati della scena, un po' nascosti e nel buio, stanno banchetti con tavole imbandite, quasi brechtiane, e candelabri con uomini e manichini nudi di donna come se la scena che stiamo-stanno guardando sia teatro nel teatro all'interno di un locale da spettacoli hot, come le odalische nei palchetti con le bolle di sapone. Addirittura, ad un certo punto, spunta anche un orso polare bianco (sembra quello di uno spot anni '90 della Coca Cola) che, con tutta la buona volontà, non siamo riusciti a collocare né filologicamente né come scelta azzardata e contemporanea. Insomma tanto, molto, troppo, un frullato 06_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgdai tanti gusti aggiunti per somma e forse non per esigenza narrativa o drammaturgica.

Le donne in bianco virgineo, mentre Don Giovanni inguaribile uomo senza onore, mentitore e traditore e bugiardo è in un giubbotto nero da motociclista demoniaco, non hanno libero arbitrio ma si lasciano prendere come burattini senza scelta né consapevolezza per poi, alla fine, cercare di fargli la pelle per punirlo moralisticamente: “Questo è il fin di chi fa mal”. Anche il Commendatore, che torna dal mondo dei defunti per colpirlo con le fiamme degli Inferi, si presenta dalla Platea (tecnica qui spesso usata per non dire abusata) con i led che lo illuminano da sotto la giacca. Più che l'opera incede e più zoppica. Infine sottolineiamo i costumi di Giancarlo Colis e tra il cast spicca Alessia Merepeza nei panni di Donna Elvira.

Tommaso Chimenti 20/09/2022

Foto: Ludovica Gelpi

Venerdì, 16 Settembre 2022 18:52

"Secret life": la scienza deve essere morale?

TORINO – Il dubbio è amletico e senza soluzione: alla scienza e al progresso possono essere applicabili norme morali, comportamenti etici, etichette e patenti di giusto o sbagliato? Oppure l'Uomo può, e deve forse, cercare di studiare come poter superare i propri limiti, applicare intelligenza e strumentazioni per gettare uno sguardo sul domani, sul futuro, creare qualcosa che non esiste, sbirciare verso l'ignoto dello sconosciuto per renderlo, appunto, conosciuto e fruibile? L'uomo è fatto e composto di curiosità, senza queste caratteristiche si inaridisce, muore, si secca come un albero senz'acqua. Al tempo stesso qualcuno ci spiega che gli scienziati dovrebbero studiare e inventare e ingegnarsi solo nelle scoperte “buone” per l'umanità, scoperte pure che portino soltanto benefici. Ma chi è che decide e controlla la 1a3f8f5dc285878f1d75d423cdb0f8ee_XL.jpgbontà di queste innovazioni? Non esistono cose né parole né oggetti buoni o cattivi, esiste solamente il contesto, il come, la loro applicazione nel reale. Se costruisco un'arma, quella stessa non sparerà da sola. Un'arma è un pezzo di ferro che può portare alla morte solo se un umano premerà il grilletto. Quindi il libero arbitrio è il cardine ma l'uomo crede sempre, per assicurarsi un alibi buono per ogni stagione, di essere troppo debole e che davanti ad una pistola sicuramente, prima o poi, sarà portato dagli eventi (non dalla sua coscienza e scelta intima) a schiacciare il grilletto rimandando la responsabilità del proprio gesto all'oggetto invece che sul soggetto (lui stesso) che ha compiuto l'atto.

Il regista Manfredi Rutelli ed i suoi LST Teatro scelgono sempre testi con ampie finestre di riflessione, propongono un teatro che tra le righe, negli anfratti delle pieghe, dentro le parole riesca ogni volta a scardinare crepe, aprire spiragli, non dare verità ma concedere il beneficio del dubbio, socchiudendo parentesi dentro le quali approfondire, ascoltare più campane, instillare punti interrogativi di una dialettica mai fine a se stessa ma che spazi all'interno di un ventaglio di possibilità oltre l'ideologia, oltre il pensiero unico, al di là di indottrinamenti e prese di posizione tanto nette quanto ottuse. LST Teatro Secret Life Vita segreta degli umani .jpegIn questo “Secret Life”, testo dell'inglese David Byrne mai proposto né tradotto in Italia prima di questa versione a cura della compagnia chiancianese (presentato all'interno del composito Earthink Festival, rassegna dedicata ad ambiente e sostenibilità, per la direzione artistica di Serena Bavo, dal 9 al 17 settembre in vari spazi torinesi, dall'Atelier Spazio Fisico allo Spazio Kairos, dallo Spazio Cecchi all'Imbarchino del Parco del Valentino fino all'Off Topic e alla Cascina Filanda) attraverso felici incastri temporali si dialoga proprio sul filo flebile e tremolante della scienza che ha sempre il cannocchiale spostato su ciò che non c'è e la morale che tenta non tanto di comprendere il reale ma piuttosto di normarlo, controllarlo, assoggettarlo a regole politiche. Quindi se da un lato lo scienziato studia il possibile, la morale del presente tenta di tirare le redini, frenare, fermare o soltanto rallentare un processo comunque inevitabile e ineluttabile. Non puoi dire all'uomo di non “aprire quella porta” sul futuro, sarà la prima cosa che tenterà di fare.

Fondamentale, a livello scenico ma anche drammaturgico, è stata la scelta di applicare alla scena dei grandi pannelli che hanno una doppia intelligente resa meccanica: possono infatti essere retroilluminati e proporre un'aura, una parvenza, un'essenza che arriva da un altro tempo sperso nell'Universo, ectoplasmi provenienti da altre dimensioni, defunti che dialogano e interagiscono nella linea del presente, oppure ruotare su se stessi, come porte di un saloon, aprendo sliding doors sconosciute, spalancando nuove idee o soltanto mostrando plausibili verità nascoste o anche, come il titolo ci suggerisce, vite segrete. Possiamo suddividere “Secret Life” in tre trance temporali: il professore Bronowsky, personaggio realmente esistito, scienziato e divulgatore (una sorta di Piero Angela, affabile, preciso, didattico e didascalico e al tempo stesso figura positiva entrata in tutte le case grazie ai documentari BBC con il suo fare amichevole e accogliente, spiegando argomenti complicati con un linguaggio semplice e adatto a tutti), la moglie vissuta per quarant'anni dopo la scomparsa del coniuge, il nipote al giorno d'oggi.TeatroAntropocene_2022_07_13_LucaMatassoni_HD_13.jpg

Bronowsky è Gianni Poliziani, presenza predominante, imponente e importante, voce calda e profonda (ci ha ricordato quella del doppiatore dell'uomo d'affari John Hammond ideatore di Jurassic Park), perno dell'affabulazione sul quale ruota tutta la piece, il nipote invece è Alessandro Waldergan nella sua fisicità dinoccolata gioca il suo lato da Paperino, tra lo scoordinato e l'ingenuo, attirando le simpatie della platea, Francesco Pompilio è una valida spalla, il collaboratore dello scienziato, la professoressa è Enrica Zampetti, veramente convincente, una sorta di presentatrice che introduce prima per poi entrare in scena, sempre lucida in questo dentro e fuori, vero ago della bilancia dei vari posizionamenti sul palco, infine la moglie è Clara Galante, precisa, dà colore e pienezza, oltre che ironia.

Si ride di noi, del genere umano, di quello che eravamo e di quello che siamo diventati, da cacciatori sanguinari ad inventori fino ai giorni nostri dove al massimo (non) riusciamo ad aprire una scatoletta o siamo imbambolati tutto il giorno davanti a video di gattini. Anche la decelerazione è un'accelerazione, negativa ma pur sempre un'accelerazione, come a dire che l'evoluzione può avere anche momenti dove sembra che non si stia andando avanti mentre qualcuno sta comunque lavorando per proporre sistemi alternativi, non sempre migliorativi dello status quo ma pur sempre tentando (spesso, forse sempre, per fini commerciali e non per il benessere dell'uomo o del Pianeta, sia chiaro) di cercare altre vie, nuove strade per affrontare il domani nebuloso, a tratti confondendolo ancora di più.

TeatroAntropocene_2022_07_13_LucaMatassoni_HD_26.jpgI pannelli in trasparenza, quasi dissolvenza cinematografica, creano un gap sia temporale che spettrale sia nel differenziare i personaggi in vita, davanti, rispetto a quelli che parlano dal loro passato. Brunowsky era un uomo irreprensibile, onesto, benvoluto e stimato da tutti, collaboratori e telespettatori (un nostro Enzo Tortora, per intenderci) mentre lo scandagliare dentro le sue stanze segrete, portando alla luce i suoi studi sulla bomba potenzialmente devastante per l'Umanità, potrebbero distruggerne l'immagine. Un testo che ci parla di sociologia e antropologia ma anche di quanto siamo disposti a scommettere sul futuro dell'Uomo, di quanta fiducia abbiamo in lui e nelle istituzioni che ci governano e sull'annosa questione del “chi controTeatroAntropocene_2022_07_13_LucaMatassoni_HD_27.jpglla i controllori”. Una drammaturgia che ci porta dentro gli studi sull'umanità e sulla nostra evoluzione, che procede a strappi e ad elastico, “il progresso corre che noi umani si sia pronti o meno”. Ma se si ha paura del futuro e dei suoi inevitabili cambiamenti allora vivremo nel terrore, impantanati nel fango dell'immobilismo, stretti e costretti dentro comfort zone sempre più asettiche e senza ossigeno. Se consideriamo anche la guerra come un frutto dell'ingegno umano (anche Leonardo da Vinci la studiava per rendere possibile la vittoria per i propri committenti) allora anche gli studi di Einstein o Enrico Fermi sulla bomba atomica (in questo ci ha ricordato la piece “Copenhagen” di Michael Frayn) devono essere visti e considerati in quest'ottica. Anche perché l'evoluzione dell'Uomo è andata di pari passo con distruzioni e guerre, l'annientamento dei nemici, l'estinzione di popoli (la storia la scrivono i vincitori) ed “essere umani vuol dire essere dannosi, distruttori e fare di tutto per sopravvivere”, anche attaccare altre nazioni: “Ad Auschwitz e Nagasaki non è stato il gas, sono stati i matematici”. Poi arriva la stilettata finale, vera e preoccupante, più realistica che pessimistica: “Andremo avanti fin quando non arriverà qualcosa che ci farà fermare come specie”. Un testo necessario (ben recitato, il che non guasta) sul nostro passato e sul nostro futuro. Sul presente invece siamo troppo invischiati e coinvolti per poterne fare un affresco super partes.

Tommaso Chimenti 16/09/2022

Foto: Luca Matassoni

 

SANTA MARIA A MONTE – Tutti noi pensiamo di conoscere bene la figura di Garibaldi. L'eroe dei Due mondi, Anita, i Mille, l'Obbedisco, le mille targhe viste in ogni città dove sta scritto “Qui ha dormito”. Eppure c'è molto da dire, da tirare fuori dalle pastoie del tempo, da quello che superficialmente crediamo o abbiamo letto di sfuggita senza approfondire. Nozionismo da cruciverba più che altro, al quale la presenza di Andrea Kaemmerle (che il phisique du role per interpretarlo a dir la verità ce lo ha sempre avuto) e la penna fine di Manfredi Rutelli hanno deciso di porvi finalmente rimedio in equilibrio tra la loro inconfondibile ironia, sagacia senza forzature, e una storiografia documentaristica, mai pedante ma preziosa e precisa, delineando un personaggio tout court che non può essere definito se non compreso nella sua interezza, senza limiti, soprattutto in relazione ai tempi in cui ha vissuto. Una vita eccezionale, fuori dagli schemi, per forza leggendaria, sopra le righe, eccentrica, altissima, morale. (Un intermezzo fuori dal coro e fuori dal contesto: “Garibaldi” era anche il soprannome che Maria Cassi dava al suo (e nostro) caro cuoco/chef/scrittore Fabio Picchi, ideatore e curatore del Teatro del Sale e del Cibreo di Firenze, da poco scomparso, che ci manca e che non dimenticheremo). E poi vogliamo ricordare la canzoncina (vagamente canzonatoria) ritornello-stornello “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda i bersaglier”, declinando tutte le parole con le cinque vocali per far ridere i bambini?Kaemmerle Garibaldi.jpg

Ecco da qui il sottotitolo, “Garibaldi, su una gamba”. Garibaldi colpito da fuoco amico nell'agosto del 1862. Ma la vita di GG è per sua stessa natura eroica, convulsa, piena di accadimenti irripetibili, unici, a tratti impossibili: decine di giri del mondo, viaggi in Giappone, ha abitato a Instambul come a New York, tre mogli, infiniti amori, quindici figli ufficiali, arresti e sempre fughe ed evasioni rocambolesche, parlamentare in cinque Stati sovrani diversi. La coppia Kaemmerle e Rutelli decidono per la via non temporale, non progressiva, non didascalica, senza date né appigli né punti di riferimento nel classico incedere, sua firma e cifra, dell'attore che, nella sua corpulenza che si fa parola e carne, gesti e mani a prendere IMG_2097.jpge calcare e tenere e abbracciare tutta la platea, farla propria, un cunto (tutto toscano) che diventa cascata e valanga a strapiombo fin quando non ti sommerge, ti ingloba, fin quando non si fagocita il pubblico. Ha questo potere Kaemmerle di essere esplosivo, di cullare e mordere, di carezzare per infine stilettare con forza, dolce e rude sembra di sentire la tridimensionalità delle sue parole come polpastrelli rustici su gote vergini. Il pubblico ne è travolto, sempre, e lo lascia fare come un turbinio, come un vortice, come una tromba d'aria in mezzo al mare che tutto trancia portando con sé. Raccontare la vita di Garibaldi è impossibile, una volta capito questo assunto la strada è già in discesa.

Ma questo “Garibaldi” procede in una triangolazione originale: non è il Garibaldi narrato dall'autobiografia vergata da Alexandre Dumas né quello tratteggiato dalla coppia di divulgatori Piero Angela-Alessandro Barbero, ma quello che emerge dal ritratto che ne fa Luciano Bianciardi, altro caposaldo della cultura kaemmerliana. La genesi del play è di ritrosia e di disamore: Kaemmerle, che ama e idolatra Bianciardi, crede che lo scrittore toscano, anarchico e polemico, abbia fatto il generale in camicia rossa letterariamente a pezzi. Invece si ritrova le pieghe delle pagine grondanti di stima, di rispetto per l'uomo, per le idee, per il suo lascito. Quello che colpisce non è tanto la sua lezione in vita, che qualcuno potrebbe paragonare ad un Che Guevara più romantico e un po' più annacquato, ma quanto nel tempo, dopo la sua morte, ad ogni latitudine, si sono prodigati, promossi e moltiplicati i movimenti garibaldini e i garibaldinismi che continuano a tramandare quei valori tutt'oggi, in vario modo, a vario titolo. Garibaldi che in vita era una vera rockstar, un semidio intoccabile e le cui gesta, in un mondo senza grandi mezzi di comunicazione, erano seguite grazie a dispacci e bollettini da più parti del mondo. Era un simbolo indomito, di libertà, di potere è volere, repubblicano, anticlericale, senza posa, senza padroni né padrini.Andrea Kaemmerle (2) LH.png

L'inizio è accattivante con una sorta di confessione di un imputato che, davanti alla Storia, di profilo e con la voce artefatta di un'eco taroccata e meccanica, esprime il suo disappunto di fronte a questo personaggio che realmente nessuno di noi conosce ma del quale abbiamo soltanto qualche piccola nozione sparsa. Ed è vero quello il testo ci dice: “Le statue di Garibaldi ti guardano dall'alto in basso come a dirti Ho fatto l'Italia vedi di non sporcarmela”. Garibaldi, che si è speso e battuto contro il Potere, è diventato nell'immaginario comune, per nostra assoluta ignoranza, il Potere stesso in una traslitterazione che confligge con la realtà degli accadimenti. Kaemmerle, grazie anche all'escamotage del personaggio inesistente, la madre di GG con la quale dialoga, ora è il narratore adesso è lo stesso capitano di ventura: il più grande navigatore, più di Marco Polo, più di Cristoforo Colombo. Il suo primo viaggio per mare, a poco più di vent'anni, è da Marsiglia a garibaldi su una gamba 3.jpgOdessa in barca a vela per caricare del vino. La sua iconografia grafica ci ricorda un po' Gesù, un po' Sandokan e un po' Marx, abbracciando gli estremi, facendo toccare gli antipodi in un unico simbolo. Personaggio mosso da istinti semplici ma proprio per questo il suo messaggio è arrivato in ogni Continente ed è sentito uno del popolo in ogni Nazione nella quale ha messo piede. La Regina Vittoria, così come Marx, non lo vorrà incontrare perché Garibaldi aveva la peculiarità di mettere in ombra chiunque talmente la sua popolarità era ingombrante. Le sue innumerevoli spedizioni vennero foraggiate tra gli altri anche da Verdi, conobbe Victor Hugo, a New York lavorava per Meucci mentre Abramo Lincoln gli scrisse una lettera per assoldarlo come generale nella guerra civile tra Nordisti e Sudisti. Questo “Garibaldi” è una sorta di Zibaldone dove le notizie vengono sparate come pallettoni di carabine e ognuna sembra inverosimile, quanto meno strana o irreale. Una vita avventurosa è il minimo che si possa dire per descrivere quella del Giuseppe Nazionale. Bene hanno fatto Kaemmerle e Rutelli nel riscoprire questa sua imponente figura (teatralmente quasi non affrontata) che tutti crediamo di conoscere (qui la falla della scuola) ma che soltanto pochi hanno percezione della straordinarietà della sua vita sempre in viaggio, sempre in battaglia, sempre pronto all'azione, senza mai tirarsi indietro davanti a nessuna causa, sempre moralmente coerente con i propri valori.

Tommaso Chimenti 12/09/2022

COLTANO – Metti un Armistizio che alle nostre latitudini stiamo ancora aspettando in maniera completa, metti la sopraggiunta e improvvisa morte della Regina Pop per eccellenza, metti un'inflazione galoppante e i tassi d'interesse europei aumentati, metti una campagna elettorale estiva acida e rancorosa in atto, metti una guerra evitabile e al tempo stesso banale e preventivabile ed ecco, nel flusso inconscio, concatenarsi questa colata di “Oracoli”, caravanserraglio-presepe e metafora viaggiante dove camminare, correre, perdersi cercando la luce, annusando i bagliori, profumando 18402255_1362717083848624_6869483940300976407_o.jpgle epifanie di lampi in questa notte pesta dell'Umanità. Alessandro Garzella (autore e regista) e i suoi Animali Celesti abitano, smuovono e spostano e fanno loro lo spazio di legno e stalle, di fieno e Far West, di staccionate e zoccoli nella Pineta di Coltano (dalle parti di Pisa) dove sopra passano aerei rancidi con le loro ali molli e il becco a punta verso destinazioni sconosciute nei loro gridi di kerosene e carburanti pompati sulle nuvole innocenti. Qui si recuperano cavalli e asini che hanno subito maltrattamenti, abusati, vilipesi, torturati, bestie bellissime e vederle nel chiaroscuro della notte, mentre la performance rumorosa continua il proprio giro e compie il proprio gioco e giogo, ha un sapore di favola riuscita, di capolavoro risolto, di chiusura del cerchio, la Natura che ha preso nuovamente per mano l'Uomo e insieme hanno portato a compimento l'avventura della salvezza. In questo bosco pare che Pinocchio si mischi a Moby Dick e l'Utopia di Don Chisciotte si possa finalmente toccare, mordere, lisciare. C'è il sogno ma anche la tangibilità delle pozzanghere, l'alta sfera della poesia sparsa, tra capezzoli al vento ORACOLI IN VERSI.jpge una band malinconica sospesa tra matrimoni e funerali, questi pini marittimi che illuminati prendono forme e sembianze, diventano alti giganti e i loro rami braccia e le loro chiome teste di Jimi Hendrix che puntano a leccare queste nubi grigio scure gonfie e cariche ma calde, scenografiche, fondali pannosi spessi ovattati come cuscini di un Alice nel Paese delle Meraviglie scomposto, scoordinato, disunito.

Wunderkammer come ogni passaggio e step e passo dentro questa avventura (della durata di due ore), un vagabondare andante di anime dantesche con candele in mano ad incontrare strumenti stonati e spaventapasseri inquietanti, ma soprattutto ombre a disegnare un terreno che perde contorni e si sfalda, si sfarina, si appropria di altri sensi e significati, si trascina, tracima, si amplia, si sgranchisce, si snocciola. Un asino raglia, un cane abbaia lontano: è la vita che ci riporta con i piedi per terra e ci fa sentire piccoli e inutili in mezzo a questo grande deserto che stiamo attraversando fatto di vicoli e radure, di strade strette tra i rovi per poi aprirsi nel grande circo di corse sudate e manichini antropoformi, di statue e sculture cesellate dalla fiochezza della Luna nascosta nel tambureggiante della nebbia che distorce, nasconde, cela. Il cammino è un andare incontro alle proprie paure e sentimenti, andare in faccia, a specchio, a verità elargite da un guru sotto ad un albero, un Maestro che sembra fuso con i suoi arti tra le radici di questo antico fusto sopra il quale scimmiescamente si aggrovigliano e salgono, 1.oracoli.jpgs'arrampicano e s'accapigliano anime come liane, personaggi letterari tra sibille e ballerine, misteri animaleschi al ritmo di trombettisti e fanfare. Gli oracoli declinano ed elencano i Miracoli, possibili, eventuali, potenziali, pirotecnici, futuribili, di Vita, Morte e Dio a miscelarsi, creare amalgama, una pasta solida inscindibile. Questo “Oracoli” è un play teatrale che prende forza grazie al pubblico che si lascia guidare, si lascia condurre in questo spazio magico, fuori dal tempo, una sospensione fortunata, una parentesi tutta da cogliere e respirare.

E' un continuo colorato portarsi via carnasciale, di corpi infusi d'eros, di canti tra il proibito e la preghiera e nel naso l'odore dell'erba bagnata, il profumo dell'umido della notte di fine estate e quella patina di rugiada che imperversa, attinge e fa cappa alle suole delle scarpe come al respiro confuso da tanto nuovo vergine ossigeno. Bisogna lasciare andare gli occhi senza soffermarsi sugli incroci e sugli incastri, sul fluire dei passaggi, sulle trame e le frontiere, accogliere i sensi senza doversi spiegare versi e concatenazioni talmente è l'ammasso e il flusso di coscienza che esonda felice nelle performance (dieci musicisti e una ventina di performer tra i quali spiccano Ilaria Bellucci, Satyamo Hernandez, Sara Capanna, Chiara Pistoia, Carlo Gambaro, 2.oracoli.jpgFrancesca Mainetti) che diventano atto in una sovrabbondanza, caustica e ricca, di parole, mo(vi)menti, tentativi. Ti puoi soffermare su una sorta di sposa-Marilyn, ti puoi far catturare e affascinare dalle campane della Chiesa che rintoccano e ti svegliano dal torpore, puoi rimanere invischiato nel riflettere se, come dice la domanda in loop, nella tua vita “sei vittima o boia”. La comunicazione è aperta, i sensi dosano la loro forza cercando anche i dettagli inesistenti in una piena condivisione tra attori e pubblico e Luogo e Natura. Le parole non sono compartimenti stagni (né patimenti) ma hanno facce e volti e sostanza e riesci a vederle tridimensionali, ora Angeli, adesso Demoni, ora carezze, adesso bestemmie. Siamo innocenti e siamo allo stesso tempo anche Orchi che cercano il loro posto nel mondo, la strada per raggiungersi, per ricongiungersi.

“Oracoli” non può che essere un grande rito collettivo d'iniziazione, grandemente architettato, supportato, gestito, dove vengono snocciolati i Miracoli (dopotutto siamo vicini a Pisa e al suo Campo dei Miracoli) che, negli interstizi tra Cielo e Terra, tra le pieghe della Realtà, tra le righe del mondo e dei suoi abitanti, capitano, occorrono, si palesano, si manifestano oppure solamente avrebbero potuto e invece non sono stati capaci di materializzarsi. Le luci che si innalzano da terra in questo bosco sembrano esplosioni cosmiche, aurore boreali verdi e blu in cerca di un abbraccio accogliente e incandescente. “Cogli l'attimo” ci grida un urlo evergreen che ridesta le nostre priorità tra i rumori accordati e armoniosi di una sega suonata con l'archetto, in questi spiazzi di polvere che sanno di sale e Apocalisse, di Luna piena e di Luna Park, di balle di fieno e di balle di fiele. Immersi in questa festa-concerto gitano non possiamo far altro che seguire la corrente come salmoni, attratti dalla luce, dallo sbocco sul fondo, rincorriamo la triste euforia, la ricerca della grazia, della gabbia come della malinconia, la liberazione, la santità e la pazzia, la cura e la malattia, l'inizio e la fine. Siamo le carte degli Oracoli, siamo gli Ultimi da salvare. Meno male che ci sono ancora gli Animali Celesti, anime della Volta Celeste, spazio di manovra, pensiero libero.

Tommaso Chimenti 10/09/2022

Fotografie di Michele Lischi

SPOLETO – Difficilmente, in un festival teatrale italiano, è possibile trovare tanta qualità nella stessa giornata in tre spettacoli differenti per concezione, idea, messinscena ma ugualmente illuminati, densi, pieni di riverberi e riflessioni. A Spoleto anche le pietre parlano, i vicoli con gli archetti ti abbagliano, le giraffe installate in città ti danno il benvenuto, il Duomo ci scuote, le affascinanti chiese aprono i loro portoni, i giardini che sorgono in mezzo all'arte e all'architettura ci accolgono. A Spoleto, al “Festival dei Due Mondi”, si è fatta (e si continua a fare) la grande storia teatrale del nostro Paese.

E allora respiriamo, prendiamo a pieni polmoni le atmosfere cechoviane de “Il Gabbiano” (prod. Teatro Stabile Umbria, ERT/Teatro Nazionale, Teatro Nazionale Torino), curato e maneggiato con classe, padronanza ed eleganza da Leonardo Lidi, sempre idee più fervide e mature, che ha creato un dispositivo semplice e leggero quanto efficace con uno spazio vuoto e aperto, scarno in un teatro dal palco divelto, come se non restasse più niente apocalitticamente, con una panchina sullo sfondo dove i personaggi stanno prima di affrontare la loro scena (quindi sempre presenti e visibili) e una panca da giardino in prima battuta dove effettivamente i dialoghi si accendono e si spengono, dove gli addii si sprecano per poi non andarsene più, dove i mai e i purtroppo si sprecano e l'indomani tutto resta com'è senza nessun sussulto.Il-gabbiano-ph.-Gianluca-Pantaleo.jpg

Tre i punti da sottolineare: in primis la griglia delle luci che prima sta in alto, a metà spettacolo scende a limitare la visuale e a fare da cappa claustrofobica a questo manipolo di pseudofelici che boccheggiano di speranza di vita e novità, e infine la stessa griglia che si poggia a terra, fine delle illusioni, fine delle luci per illuminare il domani, diventando a sua volta sedia dove posarsi oppure ostacolo da saltare. Secondo step: il ballo finale con la musica che lentamente rallenta e gracchia e allo stesso tempo le coppie nella danza si raggomitolano, si raggrinziscono, si ingobbiscono, diventano ad ogni giro di valzer sempre più anziane e vecchie e decrepite in un ballo lunghissimo durato tutta la vita cominciato da giovani e finito tra le rughe senza nel mezzo ricordarsi cosa è successo, cosa abbiamo fatto se non perdere tempo. Terzo ma più importante, un cast d'eccezionale performatività che gioca tutto il suo stato di grazia tra un profondo scollamento dalla realtà, in questo parallelismo della finzione teatrale metafora dell'esistenza dove si entra in scena e si recita un soggetto e un ruolo, e un'ironia volutamente caustica. Dieci attori mirabili, dai movimenti misurati, dagli sguardi centellinati, dalle voci che ti entrano dentro, passi bilanciati in un equilibrio impossibile tra esistenze da trapezisti dove cercare di non cadere (invece che tentare di volare) rimane l'unico vero compito da portare faticosamente, sfibrante, a termine.

Detto che tutti e dieci creano un tessuto e un clima netto e sicuro, tenace e rassicurante, dobbiamo necessariamente sottolineare Massimiliano Speziani – lo scrittore Trigorin, folgorante nelle impercettibili mosse di cuore e intonazione, Francesca Mazza – l'attrice Irina, in perenne ambivalenza tra la durezza e la ricerca di comprensione, Ilaria FaliniMasa, luttuosa depressa che suscita vicinanza, si muove sul filo dell'incomprensione e dell'infelicità, Christian La Rosa - Konstantìn Gavrìlovič, ancora una splendida prova ottenuta con una fitta tela di passaggi portati sulle tavole con una semplicità disarmante, Giuliana Vigogna – Nina, grande forza e delicatezza, sensibilità e compassione. Un cast felice e solare dove sono tutti sull'orlo di un burrone, tentano di salvarsi ma inesorabilmente sono nuovamente attratti come magneti da quel cornicione, da quel limite che sanno di non dover superare senza però nemmeno allontanarsene, non riuscendo a respingere da sé tutto quello che gli sta facendo male anzi riproponendolo meccanicamente per poi lamentarsene. Un vorrei ma non posso all'ennesima potenza, da mancanza di ossigeno, da sentirsi impotenti per l'impossibilità di cambiare il corso delle cose.

E' Rezza 2.jpgla metafora del gabbiano che potrebbe librarsi alto, simbolo della libertà, e che invece finisce per farsi uccidere (volontariamente, forse non soppesando i rischi) dalla noia. Tutti insoddisfatti per motivi diversi, ognuno di loro che ci parla, oggi, a suo modo, ognuno di essi che ci guarda dall'abisso del tempo chiedendoci se siamo felici, se stiamo facendo qualcosa per esserlo, chiedendoci se stiamo vivendo o se è la vita che ci sta passando addosso come un carrarmato. La seconda ipotesi è sempre la più facile, quella di non prendersi la responsabilità della propria soddisfazione, potendo sempre contare sull'alibi di addossare le colpe del proprio insuccesso al Fato, al Destino gramo, agli Dei, ai comportamenti degli altri. Quando il dramma ha una punta di (auto)ironia è ancora più feroce e brutale.

Si parla ancora di insoddisfazioni personali nel nuovo lavoro di Rezza/Mastrella, “Hybris” (prod. Rezza/Mastrella, La Fabbrica dell'Attore-Teatro Vascello; coprod. Spoleto Festival dei Due Mondi, Teatro di Sardegna) che risente assolutamente del clima di lockdown e privazioni, di costrizioni dentro le quattro mura domestiche. Oggetto feticcio centrale è una porta, con tanto di stipite, che Antonio Rezza, sempre più funambolo e Puk, in piena forma smagliante, atletico e ruspante, muove e posiziona davanti agli altri malcapitati attori-performer, manichini in carne ed ossa, spalle per far esplodere l'eccentricità disarmante e deflagrante del capocomico felicemente accentratore di parole e movimenti e attenzioni. Come una calamita tutto parte da lui e tutto a lui è rivolto, ogni gesto, manifestazione, angolazione da qui nasce e cresce. Il testo è una sottolineatura, una reiterazione, un loop dove proprio il ripetersi si fa mantra, ci affascina il suono, ci culla per poi, infine, deliziarci provocatoriamente con il suo scatto lessicale ferino, i suoi scarti linguistici selvaggi, la sua semantica intelligente e tagliente.

La porta, in questa riflessione postmoderna, è sia il tramite per raggiungere gli altri come la frontiera per dividersene, il limite di Romolo e Remo, quella linea di demarcazione per indicare Rezza.jpgche cosa può stare al di qua o al di là del segno convenzionale. Quella porta che negli ultimi due anni abbiamo identificato come salvezza e salvaguardia, per allontanarci dagli altri quali portatori di patologie. Questa porta che si apre infinite volte con violenti e caustici Sbam da fumetto che ancora risuonano nei timpani come scansione ritmica precisa e puntuale, come sottolineatura della battuta, che si chiude altrettanto celermente perché la misantropia è galoppante e l'uomo è sì un essere sociale che ha bisogno degli altri ma la pandemia lo ha profondamente mutato accentuando la deriva di autoconservazione e autoaffermazione scambiando le possibilità della tecnologia e della modernità per progresso. Siamo sempre più chiusi dentro i nostri loculi e abbiamo paura dell'esterno e dell'incontro con gli altri sempre portatori di conflitti e contrasti. Ma che cos'è l'Hybris? E' “l'orgogliosa tracotanza che porta l'uomo a presumere della propria potenza e fortuna e a ribellarsi contro l'ordine costituito, divino e umano, immancabilmente seguita da vendetta o punizione divina”.

Pecchiamo, abbiamo peccato di poter fare a meno dei nostri simili e così ci siamo inariditi, chiusi nelle nostre celle a doppia mandata. Ma se una cosa non può entrare necessariamente neanche ciò che è all'interno può uscire, quindi lo spazio, fisico ma anche di sguardo e di riflessione sul mondo circostante, si affievolisce, si incupisce, si mortifica. Rezza, sempre surreale e dadaista, vestito da fachiro ipercolorato, quasi mummia che esce dal sarcofago è devastante nella sua fisicità che va di pari passo con una dialettica raffinata, iperaccelerata, sagace e animalesca che si fa gramelot dove perdersi volontariamente ma mai dolcemente: “Siete giovani. Diverticoli” o “Grazie di desistere”, l'apocalisse è qui, è già in atto e non ce ne rendiamo conto. Siamo l'orchestra che continua a suonare sul Titanic ormai in fase d'affondamento. La casa piccola, la casa modesta fino ad arrivare alla casa molesta ovvero alla violenza domestica o la porta che diventa metal detector, la sciagura del guscio che da protettore si fa avviluppante catena e morsa asfissiante. Non sbagliamo, non esageriamo a definire i Rezza/Mastrella geniali, rari, unici: “Stanotte ho pensato a noi due e il fatto che uno dei due fossi io mi ha dato tanta forza”, la tracotanza positiva insita nell'attore, quell'alterigia, quell'arroganza, quella prepotenza, quell'aggressività della quale non vorremmo mai fare a meno.

E arriviamo, alla messinscena di Thomas Ostermeier, “History of Violence”, stratificata, densa, complessa, frastagliata, disarmante. Dalla storia autobiografica dell'autore, il francese Edouard Louis, che racconta la violenza subita, e il trauma conseguente, nella notte di Natale di pochi anni fa. Il libretto parla di stupro ma non è tutto così lineare. La trasposizione scenica del regista della Schaubuhne, come un montaggio cinematografico, ma molto più intenso, è un salto continuo, mai progressivo-temporale mai lineare, dentro le viscere (è questo il caso di dirlo) di questa materia scioccante, History.jpgdrammatica, vitale, pulsante. Ci lascia tante, tantissime domande, nodi da dover dipanare senza risposte. Un teatro politico, non potrebbe essere altrimenti perché non parla di un corpo abusato ma di un corpo che si fa emblema, materia sociologica, campo di battaglia e di studio. La storia è complessa perché il suo andamento subisce continui scossoni ad ogni scena, ad ogni capoverso e quadro, che controbilanciano, spostano, aggiustano, cancellano, quello che precedentemente avevamo pensato di avere acquisito sulla narrazione, scivolosa, pruriginosa, viscida.

Un batterista in scena che storna colpi che scandiscono le parole e gli stati d'animo, il protagonista che diventa narratore in terza persona, altri due attori che impersonificano tutti gli altri ruoli collaterali: un grande lavoro di ampio respiro. Semplificando potremmo riportare che “History of violence” racconta di uno stupro subito. Non è così. Ovvero, questa è solo la patina, la punta dell'iceberg di tutto quello che c'è sotto, perché la realtà non è mai univoca né così semplicistica. Come se fosse un giallo entrano in scena medici e Polizia che si incastrano con tutto il magma di sensazioni del protagonista che ricorda e rivive quegli attimi, prima, durante e dopo, in presa diretta per raccontarli e metterli a verbale. Com'è difficile raccontare a terzi la verità ed essere creduti? In questo spettacolo (e nel romanzo dal quale è tratto) lo stupro sembra essere il grimaldello per scoperchiare molti punti deboli della nostra casa Europa: emerge la dicotomia campagna rurale versus città, mondo etero vs omosessualità, cittadini vs immigrati, destra e sinistra, tutto miscelato dentro una pentola a History 2.jpgpressione che non può far altro che implodere.

Edouad, alle quattro della mattina della notte di Natale, al ritorno da una cena tra amici, incontra sotto casa Reda, un affascinante giovane nord africano. Il nostro scrittore ne è attratto ma anche impaurito, l'altro è molto insistente. Lo invita a salire da lui, si fida. Si confidano, si aprono, si amano. Fin quando l'algerino, mentre l'altro è a fare la doccia, non gli sottrae il cellulare. A quel punto, scoperto il furto e chiesta la restituzione dell'oggetto, Reda impugna la pistola, tenta di soffocarlo con una sciarpa e lo abusa. Non è una narrazione di uno stupro ma di una contraddizione. Perché l'abusato, pur odiandosi e avendo gli incubi e gli attacchi di panico e ha il desiderio di farla finita, diventa il primo giustificatore dell'aggressore, mostrando pietà e perdono, mettendo sul piatto della bilancia la povertà e la disperazione dello stupratore. Lo va a denunciare ma non vorrebbe che finisse in carcere in una sorta di Sindrome di Stoccolma reiterata. In qualche modo pensa che la violenza che ha subito sia stata giusta come colpa da scontare della nostra cultura, dolore da patire per equilibrare colonialismo e razzismo e sfruttamento. Che cosa però ci vuole raccontare lo scrittore rimane nebuloso e, ovviamente, tormentato: ci vuole forse dire che la Polizia francese sia “fascista”? Lui, l'aggredito da un tale reato così ignobile e odioso, difende l'abusatore dal linguaggio degli uomini in divisa che nel verbale lo definiscono “magrebino”. Ci vuole raccontare che ha ragione il Fronte Nazionale sulla questione degli immigrati e sulle banlieu? Ci vuole dire che gli extracomunitari hanno il diritto di soverchiarci senza che possiamo difenderci perché corrosi dal senso di colpa? Ci vuole dire che chi viene accolto in Europa ci odia e continuerà ad odiarci perché non si riconosce nei nostri valori e li vuole abbattere (o simbolicamente stuprare, “fottere” una cultura; Houellebecq) e ci disprezza per i nostri comportamenti e le nostre possibilità e libertà? L'Europa sarà spazzata via da questo tipo di ragionamento che tende, sempre e comunque, a vederci come aggressori anche quando siamo stati aggrediti.

Tommaso Chimenti 10/07/2022

FAENZA – L'Accademia non si è affatto Perduta o almeno, certamente se lo è stata si è ampiamente ritrovata. “Colpi di Scena” è un format consolidato nel teatro per le giovani generazioni e da biennale lo scorso anno si è trasformato in annuale alternando la visione di spettacoli per adulti, negli anni dispari (la prossima edizione sarà a settembre '23), a quelli per ragazzi, negli anni pari. E i colpi teatrali dell'AP (in collaborazione con ATER) sono stati ben assestati anche quest'anno, dislocati tra Faenza e Forlì tra i tanti teatri che compongono la costellazione degli spazi romagnoli: il San Luigi e il Testori, Il Piccolo, il Diego Fabbri e il Felix Guattari tutti a Forlì, la Casa del Teatro e il Masini a Faenza. Un solido spargimento teatrale che fa storia e tradizione come comunità e passione. In Romagna non manca mai la voglia di allegria, sorrisi e piadina. In quattro giorni una piccola, faticosa ma soddisfacente, maratona, con diciotto piece e otto debutti, colma di visioni e approdi, di parole e colori. Sale calde, temperature hot.

Un giovane performer che riprende l'antica tradizione, quasi scomparsa, del ventriloquo ne “Il Gran Ventriloquini” della compagnia Madame Rebiné: Max Pederzoli alto, dinoccolato Il Gran ventriloquini.jpgin giallo, a metà strada tra Adrien Brody e Adam Driver, immerso in una pseudo situazione circense. Si sente che sono freschi, che hanno sensibilità ed entusiasmo. E' la classica, ma sempre affascinante storia, degli oggetti che si ribellano al suo creatore, del figlio che deve “uccidere” il padre per staccarsi dal cordone ombelicale e camminare con le proprie gambe. Il tagliare i fili della marionetta, Pinocchio e Frankenstein. Qui il nostro mago discute e litiga con “Klaus il Clown” che se ne sta dentro una botola e non ne vuol sentire di uscire per esibirsi ed anzi entra in sciopero. Intanto il mago, per riempire l'attesa, mitraglia le sue barzellette: “Perché le renne vivono in Antartide? Perché lì c'è la neve perenne”. Altro personaggio che si ribella a colui che gli presta la voce non riconoscendone l'autorità è il calzino a mano, una sorta di serpente con la lisca. Klaus e Calzino si rifiutano di dire le barzellette del ventriloquo considerandole squallide. A bocca chiusa rappa e scretcha, suona la base di Billie Jean, parla fuori sincrono, parla con l'eco. E' la lotta infinita tra l'uomo e gli oggetti inanimati che però un'anima ce l'hanno eccome. Intanto: “Vorrei una camicia” “La taglia?” “No, la porto via intera”. Questo è un piccolo circo di periferia “che cade a pezzi”, le cose si rompono, le luci si spengono, i pannelli cadono, le tende si staccano. Il concetto del padre-padrone non regge più e gli oggetti di lavoro si sono fatti consapevoli e vogliono ottenere la libertà per finalmente formare un trio di artisti con pari dignità. “Cosa ordina un riccio al bar? Una birra alla spina”.

Dai Cipì.jpgcolori al buio tetro degli Zaches che sono sempre cupi e neri, certo raffinati, fini tecnicamente e formalmente eleganti ma anche molto foschi e scuri, impaurenti, intimorenti. Stavolta affrontano la fiaba di “Cipì” e fin dalla prima bellissima scena, quella della tempesta, si ha la sensazione di uno spettacolo noir con i fogli che svolazzano addosso al Maestro in maniera aggressiva quasi cani alla catena che attaccano. La musica coinvolgente e avvolgente crea una sensazione di pathos e ansia prima di giungere al nodo della storia, il nostro Cipì, uccellino curioso che vuole andare a scoprire il mondo mentre il Nonno-Maestro non vuole lasciarlo libero perché là fuori, dice, è molto pericoloso. Come quei genitori che fanno crescere i figli sotto una campana di vetro. E questa versione è anche molto cruda con l'arrivo dei cacciatori e della falciatrice. Una favola ambientalista alla quale avrebbe giovato un po' di leggerezza, un pizzico di allegria e una lievità maggiore.

Abbiamo avuto Ferdinando.jpgriserve, di altro tipo però, anche per quanto riguarda “Ferdinando, il toro” con Danilo Conti impegnato in una storia atavica di pacifismo raccontata attraverso grandi cartonati non così efficaci. Mancava di ritmo e i pannelli e la grande testa di toro come quella da torero, pur nella bellezza dell'oggetto artigianale, non sono riusciti a far decollare la storia che si è appiattita diventando monocorde, senza slancio. Una favola sulla diversità ma dove al suo interno oggi possiamo leggere anche una metafora tra il torero-Putin e il toro-l'Ucraina. Sappiamo chi vince nella realtà ma sappiamo anche chi vince nelle fiabe.

Dire che “CideCide.jpeg di Maurizio Bercini (prod. Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti), colonna storica del teatro per i ragazzi e dei burattini, sarebbe limitativo. Bercini ha toccato, con semplicità, le corde dell'emozione, della poesia, del pathos, della nostalgia, del ricordo, della commozione. Cide è Alcide Cervi, al quale i fascisti hanno ucciso sette figli. Una roba da uccidere un toro, invece gli oggetti che compongono questo mosaico sulla scena stanno a testimoniare che la verità non si ferma e che la memoria rende gli uomini liberi. Oggetti carichi di significati, doni di chi ha visto in Alcide la costanza e la forza di non abbattersi, di non mollare, di non cedere alle sventure e alle ingiustizie della vita che gli aveva tolto tutto. E Bercini fa sua quella rabbia atavica, è un fuoco, si percepisce che prova ancora quello sdegno e sgomento ogni volta che la rievoca, non si risparmia, è generoso tocca la Bibbia e il Mappamondo, le Bocce e la Falce, unendo i vari punti di questa sorta di cartina sensoriale, di questo quadro che a poco a poco si dipana nel racconto coinvolgendo la platea, andando sempre più a fondo. Un teatro d'oggetti antico e sempre verde, tattile, concreto, materiale, ricco di onestà, un teatro formativo, pedagogico ma mai pedante, per i bambini di ogni età: “Faccio teatro da quando ho diciassette anni, sono passato dai soldatini ai burattini. Non sono mai cresciuto”, dice. Una fortuna. Assolutamente da vedere: applausi di vicinanza e occhi lucidi; la verità non vincerà sempre ma esistono degli eroi pronti a raccontarla.

Il tema degli hikikomori sembra essere un problema molto sentito tra i giovani. “C'è nessuno” indaga, attraverso l'uso di video e chat, il complesso meccanismo sociale e psicologico che si nasconde dietro i nostri portatili, i nostri smartphone, questa possibilità di poter raggiungere tutti che ci appaga e soddisfa e non ci lascia la curiosità dell'incontro fisico. La compagnia Mandara Ke mette in scena due giovani, uno sul palco e l'altro online a distanza ed è al tempo stesso divertente e tenero, preoccupante e allarmante il rapporto degli adolescenti con le tecnologie da una parte, con gli altri esseri umani dall'altra. Una fase questa acuita dalla pandemia e dalla forzata separazione fisica dei ragazzi che si sono presto abituati a questa dinamica dell'esserci senza esserci in un mondo virtuale fatto di videogiochi e chat tutto irreale, volatile, fumoso. Le chat senza il vis a vis non può che portare ad un game over fatto di sempre più persone isolate, lontane ma con l'intima convinzione di essere felici perché dal divano o dalla cameretta di casa possono, fintamente, raggiungere e fare tutto. Fanno paura le frasi: “Non vorrei crescere” di ventenni senza speranza, preoccupati costantemente del domani, affidandosi ai guru del web, ai tutorial che portano in dono soluzioni (come il Gatto e la Volpe): “Mi avete illuso che sono libero e che posso fare tutto quello che voglio”.

La pulizia dei tratti e la raffinatezza delle scene ben costruite di “Cassandra”, del Teatro Gioco Vita (50 anni di attività, da Piacenza), ci fanno sobbalzare insieme a temi ben architettati ed a Cassandra.jpgtesi di fondo condivisibili, precise, lucide e puntuali. In una sorta di braciere greco due ancelle performano il loro rituale di ombre da rimanerne esterrefatti. La modalità registica invece di modulare le ombre nel retro del telo e successivamente arrivare sul boccascena a spiegarci, didascalicamente, il quadro appena visto l'abbiamo trovato molto scolastico. Ma il tema è veramente importante: qui Cassandra, che parla ma non viene creduta, è una Greta dei giorni nostri che ci informa e allerta sui pericoli del cambiamento climatico ma ai quali non crediamo per ignoranza, disinformazione ad hoc, paura del futuro e di prendere delle decisioni che in qualche modo possano cambiare, peggiorandola, la nostra piccola esistenza. Abbiamo perso l'età dell'innocenza e il futuro dell'uomo è segnato. Si sentono le sirene di nuovi lockdown, le temperature che aumentano vertiginosamente portando la Terra al collasso, le coltivazioni, le città invivibili, l'emergenza idrica, l'inquinamento, gli incendi. “Cassandra” è uno schiaffo apocalittico con la tropicalizzazione e la saharizzazione del Globo. Lo spettacolo per noi si conclude (troppi finali uno dopo l'altro) con la potente immagine di migranti che nella fuliggine di un deserto camminano verso non si sa quale meta. Da lì in avanti è un cercare di dire le stesse cose precedentemente esposte con altri mezzi rendendo il tutto pesante e inutilmente sottolineante, dalle immagini di cortei e proteste (quando il teatro insegue la tv o il cinema inevitabilmente soccombe). Chi dice la verità è un nemico del Popolo.

Dall'incubo al sogno con “I sognatori” (Teatro delle Briciole Solares) che fin da subito ci ricorda e ci riporta alle suggestioni felliniane de “La voce della Luna”. In una sortai sognatori.jpeg di futuro apocalittico, certamente post atomico, un futuro prossimo possibile, si incrociano Gigante e Cico e Pallina (due danzatori), una sgangherata compagnia di giro, cialtrona e vagamente circense. Si vorrebbe far ricorso alla visionarietà come all'immaginazione ma il testo pecca di voler essere filosofeggiante e poetico senza riuscire nell'intento, cadendo in scontatezze e risultando leggermente superficiale. Toccando Fellini è facile cadere nello stereotipo, nella forma più che nella profondità: manca della verità teatrale.

Conosciamo Michele Di Giacomo da anni avendolo visto, e apprezzato, in molti spettacoli di prosa per adulti. Anche qui tiene la barra dritta, tiene il pubblico, incuriosisce con questa narrazione supportata dai video sul fondale che cambiano ambientazione, un video mapping che cambia forma risultando un vero e proprio coprotagonista con il quale interagire. “Sono solo favole” (Alchemico Tre) inizia kafkiano e prosegue sul filo, mai banale, della ricerca della memoria, di un passato, nell'intreccio tra la realtà e l'immaginazione. Un ragazzo che ha perduto la madre si ritrova nella casa d'infanzia e, attraverso un gioco-caccia al tesoro organizzaSono solo favole.jpgta proprio dalla genitrice, riesce a risalire a chi è, a scoprire lati importanti del suo carattere, a ritrovare anche se parzialmente la mamma, a capire meglio il suo passato e proiettarsi con più fiducia, ora che ha sconfitto i demoni dell'infanzia, verso il domani. I ricordi fanno paura perché spesso fanno male, non possono essere cambiati. In questa casa virtuale sullo schermo, il ragazzo si fa detective in un giallo a caccia di indizi, una sorta di Alice dentro un mondo parallelo che sono le storie della madre scrittrice (tra la Rowling e Agatha Christie) i cui personaggi si materializzano sullo schermo. La mamma sognatrice e il figlio concreto che alla fine imparerà che le favole, la letteratura, l'arte in generale possono cambiare e migliorare la realtà: “Le fiabe non raccontano che esistono i draghi ma che possono essere sconfitti”. Interessante anche la parte interattiva con il pubblico.

E finiamo con Il messaggero delle stelle.jpgil miglior spettacolo visto in questa edizione di “Colpi di scena”: “Il messaggero delle stelle”, scritto mirabilmente da Francesco Niccolini, con il funambolico Flavio Albanese sul palco abbigliato tra cavaliere errante e astronauta. E' Astolfo paladino dalla pronuncia inglesizzata che, con il suo ippogrifo, ha raggiunto la Luna per recuperare il senno di Orlando. Ma è qui che esplode tutta l'arte di Albanese, vero mattatore, che ci delizia ed esalta la scrittura di Niccolini, tutta in rima, quando Astolfo incontra filosofi e scienziati in questo limbo nell'Aldilà: Galileo con cadenza toscana, Giordano Bruno napoletano, e poi Tolomeo e Copernico lanciandosi in dialoghi surreali e patafisici sulla conoscenza, l'Universo, l'esistenza, Dio, i corpi celesti. Albanese, davvero un grande attore, riesce a rendere l'astronomia leggibile e semplice, esaltando l'ironia felice e profonda di Niccolini (suoi cavalli di battaglia sia i Paladini che Galileo). Da veri, sentiti, pieni applausi.

Tommaso Chimenti 07/07/2022

FORLI' – Senza voler essere necessariamente esterofili, le due proposte provenienti dall'Olanda, all'interno del fitto e corposo cartellone della rassegna “Colpi di Scena” (organizzato da Accademia Perduta/Romagna Teatri e Ater Fondazione), festival di teatro per ragazzi e giovani tra Forlì e Faenza, sono state le più incisive, sicuramente le più moderne e contemporanee, con linguaggi aperti a riflessioni stratificate, interessantissime suggestioni piene di senso e contenuti adatti ad ogni età e non chiusi nella scatola-definizione-dicitura-didascalia “teatro ragazzi” che alle nostre latitudini limita la visuale e semplifica l'immaginazione.

Per primi ci siamo trovati davanti ad “Hermit” (significa “Eremita”) del gruppo Simone De Jong Company, mezz'ora di purezza, trenta minuti da vivere, respirare, capire, assaporare. Tutto si svolge dentro, a fianco, attorno ad un cubo. Facile il primo aggancio semiotico e sentimentale al Cubo di Rubik o, al limite, ai bozzoli di Cocoon; infatti siamo davanti ad un rompicapo, ad un bivio esistenziale, ad un passaggio in perenne contraddizione tra la voglia di stare e quella di scappare, tra il desiderio di abitarlo e quello di cercare la libertà trovandosi di volta in volta insoddisfatti e delusi da una CairoHermitIMG-20200307-WA0000.jpgdelle due condizioni. Dentro il cubo-bara una lucina ne illumina le pareti e subito ci appaiono i classici segni semicircolari di una ecografia: nasciamo da un luogo claustrofobico ma caldo, costrittivo ma comodo e, durante l'esistenza, ci muoviamo come trottole per ricercare e ritrovare quella sensazione di pace e di benessere. Sembra un lavoro scritto durante la pandemia, o almeno sembra calato in questi nostri tempi dove più che l'andare fisico sembra che ci basti viaggiare sepolti e impigriti dai nostri divani, sprofondati nei letti o nelle poltrone delle scrivanie con l'illusoria convinzione, malsana e ipocrita, che ci vendono i nostri smartphone facendoci credere che tutto sia a portata di click quando sullo schermo la realtà che vediamo è soltanto bidimensionale mancando la profondità, mancando appunto noi dentro quel panorama. Il nostro protagonista (sembra un astronauta nella sua navicella, sembra un giapponese nel suo loculo) se ne sta rannicchiato dentro, compresso, è come impaurito; ai tanti campanelli che installa all'esterno delle pareti protettive del suo guscio, sonagli che evidentemente dovrebbero logicamente servire per essere trovato, risponde perennemente con “Non sono in casa” non volendo entrare in nessuna relazione con gli altri, affetto da una forma di patologica misantropia accelerata all'ennesima potenza. Quando la sua voglia di uscire si fa esondante e finalmente riesce a prendere coraggio per esplorare gli intorni del suo spazio e prendere consapevolezza del proprio corpo al di là dei confini imposti dalla sua pelle, esce dall'oblò e comincia una furiosa e forsennata corsa felice e liberatoria e di risate a bocca piena, gambe in spalle che sanno di gioia e soprattutto libertà. Ma, come kleur-_dadodans_foto-ben-van-duin-12.jpgsi dice, se non puoi uscire dal tuo tunnel allora arredalo. Una volta resosi conto della presenza di tanti sconosciuti, di molti occhi a fissarlo, la paura e il timore del contatto (forse del contagio) lo assale ferocemente facendolo ritirare dentro la sua sicurezza e fortezza. Con il lockdown è cambiata radicalmente l'idea di casa; adesso l'abitazione è una propaggine di sé, come la chitarra per Jimi Hendrix, ci deve assomigliare perché lì dentro ci passiamo, ci passeremo molto tempo. E la riflessione prende una piega drammatica: se possiamo stare tranquillamente in casa e lì lavorare non abbiamo più bisogno di uscire per raggiungere il posto di lavoro, non ho più bisogno del cinema perché ho Netflix e Prime Amazon, non ho bisogno di andare a fare la spesa perché me la porta direttamente un deliveroo, non ho più bisogno di relazioni perché parlo con Alexa, posso chattare con sconosciuti e tutto risulta essere anche più asettico e pulito. Quando non vado d'accordo con qualcuno posso bannarlo o bloccarlo e cancellarlo così che il problema viene estirpato alla radice. La paura dell'altro ci fa rinchiudere nel nostro guscio di chiocciola, come un paguro nella conchiglia, come una tartaruga all'interno del carapace. Questo chiudersi al mondo, illudendosi di lasciare fuori di casa i problemi, crea nuovi hikikomori: il futuro è grigio, bisogna per questo aprire le finestre per cambiare l'aria e respirare a pieni polmoni. Gli altri non sono un problema, il problema siamo noi stessi.

Anche il secondo “Kleur+” (significa “Colore”) della compagnia Dadodans è una performance senza preclusioni, per tutti i tipi di pubblico. Kleur-DadoDans-82-scaled.jpgUn gioco di una performer (concept e coreografia di Gaia Gonnelli) immersa in una scena dove la fanno da padroni visivamente palle argentate di varie dimensioni. E qui scattano due illuminazioni, due direzioni che sembrano opposte anche se entrambe hanno a che vedere con la creazione, con la nascita. La prima è che l'attrice potrebbe essere la metafora di Dio, o per esso la Natura, che gioca a dadi con gli uomini in questo sistema solare che sposta a piacimento, muove, fa rotolare galileianamente. Facendo tintinnare e barcollare le sfere qualcuna si apre e si rompe facendo fuoriuscire della polvere rossa, allegoria della saharizzazione del mondo come del tanto sangue versato dall'uomo, sua creatura principale fatto a sua immagine e somiglianza, come se giocasse con il sangue, calpestandolo, e con le continue guerre degli uomini stolti. Quelle strisce rossastre ricordano il sangue rimasto nell'arena, nella Plaza de Toros dopo che il bovino imbufalito è stato trascinato, ormai morto, fuori dalla corrida con il carro dei cavalli. Il rosso che imbratta la scena, che alla fine sarà di pollockiana memoria (ma potremmo andare anche a Kandinsky o Rothko) apre alla seconda immagine forte esplicita che balena quando la grossa goccia, che è appesa come un gigantesco punchingball pugilistico a mezz'aria, anch'essa si apre e lascia colare (come la rottura delle acque) liquido di vernici impastanti appiccicose. Potremmo essere all'interno di un utero e la maxigoccia essere l'ovulo: certamente un'immagine potente. Due proposte che ci fanno capire in quale direzione stia andando non soltanto il teatro ma anche il teatro ragazzi nel mondo dove non esistono distinzioni e non esistono categorie, perché fondamentalmente ci sono solamente due tipi di teatro: quello fatto bene e quello fatto male. L'arancione rimane un bel colore.

Tommaso Chimenti 02/07/2022

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