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MONTICCHIELLO – Vivere d'istanti e non distanti, vivere d'istinti e non distinti. A volte un apostrofo fa la differenza, è il senso, il nesso che esplica, che potenzia, illumina, fa esplodere ed emergere. Il Covid non ha fermato il Teatro Povero di Monticchiello ma lo ha solamente cambiato, mutato, modificato, destrutturato forse in una chiave da prendere in considerazione anche per le prossime annate. Invece che il palco frontale in Piazza della Commenda, come di consueto, quest'anno sono state predisposte varie stazioni, una sorta di Via Crucis senza tragedia, o “Isole” come le hanno chiamate i drammaturghi Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli (riuscitissimo il loro esperimento), fino a far diventare l'appuntamento in Val d'Orcia una piece itinerante per piccoli gruppi scaglionati. Sicuramente più movimentato e interattivo, si ha l'impressione di prendere la cittadina percorrendola, di tastarne con le suole le pietre antiche, di scrutare le porte, godere dei suoi angoli nascosti, i gerani alle finestre, di toccare con mano palmo a palmo i metri, le facciate, i lampioni, ogni dettaglio che altrimenti sfuggirebbe. L'impostazione di quest'anno (diminuite le repliche, se prima erano dal 25 luglio al 15 agosto, quest'anno si è preferito accorciare dall'1 al 15 agosto) va incontro anche alle nuove generazioni che hanno bisogno di più freschezza e meno staticità. E' “Isole d'istanti” (54esima edizione dell'autodramma dei cittadini di questa preziosa gemma a sette chilometri da Pienza), flash di vita quotidiana che, come voyeur, osserviamo affacciandoci alle loro finestre, buttando l'occhio interessato alle “vite degli altri”, entrando nel loro quotidiano.116879851_1418053745072609_2663525803923806433_o.jpg

Tredici stazioni (un'ora e mezzo il cammino teatrale) partendo proprio da fuori le mura e attraversando simbolicamente quella Porta che ci fa entrare nella magia del sogno, nel solco del segno del tempo che si è fermato e che riemerge a respiri, a boccate, a momenti, riportandoci dentro bolle sospese. Si cammina, ci si ferma, si ascolta. Intanto il panorama della Val d'Orcia stordisce per bellezza, ci abbraccia a perdita d'occhio, sembra non finire, si vedono come puntini cipressi e olivi a impreziosire la tela baciata dal sole. Il fil rouge di fondo è lontano, fortunatamente, da tante elucubrazioni che negli anni avevano infarcito i testi monticchiellesi, soprattutto i massimi sistemi dell'economia e temi sociali messi in bocca ad attori non professionisti, dialettali, stonavano e divenivano non credibili. Invece stavolta è la semplicità delle scene che ha reso questo nostro 116892752_1418052368406080_7152040079617485786_o.jpgwalking tra pozzi e finestre, tra giardini ed orti, un lungo respiro, commovente e sincero, vero, che è andato a sondare le radici di questo luogo, a toccare l'anima antica di queste persone che inventandosi il Teatro Povero hanno fatto ricco, di spirito e di attenzioni, il loro borgo e noi che siamo fedeli osservatori.

Non può mancare una riflessione sul coronavirus che diviene metafora di assedio, di dentro e fuori, di difesa e chiusura come di accoglienza. I bambini sono stati tra i più colpiti e i meno considerati nel dibattito nazionale e al netto dei decreti attuativi: “Non ci possiamo nemmeno toccare”, brilla come un esplosivo, e poi: “Prima ci dicono di starnutire nel gomito e poi, per salutarci, ci dicono di darci il gomito”, geniale. Si passa poi alla grande dicotomia, a livello ministeriale, tra turisti e spettatori, con i primi ben accetti, perché devono spendere, e i secondi messi in disparte. Ma il teatro da queste parti non è e non è stato soltanto palco, recite, testo da imparare, costumi da cucire, luci da puntare; il teatro è stato la molla, il cardine, è divenuto la comunità stessa, il perno, a volte il pretesto, attorno al quale ruota da oltre mezzo secolo la cittadinanza di Monticchiello: “Se non ci incontriamo non esistiamo”, urlano con un filo di voce. Poi ci sono i ragazzi (nuovi hikikomori) che si sono abituati allo stare chiusi in casa, le quattro mura che accolgono e che fiaccano, che consolano, che ovattano, che proteggono dai problemi del mondo là fuori, che tengono al riparo dal relazionarsi con gli altri, meglio un videogame, la realtà virtuale o le chat dove tutto sembra vero ma non lo è, dove tutto è impalpabile.

Presente ma anche il passato si affaccia aprendo le persiane; ecco i ricordi dei matrimoni in casa o il cinismo dei padroni contro l'ignoranza dei mezzadri. Presente, passato ma anche futuro: 117035948_1418054611739189_6689255727403117703_o.jpgtristemente divertente l'episodio della “Bank of Valdorcia” (da sottolineare la prova di Pierluigi Bonari) che vuole convincere a trasformare queste terre cariche di storia e natura in resort e palazzi, relais e tower, facendo investimenti, rilasciando bot, facendo prestiti, modificando il territorio, modernizzandolo, snaturandolo, cementificando. Il momento più emozionante è quello nello spicchio angolare dove un maestro insegna, siamo ad inizio Novecento, a tre bambini. Il maestro è Arturo Vignai presente fin dalla prima edizione del '67 e che mai ha saltato un anno (ha 87 anni e tanto da raccontare). Una frazione delicata, una pennellata, una carezza tenera e calda che finisce in un abbraccio sentito, vicino, gonfio. Non può mancare una critica all'ecologia radical chic, di quelli (buona presenza quella di Alessia Zamperini) che hanno scoperto l'orto e il bio, di quelli che vogliono 117120011_1418054395072544_3491979561980374262_o.jpgtornare alle radici, alla terra, a coltivare, ai lavori con le mani e poi continuano ad inquinare, a rilasciare plastica nell'ambiente, a sporcare, contaminare, deturpare, riempiendosi la bocca con falsi proclami che poi, alla luce dei fatti, dissentono e non rispettano.

Ci si sposta veloci in questo Giro del Paese in 90 minuti, agili come api sulle corolle, scivola via lasciandoci sulla pelle un profumo buono di Storia, di Vita, di sano. Imprescindibile il sindaco con le sue continue dirette facebook, un primo cittadino che sbaglia le parole (alla Cetto Laqualunque), ora siamo immersi dentro una banda felliniana che suona dietro ad un funerale (da ricordare Daniele Mangiavacchi, sempre grande presenza) fino all'emozionante chiusura, proprio in quella piazza che ogni estate zampilla di pubblico e calore, di applausi e parole, che quest'anno è vuota e desolata, buia e sgombra. Una signora (Rosanna Picchiacci intensa) parla con una sedia vuota davanti a lei, con un amico immaginario, fin quando non si apre una porta (un'altra porta, come all'entrata) che ci “vomita” fuori, ci restituisce alla vita, fuori dal sogno, da quest'atmosfera ovattata e crepuscolare, nitida e ombrosa allo stesso tempo, lontana come nostalgia e pulsante come un battito.

Tommaso Chimenti 09/08/2020

LISBONA – Almada è sempre un soffio, un respiro, quasi un'isola lontana e vicina a Lisbona, ai suoi azulejos, alle sue strutture che cambiano, alla sua storia. Almada la vedi, è lì a portata di mano, la fotografi in lontananza che sembra irraggiungibile e quel ponte, sempre rosso fiammeggiante, pare un elemento scenografico e cinematografico messo lì per aumentare la magia del posto, delle acque che si incontrano, veloci del Tago e feroci dell'oceano a cozzare proprio davanti ai tanti murales, carichi di espressività e socialità, nati sulle vecchie e scalcinate mura di ex magazzini e vecchie fabbriche, cantieri navali in disuso. Almada pare un'isola, riconoscibile con quel Cristo che a braccia larghe ci abbraccia e non ci lascia mai soli. Gli aerei solcano di continuo il cielo anche in questo periodo post-Covid. La fase finale della Champions League si giocherà qui, a casa di Cristiano Ronaldo marchiato a strisce senza colori. La tramvia taglia Almada e la rende raggiungibile, veloce. Da Almada, con il bel tempo, si possono vedere entrambi i ponti, il XXV Aprile rosso come il Vasco de Gama bianco, oppure a sinistra Belem e a destra in alto il Castello. Negli ultimi decenni si è trasformata; sembra piccola ma è grande, moderna con le sue piazze dove giocano piccole fontane a zampillare verso il cielo, dove gli skate sfrecciano. Ecco, se vogliamo trovare un paragone, Almada sta a Lisbona come la Giudecca sta a Venezia. Città di mare, luoghi dove si respira il salmastro. Da trentasette anni il Festival di Almada (quest'anno ancora più coraggioso di sempre il suo direttore artistico Rodrigo Francisco) è un faro nel campo teatrale europeo: in questa edizione addirittura si è passati dalle due settimane standard di programmazione (solitamente era dal 4 al 18 luglio) alle oltre tre (dal 3 al 26) rilanciando proprio quando molti hanno desistito. Anche i molti e sparsi teatri dove sono andati in scena gli spettacoli ci hanno mostrato, ancora una volta, il bisogno, la fame e la necessità di teatro di un popolo che ha vissuto il festival e riempito le sale, appuntamento atteso ed aspettato tutto l'anno: il centrale Municipal Joachim Benite che sembra una piscina capovolta con i suoi infiniti piccoli quadratini celesti a rischiarare e illuminare di luce tenue l'intorno, l'Academia Almadense moderno e funzionale, l'Incrivel Almadense cubo nero, il Forum Romeu Correia di grande impatto nel parco dove spicca la scultura delle tre braccia, con mani aperte a toccare le nuvole, l'Estudio Antonio Assuncao bianco e piccolo che pare una facciata di un palazzo messicano. Il bacalao non manca mai, nei pranzi e nelle cene condivise, momento conviviale dove potersi incontrare tra compagnie ed operatori provenienti da tutto il mondo, mentre la scelta complicata è se prendere una Sagres o una Super Bock, le birre che vanno per la maggiore in Portogallo. Almada ogni anno ci sembra più attiva e contemporanea, Lisbona più fresca e giovane, il Portogallo più frizzante e aperto. Andrebbe fatto un monumento nazionale ai pasteis de nata, il pasticcino a base di pasta sfoglia e crema.87A7431©ALIPIOPADILHA.jpg

Sospesa tra cinema e teatro ci è apparsa la piece “O criado” (quest'anno soltanto tre sono stati gli spettacoli stranieri, tutto il resto erano di provenienza portoghese) di Andrè Murracas, non a caso anche regista cinematografico. Partendo da “The servant” adattato da Harold Pinter, il regista, che è anche attore e movimentatore di oggetti per le videoproiezioni ma anche lettore e mixerista al suo tavolino da lavoro centrale, è il deus ex machina che si muove, sposta, fa, articola tra i suoi mille spazi. Il tutto in bianco e nero e il tutto in continuo parallelo e confronto, in controluce, in prospettiva, in sovrapporsi, in dissolvenza, tra la realtà, la pellicola in questione e la riproposizione nel presente della stessa scena in video, quasi un doppio, allo specchio. Ma non solo; il film e le azioni del regista-performer in teatro dal vivo sono intervallate da interviste con vari attori che rispondono, leggono parti del copione o lo provano nel privato delle loro abitazioni. Murracas è molto hitchcookiano. Come se il teatro entrasse in contatto e in dialogo (diavolo?) diretto con il cinema. Ma se l'idea può essere arguta, la sua realizzazione, soprattutto con l'avanzamento, risulta didascalica con lo scorrimento delle immagini e la spiegazione delle stesse come fosse un cineforum o una conferenza o una lectio lasciandoci distanti, un po' in sordina, laterali rispetto all'opera molto nebulosa e criptica, ben orchestrata ma poco viva. E' questa la deriva del teatro o l'evoluzione del teatro? Speriamo sia soltanto la prima opzione. Il regista diventa anche dj, si improvvisa prestigiatore ma ha poca presa ed empatia ottenendo un effetto freddino che sa di un tentativo, un esperimento non andato a buon fine, naufragato senza dolcezza, rimasto a metà strada, con il colpo in canna. E se il cinema fosse soltanto il teatro in remoto?

Se “O criado” in una scala sentimentale era razionale e controllato, possiamo assolutamente affermare il contrario per quel che riguarda “Rebota, Rebota” della spagnola Agnes Mateus, un vero vulcano cosparso di argento vivo e mercurio incandescente. Sul palco è una furia, un ciclone, uno tsunami che tutto spariglia e travolge, una forza possente e titanica, una vera rocker, un fuoco, un turbine. Ha una marcia in più03_REBOTA__f.Quim Tarrida.jpg la Mateus nella sua invettiva che parte in tono canzonatorio e brillante e si fa pian piano sempre più atto d'accusa sul tema della violenza sulle donne divenendo, alla fine, vero e proprio stato d'allarme, processo accusatorio, presa di coscienza sul femminicidio, consapevolezza e moto di ribellione ed orgoglio. Sul boccascena, come una punk dai pantaloni dorati scatenata sulla musica techno con la faccia dipinta come Joker, la performer sperimenta la sua parodia machista-latina con tutti gli stereotipi del caso, partendo dalle offese alle donne. Il suo è un canto, un grido, un urlo, s'accapiglia, s'infervora, s'agita, si scalda. Il suo è un alfabeto delle ingiurie e degli insulti che normalmente le donne, ad ogni latitudine e in ogni contesto sociale, devono subire. Il suo è un j'accuse doloroso, a tratti rancoroso, spesso retorico, pieno di furore positivo e d'impeto rovente. Diventa cascata e torrente in piena, è un diesel che si fa turbo. Dopo gli oltraggi è tempo di scartavetrare e ribaltare il vero senso maschilista delle fiabe per bambini dove la donna aspetta sempre che il maschio la salvi, la sposi, la elevi dal suo rango di subalterna. Frasi al veleno, “nel calcio non ci sono omosessuali” o “se una donna non si sposa vuol dire che è lesbica”, fanno da contraltare con fasi più pop e leggere. E' un Leo Bassi in versione femminile, vulcanica, senza peli sulla lingua, è un Puk che non fa sconti, che non cede, che non molla la presa, che ti mette all'angolo con le spalle al muro, davanti alle responsabilità della società, degli uomini e delle stesse donne che accettano, subiscono, non si ribellano. Funambolica, elettrica, sconquassa, percuote, distrugge, è un carrarmato, un caterpillar, uno schiacciasassi che non si incrina, vera pasionaria, amazzone intensa, energia pura, spinosa, mai doma. L'elenco delle donne uccise per mano maschile tra le quattro mura domestiche in Spagna è un pugno nello stomaco ma è quando, da circense, diventa il bersaglio di un lanciatore di coltelli, metafora della condizione femminile, che il discorso si fa ancora più cupo fino a quando la Mateus non mette la testa, per minuti interminabili, dentro una carriola piena di terra ricordando lo struzzo ma anche pratiche di tortura: “Le donne dimenticano per sopravvivere, le donne perdonano”. Dall'alto cadono centinaia di palline (il rimando agli organi sessuali maschili è evidente e voluto): it's raining men!

Altro tema cruciale della nostra società è senz'altro la religione, i suoi fanatismi, i suoi deliri, le sue allucinazioni, i suoi isterismi, le sue farneticazioni, le sue esagerazioni. La religione vista come uno scudo, come un parafulmine a tutto ciò che accade, una protezione, un tetto sotto il quale rifugiarci nel mezzo del temporale della vita, un riparo conservatore e consolidato, accondiscendente e consuetudinario e consolatorio. Ma quando a diventare fanatico religioso e osservante alla lettera della Sacre Scritture è un adolescente le cose si fanno problematiche perché mette in CM_0842.jpgcrisi una serie di dinamiche e comportamenti assodati, crepano l'ordine costituito delle cose, il normale andamento di regole e divieti, mina l'autorità dei professori, quella dei genitori. “Martir”, testo di Marius von Mayenburg, per la regia di Rodrigo Francisco (in Italia l'hanno realizzato i Filodrammatici di Milano un paio di stagioni fa), ci porta dentro la trasformazione della psiche di un ragazzo, nel suo avvicinamento al Vangelo fino a considerare il mondo moderno come sponda naturale per le parole millenarie degli apostoli, applicando le parabole dei santi come leggi inamovibili che tutto regolano. La messinscena è ampia e aperta, bianca, pulita, un quadrato con tante finestre che adesso si fa scuola, ora casa, infine chiesa. Teche linde alle pareti dove poter scrivere (come sono gli adolescenti, teli bianchi, spugne che raccolgono) versetti e frasi, citazioni bibliche e virgolettati che danno un senso alla vita, che la spiegano, la chiariscono, vetrate come lavagne. La religione come appiglio e piede di porco per dare una definizione all'insondabile esistenza degli umani. Il ragazzo (molto convincente il protagonista) che diviene ogni giorno sempre più devoto e pio, bigotto ed osservante, che rifiuta il contatto con le ragazze, che entra in aperto conflitto con la madre e con la professoressa, nodo e fulcro della vicenda. Chi è il Martire? Chi vuol farsi Martire? Chi è vittima e chi invece si fa passare per vittima? In questo gioco al massacro ci si scambia la pena di una croce da portare per divenire quei “Martiri” che la società può tollerare, sopportare, santificare, con i quali solidarizzare e non, per senso di colpa, emarginare.

Interessantissima la riflessione del giovane regista e drammaturgo Tiago Correia che incentra la sua riflessione sul “Turismo”, quella massa di persone che si spostano, mangiano, fanno foto, si muovono, prendono mezzi, hanno bisogno di servizi, incrementano l'indotto di un Paese inevitabilmente trasformandolo a suo gusto e misura snaturandolo intimamente. Il Portogallo, negli ultimi anni, ha sponsorizzato dinamiche per far sì che i pensionati europei, prendendo lì la residenza non paghino le tasse per i primi dieci anni.1533_© Jose Caldeira_© Jose Caldeira.jpg Un bel colpo, un Paese sicuro, tranquillo, con una buona qualità della vita, un clima mite anche d'inverno e nuove strutture per i suoi nuovi cittadini. E' ovvio che il turismo, e di rimbalzo l'economia, per soddisfare chi viene a spendere nel nostro Paese, lo voglia a sua immagine e somiglianza, a cominciare dal cibo, ai costumi, tutto si frantuma, si globalizza, diventa meticciato, le tradizioni si perdono, tutto si annacqua tra souvenir (prodotti comunque in Cina) e mete sempre meno esotiche ma anzi frequentatissime. Non esiste più un luogo che non ha visto turismo e turisti che sì comprano, dormono e cenano ma che trasformano le città in gadget, ninnoli, soprammobili, cartoline. Le città così violentate perdono la loro anima, i residenti che lasciano il centro affittando a prezzi astronomici. Quello che è successo con Venezia, città fino alle sei di pomeriggio invivibile e dopo deserta. Quello che è successo a Forte dei Marmi in Versilia con i russi che sono arrivati in massa a comprare le ville. Si crea una bolla finanziaria e immobiliare per le quali per i residenti che lì ci vivono tutto l'anno, i prezzi diventano insostenibili, i servizi ai quali poter accedere irraggiungibili in quella che era ed è ancora casa loro ma, in pochi decenni, esclusi, emarginati dal mercato. Se ci mettiamo anche che per attirare capitali stranieri (negli ultimi anni cinesi, russi, arabi) devi abbassare il costo del lavoro, va da sé che in molti Paesi del mondo, compreso il Portogallo e l'Italia che vivono di turismo, tra qualche anno, dopo l'ennesima fuga dei cervelli, in patria non rimanga che lavorare nella ristorazione o nella ricettività alberghiera. Un magro panorama.

La messinscena è europea, di grande respiro internazionale con un uso delle luci evocativo e serafico e sensuale, le immagini riprese in presa diretta e riproiettate sulla scena, il rumore costante di aerei che atterrano e partono per il mordi e fuggi low cost. Se tutti possono andare dappertutto allora il prezzo si abbassa compresa la qualità in nome di una quantità che diviene dozzinale, grossolana. Le Nazioni si trasformano in divertimentifici, in succursali estive per stranieri con il portafoglio gonfio. Basti pensare alla Grecia alla quale è rimasto il mare e le isole. I Paesi diventano quello che i turisti sperano di trovare, le persone del luogo v1211_© Jose Caldeira_© Jose Caldeira 1.jpgengono sostituite, bisogna imparare le lingue altrui per potergli vendere l'ennesimo ricordo a pochi euro. E' un gioco che in pochi anni può distruggere ecosistemi di usi e costumi centenari inseguendo il Dio denaro e cercando di soddisfare le richieste, la domanda che gestisce e trasla l'offerta. Dimmi cosa vuoi e sarò in grado di dartela in un cortocircuito di competizione internazionale per attrarre più rotte possibili, intercettare più flussi. Vengono scoperte nuove mete, si costruiscono aeroporti, sorgono città che non c'erano, servizi, possibilità, il lavoro c'è per tutti, sottopagato ma c'è, fin quando non viene aperta un nuovo mercato che attragga maggiormente. Perché nel mondo del turismo, dove tutti sono andati dappertutto, è la novità quello che cerchiamo sempre, il nuovo, il mai visto. Appena il turismo di massa si sposta da un luogo ad un altro vengono mese sul lastrico generazioni e popoli, famiglie intere. Il turismo è una droga, è un doping che pompa quelli che all'inizio sembrano soldi facili ma che gonfiano i conti, le spese, l'inflazione. Il turismo è come la prostituzione, vittima delle ondate e delle voglie. Gradualmente gli Stati perdono i loro connotati, la propria identità sbiadisce, diventa movida e alcool, ristorantini, code, musei. I piatti tipici si avvicinano al gusto del forestiero per poterglieli vendere più facilmente, storie millenarie di popoli si inchinano a tripadvisor, si genuflettono a booking e tutto prende il sapore di una Disneyland al retrogusto del “menù turistico”, quelli dove non mangi ma ti riempi e ti rimane quella sensazione di pienezza senza che il palato sia realmente soddisfatto. Le città diventano “a misura di turista” e non “a misura di cittadino”, il turismo che usa ed abusa, consuma e sporca e se ne va lasciando i problemi a chi la abiti 365 giorni l'anno. Turismo e responsabilità spesso sono due rette parallele. Una bellissima intuizione, una regia fresca, una dialettica efficace per smuovere il dibattito.

Tommaso Chimenti

SANSEPOLCRO – Guardi il cartellone del festival di Sansepolcro e rimuovi il pensiero sul Covid e su tutti i danni che, a cascata, sta procurando (e la valanga che nei prossimi mesi porterà nuovi scompensi) al settore dello spettacolo. Un calendario fitto, pieno, denso, corposo, una settimana d'immersione tra le pietre antiche del comune di Piero della Francesca, che quest'anno compie i 500 anni dalla fondazione, e l'innovazione delle performance che, fin dal suo debutto-scommessa (ampiamente vinta), diciotto anni fa, Lucia Franchi e Luca Ricci, i due direttori artistici, scelgono, portano, accompagnano, supportano con un lavoro costante che ha la sua esplosione nell'ultima settimana di luglio ma che anche durante l'anno illumina di cultura la Valtiberina. Innovazione e Tradizione i due capisaldi sui quali ondeggia la rassegna dove è facile scovare le novità che saranno, le tendenze che si faranno, i gruppi alle prime armi in mezzo a consolidati fenomeni. Padrino omaggiato del festival un'icona del nostro teatro contemporaneo: Roberto Latini. A lui è stata dedicata una mostra, un convegno, un premio, le letture dei testi dei suoi allievi di un corso di drammaturgia internazionale, riprese di spettacoli storici; un successo. Piece fino a notte fonda tra chiostri e angoli ritrovati, riscoperti, fresche mura secolari dentro le quali cullarsi, nascondersi, sognare. “Viaggio al termine della notte” è l'insegna di quest'annata bislacca e bisestile, la notte c'è stata, c'è, dal sapore koltesiano, ma noi ci passiamo dentro, attraverso, non vogliamo averne paura e rimanerne esclusi, autoemarginati, lontani, un viaggio che non è di piacere ma è di conoscenza e scoperta, dantesco potremmo dire, fuori e dentro noi stessi, le nostre radici, le nostre comunità di riferimento, i territori, con consapevolezza e presa di coscienza. La notte dobbiamo illuminarla, con le torce della ragione. Nella nostra analisi ci soffermeremo su quattro interessanti proposte che, per ragioni diverse, ci hanno solleticato,Quotidiana.com-foto-di-Antonio-Ficai-5-2.jpg incuriosito, attirato, avvinto.

L'analisi della realtà, dei suoi conflitti e delle sue crepe sono i nodi sui quali lavorano da sempre i Quotidiana.com, duo riminese che sfalda la banalità, s'intrufola nei nostri tempi bui e grigi, tenta di dar luce (a volte fuoco) alle pochezze e piccolezze del nostro immaginario collettivo. Ci svelano, ci scompigliano, ci scuotono. La loro poetica è intrisa di cinismo e sarcasmo, di freddezza come di fine intelligenza. Questo “Tabù” ha per sottotitolo la frase più bella di tutta la drammaturgia: “Ho fatto colazione con il latte alle ginocchia” che ricorda la noia, espressa anche dalla loro (non) recitazione neutrale-candida senza accenti che spiazza, ma anche il sesso dal quale parte tutta la loro riflessione che diviene elenco dei non detti della nostra società che si ritiene così evoluta ma che, constatando soprattutto gli ultimi tempi, sta facendo grossi passi indietro in termini di tolleranza, accettazione, integrazione, libertà di pensiero. Sempre uno davanti all'altro, sempre graffianti, i silenzi così debordanti, quel sottovoce che quasi imbarazza. Il format è il loro marchio di fabbrica, il registro è riconoscibile, le risate, come le frasi ad effetto cariche di ironia sprezzante e di veleno, si sono ridotte, come asciugate. La narrazione è ancora acida, urticante nell'esporre il ventaglio di temi o termini dei quali è meglio oggi non parlare: la menopausa, la depressione, il suicidio, il fine vita. Esprimono meno potenza entusiasmante, sparano meno botti ma la disperazione di sottofondo è ancora lì a farci bestemmiare sottovoce. Sono grilli parlanti per una danza immobile, una placidità che le-baccanti2.jpgnon si fa morbidezza, parole incastonate low profile, rispetto al passato meno flash, meno gong, meno bang. La pistola però è ancora fumante.

Le Baccanti” doveva essere un ensemble a più voci e più corpi, che la pandemia ha tagliato, distrutto, ridotto. Ma Simone Perinelli e Isabella Rotolo, il gruppo laziale leviedelfool, non si sono arresi né fatti intimorire proponendo un solo del funambolo-performer Perinelli. Purtroppo queste “Baccanti” hanno avuto un sapore leggermente didascalico e hanno risentito, pur nell'accuratezza, come sempre, di suoni e luci e scene, di rimandi a spettacoli del loro recente passato. Sembrava di veder condensati parti e pezzi di vita scenica vissuta in precedenza: i microfoni laterali e quello che scende centrale, il sound di bassi ritmato che incatena il testo e lo abbraccia abbrancandolo, le maschere giapponesi e il ramo al sapor orientale raffinato. Si sentiva sul palato un mix, un rimando (volontario?), ad “Heretico” come di “Made in China”, ritornava a trovarci “Yorick”. Noi rimaniamo ancora legati sentimentalmente ai vari “Pinocchio” e “Do you want a cracker” come a “Macaron” dove la forza, che diveniva furia, di Perinelli era vero maremoto che squarciava l'abisso e sciacquava gli scogli delle coscienze. Il suo stile, robertolatiniano, è inconfondibile ma stavolta entrare dentro le sue parole, che nel frattempo hanno perso visionarietà e poesia rispetto a come ci aveva abituato, è stato complicato. Seppur meno punk e meno dirompente, continuiamo a riconoscere a Perinelli l'arte del palco, il mestiere dello stare in scena, il talento del padroneggiare le parole e i versi, la costanza tambureggiante, l'inventiva (che a tratti si trasforma in invettiva), il genio che qui, forse, è rimasto imbrigliato nel Mito che a volte esalta e a volte tritura, a volte ti fa Dio, altre ti fa vittima.

Altro attore di razza, Paolo Mazzarelli, si fa carico dell'ambivalenza, prende la responsabilità pirandelliana del doppio, dell'essere e dell'apparire, Soffia Vento 2 1280x731 1300x731condizione sine qua non dell'attore. In un confronto serrato e intimo, ironico a scandagliare i chiaroscuri del mestiere, gli equivoci e gli equilibrismi per non perdere bussola e orientamento, in “Soffiavento” si apre una botola sul grumo che ogni artista deve comprimere e sciogliere, come se una fresca brezza d'aria di una finestra lasciata aperta avesse scombussolato i fogli diligentemente catalogati, controllati e ciclostilati di una vita. Mentre sta recitando il Macbeth si scolla qualcosa dentro e dopo non può essere più lo stesso, qualcosa cambia irreversibilmente e non si può tornare indietro. Le crepe fanno acqua da tutte le parti e Shakespeare lascia il posto ad una seduta psicanalitica, in una orazione accalorata e tossica, una confessione lenitiva e catartica. Come i cocci giapponesi incollati con l'oro. Come le ferite felici che lasciano passare finalmente la luce in fondo al tunnel. Dostoevskiano nel suo cupo personaggio come salottiero, foriero di aneddoti immerso nei personali ricordi di una vita spesa sul palcoscenico. Pippo, il nome del suo personaggio, sente le voci. Ci è venuto in mente Pippo Delbono. “Avere tutto è perdere tutto”, le sue massime stilettano, sfidano, lambiscono, carezzano e schiaffeggiano il teatro nel teatro convincente di questo ruolo che si mangia la persona, nella disperazione che affoga e resuscita. Il perdersi come attore è un ritrovarsi come uomo. Un naufragio che diventa salvifico, una parentesi che lo sveglia dal torpore: “Un artista non ha una vita, un artista è quello che fa”, un turbinio, un sistema che schiaccia. Mazzarelli è efficace e persuasivo, stabile e solido, vero nella finzione.

Il Teatro dei Borgia ci ha abituato a situazioni non convenzionali, ad usare gli spazi in maniera originale, a pensare oltre e altro rispetto al palco, al teatro, alle idee da mettere in circolo. Dopo aver visto il loro D'Annunzio, nella bocca del leone della Fiume croata, la critica-elogio del Meridione nel monologo disorientante “Sud-Orazione”, e quella “Medea” in furgone che strazia pochi spettatori alla volta dentro un van alla ricerca dei luoghi più periferici, asfaltati delle città dove prostituzione e lampioni non sono oggetti di scena, adesso ci ritroviamo dentro un'immaginaria mensa dove un eroe moderno, “Eracle, l'invisibile”, Eracle.jpgci racconta ascesa al Paradiso e discesa agli Inferi nell'impotenza, nel gelo, nel constatare come la nostra società riesca, per paura e scaramanzia, a dar più ascolto alle voci, ai rumors, che alla sostanza, più ai pettegolezzi che all'oggettività. La vita di un professore integerrimo e preparatissimo (ci è balenata alla mente la pellicola “The life of David Gale” con Kevin Spacey, altro accusato, nella vita reale però), amato da colleghi e alunni che viene spazzata via da un'invenzione di una studentessa. Si apre il girone delle maldicenze, quelle che se le neghi le affermi, quelle che se stai zitto le confermi. Non c'è salvezza, non c'è pietà per un uomo mite e buono, impreparato ad affrontare i dardi del destino e le prove del mondo che lo vogliono piegare. Se nella prima parte il citazionismo la fa da padrone in un monotono colore di sottofondo c'è un crack, una virata, prima appena impercettibile che poi diviene deflagrante, come un vetro rotto in miliardi di pezzi infinitesimali senza possibilità di ricompattarsi. Nelle parole di Fabrizio Sinisi, per la regia di Giampiero Borgia, la presenza di Christian Di Domenico, mentre prepara il pane, mentre imbusta acqua e una mela per qualcuno che non riesce più a sostentarsi e a trovare un lavoro, è un groppo in gola nella sua faticosa rincorsa per riprendersi ciò che gli hanno indebitamente tolto con il raggiro, con la furbizia, con la stupidità. E quando un uomo normale entra nel vortice della Giustizia togliersi marchi infamanti dalla pelle è impossibile come cancellare tatuaggi con acqua e sapone. La sua recitazione è un escalation, un diesel che prende corpo e si fa strada a falcate verso il disastro che possiamo solo accogliere. Scende il gelo, cala il panico. Siamo tutti come l'Ercole che abbiamo davanti, un eroe sconfitto che più perde più non si dà per vinto. C'è sempre un briciolo di apertura, di possibilità alla non rassegnazione ma ogni brano, ogni frase è un blocco di cemento, un incudine a pesare ulteriormente sulla bilancia a suo sfavore. E non ci puoi far niente, e l'immedesimazione è possibile e plausibile e nessuno si può sentire al riparo: da vedere per capire dove siamo arrivati, fin dove ci siamo spinti. Ne usciamo umiliati, svuotati e i molti applausi scroscianti non ci tirano su il morale.

Tommaso Chimenti 22/07/2020

CAMPI BISENZIO – Ci sono bambini che non vogliono andare a scuola, vedi Lucignolo e di conseguenza Pinocchio, e bambini che invece ci vorrebbero andare eccome. E' successo ai nostri figli, nipoti, piccoli la cui socialità, soprattutto quella fondamentale dell'apprendimento e della condivisione e delle esperienze quotidiane con i coetanei tra i banchi di scuola, si è bruscamente interrotta il 9 marzo con l'inizio della quarantena. Da qui parte, intelligentemente e con uno spirito connesso ai nostri tempi storici, lo spettacolo “Carlotta e la valigia del dottore” a cura della compagnia pisana Guascone Teatro (i tipi che organizzano da anni le stagioni di Bientina e di Casciana Terme, che hanno inventato “Utopia del Buongusto” e che da un paio di edizioni mettono Sergio-e-Manola-Teatro.jpgsu anche Volterra: macchine da guerra) che ha vinto la ventisettesima edizione dell'importante festival “Luglio Bambino” (la direzione artistica è sempre del duo capace e altamente competente Manola Nifosì e Sergio Aguirre) dedicato al teatro ragazzi. “Carlotta” è risultato, secondo la giuria di esperti e giornalisti toscani del settore (il presidente Gabriele Rizza, Francesco Tei, Giulia Focardi, Tommaso Chimenti, Francesca Tofanari, Dante Bigagli, Barbara Berti, Pierfrancesco Nesti, Debora Pellegrinotti), il migliore sui quattro presentati all'interno del concorso, battendo così “Emanuela e il lupo” di Nata Teatro, “La principessa triste” di Trabagai Teatro e “Cuori di pane” dei Teatrino dei Fondi. Quest'anno il tema era “la gentilezza cambierà il mondo”, il delicato simbolo un bellissimo esemplare di elefante che tiene in alto con la sua proboscide un ombrello colorato per riparare in basso una piccola mangusta che, con le mani giunte, ringrazia.

Con una costruzione tutta basata sul teatro-canzone (alla chitarra Francesco Bottai dei “Gatti mezzi”, fior fiore di strumentista che poi, senza abbandonare le sei corde, si trasforma anche in medico con tanto di camice bianco nei suoi spunti pungenti ed acri) Adelaide Vitolo (sua la drammaturgia, mentre la regia è di Andrea Kaemmerle, sono loro due le anime pulsanti di Guascone Teatro) è una convincente Carlotta, questa dolce bambina che vuole assolutamente, necessariamente andare la mattina a scuola. Ma qualcosa glielo impedisce. Sta qui l'aggancio con la contemporaneità, con quel maledetto Covid-19 che ha interrotto azioni date per scontate fino a qualche tempo prima e che ci sono mancate terribilmente. Un colpo di tosse, poi uno starnuto. “Con la febbre e l'influenza non si può andare a scuola” dice perentoria la voce degli adulti e della coscienza. Carlotta lotta contro quella che lei ritiene sia un'ingiustizia perché la scuola è vitale, è gioco, è amicizia, ma alla fine capirà che per il proprio bene ed anche per quello dei suoi compagni-amici se si è malati bisogna curarsi al caldo di casa con le medicine, le compresse, addirittura le supposte e a volte, purtroppo, anche le iniezioni.

Il testo unnamed.jpgha una doppia lettura, una diretta, semplice per i bambini, un'altra più fine e sotterranea per gli adulti-genitori, qualcuno ogni tanto, nel teatro-ragazzi, pensa anche a loro. Le canzoni sono in rima con ritmi che coinvolgono, spigliate, osano senza paure, sfidano in un gioco veloce di battute, ironia e sarcasmo che si rincorrono in un susseguirsi di situazioni rocambolesche tra le quattro mura domestiche nelle quali, sicuramente, si sono rivisti sia i bambini alle prese con termometri e varicella, e i genitori a cercare di frenare l'esuberanza e l'istinto dei piccoli. manifesto_lugliobambino2020.jpg“Carlotta”, anche in relazione alle altre tre proposte del concorso interno a “Luglio Bambino”, ha un taglio attuale, come linguaggio e stile e messinscena, senza cedere a facili retaggi del passato: principesse e draghi, fiabe trite e scolorite o il lupo cattivo: i bambini hanno bisogno di sogno ma anche di realtà per potersi appassionare alle storie. “Carlotta e la valigia del dottore”, al gusto di filastrocca, insegna i bambini ad avere pazienza, che non si può fare tutto quando lo vogliamo, che esiste un tempo per giocare e un altro per riposare, uno per uscire e uno per curarsi, uno per andare e uno per restare, uno per correre e uno per stare a letto, uno per andare a scuola e uno per stare a casa.

Questa la motivazione del Premio: “La giuria di Luglio Bambino 2020 ha espresso un verdetto non unanime premiando la compagnia Guascone Teatro per lo spettacolo “Carlotta e la valigia del dottore”. Il livello di scrittura era inconfondibilmente più curato e strutturato rispetto alle altre produzioni presenti in concorso. Con leggerezza e garbo, la drammaturgia è stata coerente e plausibile accordandosi ai tempi di Covid-19 che i bambini hanno appena vissuto e subito. “Carlotta” gioca con la musica e con la forma del teatro-canzone, padroneggiandola, sfoderando un doppio binario di lettura, per i bambini e per gli adulti, con una fine ironia, intelligente e acuta. Inoltre le musiche originali di Francesco Bottai hanno supportato “Carlotta” nella sua scherzosa battaglia contro il dottore, donando al tutto un'atmosfera festosa con tocchi alla Bobo Rondelli”. Nella vita bisogna essere un po' Guasconi. Lunga vita a “Luglio Bambino”!

Tommaso Chimenti

BOLOGNA – Arrivi alle Ariette, dopo Monteveglio in questo spicchio tra Bologna e Modena, passeggi nel bosco, scruti le nuvole, tocchi l'erba, noti il verde e ti sembra impossibile associare la quarantena, o lockdown per i più esterofili, ad un tale stato di grazia, ad una tale apertura, ad un tale respiro. Qui dove tutto è ampio, lontano a perdita d'occhio e non riesci a contenere tutto il panorama con lo sguardo. Nessun senso di chiusura, di costrizione, di clausura, di recinto. Qui la quarantena, in Valsamoggia, la volontaria reclusione rispetto ad altri nostri stessi simili, è una condizione normale, consueta per il contadino che si sveglia all'alba e va a letto al tramonto e che ne ha di cose da fare, consueta per l'attore che prova e scrive e annota pensieri e parole che diventeranno il prossimo spettacolo. Appunto, attori e contadini, le due anime paritarie delle Ariette, gruppo che prende il nome dall'appezzamento, dalla terra sulla quale poggiano le mura del deposito degli attrezzi, trasformato in teatro, della loro abitazione, dei loro piedi e di quelli dei loro animali. Già, gli animali, la parte più vera e onesta, incapaci di fare il male per80191300_3097519597036384_8408984730230381835_o-890x500.jpg il male, più puri e ingenui, gli animali che sono i grandi protagonisti in questa inquieta fiaba noir, ultimo loro progetto che pare proprio scritto dalle loro sapienti mani e che invece arriva dalla penna della scrittrice francese Catherine Zambon, il testo-riflessione “E riapparvero gli animali” letto in uno dei tanti incontri zoom. Una volta letto se ne sono innamorati perché parlava di loro, a loro, e sembrava proprio essere uscito dalle loro dinamiche, dal loro stare in mezzo al mondo grazie al teatro, in mezzo alla natura e alla solitudine grazie all'amore per la natura e tutti gli esseri viventi.

Prima che si accendano le lucine, tra sagra di paese e Festa de L'Unità, a rischiarare la notte e il racconto, si cammina per i campi, per queste dolci colline, una passeggiata che è sempre salutare alla scoperta della fatica del coltivare, dell'impegno e dell'amore che ci vuole, quotidianamente e costantemente, senza pause, per far crescere verdura e frutta, curare e prendersi cura e finalmente essere ricompensati con la fioritura, la germinazione, i frutti. E' tutto un gioco di tensione tra il lavoro dell'uomo e la forza delle cose naturali, le intemperie e tutto quello che l'uomo non può controllare. Passiamo vicini ai pomodori come alle patate, alle zucche e zucchine ma sentire raccontare da Stefano Pasquini, nelle vesti di Cicerone, di coltivazione e arature rende tutto più concreto, tattile e allo stesso tempo poetico e sognante. C'è la fatica ma anche la soddisfazione,download.jpg c'è la gioia ma anche la durezza del lavoro manuale. E ancora un campo di asparagi e un pergolato di nocciole. E ci narra di cinghiali e ghiri, istrici e caprioli che apprezzano (come gli spettatori quando alla fine delle loro piece ci rifocillano sempre con preziose pietanze preparate, cucinate e coltivate dalle e con le loro mani) i loro campi e coltivazioni in un continuo equilibrio, sempre da rimodellare, tra l'uomo e la natura che non è sempre bella bucolica da cartolina ma a tratti è selvaggia e ruspante e rustica e ruvida.

Un inciso doveroso sulla compagnia Teatro delle Ariette: pare scandaloso che nei loro 25 anni di storia (hanno preso il podere nell'89, si sono formati come gruppo teatrale nel '96) non abbiano mai ricevuto o conseguito un premio, né l'Ubu, nemmeno quello “Speciale” (negli ultimi anni lo vincono in cinque ogni edizione), né l'ANCT, né Hystrio, né Rete Critica, né Le Maschere né l'Enriquez, un vero sacrilegio da colmare. Ritornano gli animali negli spettacoli delle Ariette da quel “Bestie” del 2006 visto a Volterra. Attorniati da un tramonto arcaico di nuvole rosa, l'odore forte d'erba medica, un barbagianni impagliato così come una volpe e uno struzzo recuperati in una scuola molti anni fa a fare da contorno.

La riflessione (in scena Paola Berselli) che nasce dalle parole della Zambon è tosta: in un futuro prossimo distopico, altre infezioni e virus si sono propagati soprattutto dagli animali che da allora sono considerati contagiosi, da denunciarne la presenza, fino all'eliminazione. In una sorta di Chernobyl, prima si è distrutta quasi completamente la fauna per poi riorganizzarla con le regole settarie ed asettiche dell'uomo che eliminando gli animali ha perso la sua componente vitale, il suo guizzo, la sua verve. Gli animali concepiti solo come carne da macello. Le persone che avevano abbandonato le città e che vivevano distanziate e lontane le une dalle altre in campagna. Una vita non vita. I randagi tutti abbattuti, sterminati. Non si potevano prendere aerei, né passare da una regione all'altra, né abbracciarsi, bisognava sempre essere rintracciabili e tracciabili. Insomma, il lockdown che abbiamo vissuto ma ancora più estremo e spalmato nel tempo. Questa pulizia radicale (ricorda la “soluzione finale” dei nazisti nei confronti degli ebrei) fa sì che la vita diventi sinonimo di paura, non più gioiosa, nell'abbattimento di qualsiasi forma vivente per timore che possa infettarci, passarci virus.

Quindi da una parte la quarantena, simbolo dei nostri giorni, dall'altra si apre invece il dibattito sulla presa di coscienza personale, al di là di quella civile e collettiva, su che cosa come individuo sia giusto fare, se rispettare alla lettera qualsiasi regola impostaci dall'alto oppure se pensare con la propria testa.E riapparvero gli animali.jpg La protagonista infatti parlando di sé ci dice che lei era silenziosa, stava nella massa silente, accettava senza prendere parte, senza protestare o alzare la voce, cittadina non attiva che si nascondeva dietro e dentro le regole. E qui viene in mente la poesia di Brecht “Prima vennero a prendere gli zingari...”. In questo mondo del futuro gli uomini erano contro le bestie, gli uomini contro gli uomini che volevano salvare gli animali, e infine le bestie si stavano ribellando contro gli umani. L'odio produce sempre frutti avvelenati. Un regime totalitario che vuole vietare, come pretesto la salute pubblica, assemblee, comitati, convegni, cortei, manifestazioni. Una favola metaforica che ci mette con le spalle al muro chiedendoci: “Tu da che parte stai?” e che cosa fai per affermare la tua idea. Un finale terribile e ancora più nero (da Fratelli Grimm) nel quale si evince che gli animali non sono fuori di noi ma sono una componente essenziale della Terra, insieme al mondo vegetale, e che gli uomini sono solo una parte del tutto e nemmeno la più importante.

Quell'uunnamed (2).jpgomo che si prende la briga di decidere (crede di essere Dio), regolamentare le altre forme viventi ad uso e consumo proprio. Gli animali sono la nostra parte più irrazionale e fresca, quella rimasta del fanciullo, della bellezza, del gioco, della vita per la vita e non del cemento e degli appuntamenti, dell'asfalto e delle macchine, dei telefoni e della tv, tutte cose inventate dall'uomo essenzialmente per ritenersi immortale. “E riapparvero gli animali” (tutti i mercoledì di luglio, replica speciale aggiuntiva giovedì 30) apre la discussione sul nostro futuro, sulla paura che ci divide, sulla militanza, sugli animali che sono la gioia vitale senza tutte le sovrastrutture che ci affaticano quotidianamente. L'animale non perde tutto il tempo che lascia per strada l'uomo moderno a preoccuparsi delle inutilità, delle futilità (è l'uomo che ha inventato non a caso l'orologio, per avere l'illusione di poterlo soggiogare dentro quadranti, lancette e agende e calendari) disperdendo il tempo nelle briciole. L'animale vive, mangia e tenta di scappare dai predatori, sentendo dentro di sé ogni attimo che gli scorre sotto pelle, non dando per scontata la vita perché sa che è dura e feroce. E' per questo che, mediamente, vivono meno degli umani, perché ogni secondo è pieno, non annacquato. Se, e quando, l'uomo si autodistruggerà, gli animali certamente torneranno, faranno tranquillamente a meno di noi.

Tommaso Chimenti 13/07/2020

NAPOLI – Il mare ti dà sempre una possibilità, un'opportunità di apertura, di cambiamento. Napoli ha una finestra sul mare e sullo sfondo c'è disegnato un vulcano. La cartolina perfetta, quella che disegnerebbe un bambino delle elementari. Napoli però non è una cartolina, che sarebbe noioso, è molto di più, è tutte quelle ombre che fanno sì che la luce sia abbagliante, deflagrante, punga gli occhi e riempia lo sterno. Napoli è totalizzante, è empatica, è sotterranea, o meglio sottocutanea, se ti entra sotto pelle non se ne va più, non ti abbandona più. Il Mal di Napoli al posto del Mal d'Africa. Quella euforia dell'arrivo, quella Saudade alla partenza. Gli scogli scintillano, il sudore è di quello buono perché finalmente possiamo respirare purificandoci dai 106597660_10213335565462015_7298196058042351379_o.jpglunghi mesi infami che ci siamo lasciati alle spalle. Il lungomare fino a Mergellina è una fortuna che se ci sei nato non consideri mai fino in fondo, la dai per scontata, ma è bellezza allo stato puro, tocca l'estasi, sfiora lo stadio del Nirvana. Decine di barchette, attaccate l'una all'altra, attraccate e agganciate, formano una sorta di isolotto di canotti e materassini e piccoli natanti. Qua i chioschetti di bibite e gelati, di birre e panini con le sedie bianche di plastica all'esterno, li chiamano “Chalet” e già ti immagini le piste da sci e la neve: cortocircuito. Ecco Napoli è un cortocircuito e non una contraddizione come da molte parti viene descritta. Cortocircuito perché ti inchioda, ti mette con le spalle al muro e ti fa pensare. La vita pullula, tutto è tanto, e santo, sovrabbondante, eccessivo.

Napoli che, dice l'uomo della strada, è un teatro a cielo aperto e infatti in questo stesso periodo, oltre al Napoli Teatro Festival, in concomitanza affiorano anche l'“AltoFest” dei TeatriInGestAzione e l'interessante rassegna “Racconti per ricominciare”, curata da Giulio Baffi e Claudio Di Palma, con percorsi di teatro dal vivo sparsi negli spazi verdi lontano dal capoluogo campano: Benevento, Casamarciano, Castellammare, Ercolano, Portici, Sorrento, Torre del Greco. Come numerosi e carichi, soprattutto numericamente, sono gli eventi di questa edizione del “Napoli Teatro Festival”, a luglio tutta italiana mentre a settembre con la sua coda internazionale: oltre 130 appuntamenti con la maggior parte delle piece con una data secca o al massimo due. Tanta quantità non sempre fa di qualità. Abbiamo lasciato Napoli e i suoi luoghi magici dove il festival è spalmato (soprattutto Palazzo Reale e la Reggia di Capodimonte) con i nostri appunti e il bilancio è stato un'attesa confermata e un'altra disillusa a fare da giusto contraltare.

Molte ANDREA-DE-ROSA.jpgaspettative erano riversate, sulla carta, da “Nella solitudine dei campi di cotone” di Koltes, testo che sprizza materia e letteratura, sentimenti e crudezza nell'ascolto, per la regia di Andrea De Rosa. Nel testo si fa riferimento a due uomini che si incontrano ad un orario imprecisato della notte in un luogo-non luogo tra il periferico e il metaforico. E le messe in scena che in questi trentacinque anni (è del 1986) presentavano sempre due attori uomini sul palco (abbiamo ricordato più volte sulle nostre pagine del memorabile cult con Fulvio Cauteruccio e Michele Di Mauro) a dividersi i bocconi sanguinosi delle parole del drammaturgo francese. La novità stavolta era che i due protagonisti, le due facce della stessa medaglia, erano una attrice, Federica Rosellini, e un attore, Lino Musella. Sulla bravura e sul valore dei due, visti i curriculum e avendoli apprezzati più volte dalla platea, non aggiungiamo niente dandoli, giustamente, per scontati. Qui, però, purtroppo, entrambi fuori parte non aiutati da una regia che li ha lasciati, abbandonati e naufraghi e travolti dall'ammasso potente e pesante del testo.

Perché mettere un'attrice nel ruolo di un uomo senza modificare leggermente il testo che in più parti continua a suonare: “Due uomini”? Perché il costume dell'attrice è un vestito ampio con gonna gonfia “ottocentesca”? Se la regia ci è sembrata poco curata e al limite dello sciatto (sicuramente anche per colpa della pandemia che certamente non ha aiutato le prove), è proprio questa scelta iniziale, peraltro curiosa, che a catena e a valanga, si è portata dietro altri punti dolenti. In primo luogo l'ascolto del testo che trasuda carne e sangue e che qui è divenuto esercizio edulcorato, testo che è tensione continua, coitus interruptus tra ciò che vorrei e quello che non posso o non mi permetto o concedo di fare, testo che è guerra e guerriglia di denti e unghie, che è aggressione e morsi, che è viscere, cNella solitudine.pnghe è marcio e sporco, lurido, fangoso e che invece è risultato spompato e arido, senza vena, senza verve, svuotato, prosciugato. Il senso, e l'immaginario, cambia radicalmente se nel bosco ci sono due uomini, un Compratore e un Venditore, oppure se vediamo una donna e un uomo. Un testo che è violenza, che è strappi e predominanza, che è foga, possesso e ansia, che è asma e fame, voglia e distruzione, desiderio lancinante e tortura interiore, smembramento senza pace alcuna, paure indicibili, timori inconfessabili. Diventa invece un bell'esercizio, una “operazione” troppo candida, si perde l'arroganza e tutto il gioco, sublime e devastante, della soddisfazione e dell'insoddisfazione che si cercano, si rincorrono e tentano di afferrarsi, si sfa, si liquefà, diventa acqua di montagna e non fiele velenoso, è balsamo e non bile. Anche la provocazione fa un passo indietro così come l'eccitazione proprio perché manca l'acido, il contraddittorio, la frattura, il fremito, il bruciore, il fuoco dell'illecito e del proibito che si scontrano con il pungolo e lo stimolo della morale consentita e condivisa. Non si percepisce la febbre né l'istigazione, l'ansimo di perdersi in un territorio sconosciuto, la vergogna. Il testo più che passione è pelle e polpastrelli ed è riduttivo parlarne a riguardo soltanto in termini di seduzione o sensualità. Ma qui risulta formale, preciso, oseremo dire borghese senza che emerga la disperazione e la putrefazione delle quali è intrisa ogni virgola. E', dovrebbe essere, avrebbe dovuto essere, uno sprofondare continuo in sabbie mobili sporche, un annegare in un limbo dove le regole non hanno più un reale senso. Un testo che disarma, violenta, azzera e scarnifica. Le tenebre e l'oscurità che emergono dalle parole concatenate di Koltes s'impigliano in una parentesi nella quale non si percepisce la ferita né la sofferenza. Manca la polpa e la crudeltà, l'impotenza della colpevolezza, i pugni alternati alle carezze ma soprattutto non abbiamo riscontrato quell'invisibile filo sottile che cuce piacere e dolore, sadismo e masochismo, l'usare e l'abusare.

E' il piacere, l'edonismo fuso con il voyeurismo, il fil rouge che ci porta all'icona Moana Pozzi, pornostar che ha travalicato il suo settore diventando oggetto di studio, fenomeno d'analisi socio-politico e non meramente corpo da giornaletti appiccicati e pellicole d'ansimi. Ci siamo fidati della regista Nadia Baldi che abbiamo conosciuto artisticamente con “Ferdinando” e che non ci ha certo delusi. Il testo, del direttore del festival Ruggero Cappuccio, si muove sul doppio binario della realtà, ma anche terrenità e ancora materialità, e quello onirico, filosofico, trasognante. Siamo in uno spazio a metà strada tra uno studio televisivo, un talk show (Moana era spesso ospite di Maurizio Costanzo e non certo per parlare di kamasutra), e il Paradiso, una confessione o un'intervista. E gli intervistatori siamo noi pubblico aspSettimo 2.pngiranti guardoni dal buco della serratura delle vite degli altri per compensare le mancanze frustranti nelle nostre. “Settimo Senso”, oltre il sesto senso e puntando al settimo cielo, ci mostra una Moana in rosso (come la Signora del celebre film) e ci ha fatto apprezzare la sofisticata e partecipe Euridice Axen (tante fiction e serie tv nel suo curriculum, da “Centovetrine” a “Vivere”, da “Carabinieri” a “Coliandro” fino a “The Young Pope”) vera forza catalizzatrice, ago della bilancia che attira a sé tutta la potenza delle parole della drammaturgia per trasformarle e, imbevendole di charme e cinismo e crudeltà o soltanto semplici verità mai patinate, rilanciarle con ancora più fragore. Axen-Moana è imprendibile, fagocita come buco nero tutto l'intorno, ti costringe a non staccarle gli occhi di dosso: “Se ero più morta da viva o più viva da morta?”.

Ogni frase è una stilettata e la risata successiva, suadente ed erotica, sarcastica ed autoironica, senza farci sconti, non fa altro che aumentare l'imbarazzo del pudore del senso comune, quella morale che da una parte la condannava e nel chiuso delle case la osannava inneggiandola. Non si può scindere la figura di Moana da quella di Marylin e qui le due star a tratti si assomigliano, si sovrappongono, Settimo senso.jpgentrambe incomprese, a volte volontariamente: “Recitare la parte della cretina paga bene”, ci dice. Oscilla tra bambolina di carillon e consapevole presa di coscienza che mette a nudo i nostri desideri e pulsioni: “Che cos'è osceno?”, ci chiede, “Che cos'è realmente pornografico?”. Stella tra le stelle e i luccichini che si animano e si agitano sul fondale dove a volte sembra abbandonata, sola in questo auto-necrologio, una bambina nel suo eremo a protezione, come a dirci: “Se in me vedete solamente il corpo è un vostro problema di miopia”. C'è quella desolazione che ci lascia senza punti di riferimento. Ma Moana non chiede né perdono né scusa, non ne ha bisogno, la sua è più una lotta contro il perbenismo, crociata contro l'ipocrisia dilagante e la Axen è equilibrata nel non farne un'agiografia ma neanche un'imitazione o una parodia, la sua versione è personalissima e carica e riuscita. Ne esce fuori una seduta spiritica dove Moana a tratti si trasforma in una Sarah Kane, prima di richiudersi a bozzolo dopo essere stata farfalla per tutta la vita: “Noi siamo solo ciò che ci manca”, ci congeda, quasi con una carezza.

Anche con i vari distanziamenti il Teatro non perde la sua magia che rimane intatta, inalterata appena si spengono le luci della platea. Se uno scoglio non può fermare il mare non vedo perché un virus possa fermare il Teatro.

Tommaso Chimenti 09/07/2020

Domenica, 05 Luglio 2020 06:57

Campsirago: alla ricerca del vero noi

CAMPSIRAGO – Brianza felix? Il dubbio sorge spontaneo tra la pulizia delle strade che fa molto Svizzera (siamo ad un passo) e quel provincialismo che invece evoca la fabbrichetta di un tempo dorato ormai lontano. Il verde esonda dai lati delle strade e sembra volerselo fagocitare l'asfalto che in mezzo taglia questo colore potente, quasi aggressivo che si gonfia e travolge. Fioccano le zanzare tra i boschi rigogliosi che incutono rispetto. Zone di trekking, di ville e villette, di cancelli che si chiudono e cani abbaianti, di giardini curati ma vuote, di dondoli immobili, di altalene spostate impercettibilmente solo da aliti di vento. Per arrivare a Campsirago si passa da Arcore ed è sempre un colpo straniante vedere un luogo anonimo ma simbolo degli ultimi trent'anni della politica, della storia italiana. I cartelli che più si notano passeggiando per queste strade sono “Proprietà privata”, “Divieto di accesso”, “Attenti al cane”. Siamo in zona “Capitale umano”. C'è uno strano incastro tra l'opera dell'uomo, asfalto e cemento, e questa Natura selvaggia, che implode, prorompente, che gorgoglia e s'aggroviglia. Appena ti inerpichi un po' ci sono cascatelle e piccoli fiumi ma l'atmosfera non è bucolica, c'è un qualcosa di sottofondo che sfugge, una linea che non si riesce bene a tratteggiare, qualcosa che è lì ma non riesci completamente ad afferrare, a decodificare. E' la “Brianza velenosa” della quale parlava Lucio Battisti.

I grilli fanno da accompagnamento mentre senza Autan sei un uomo morto. Il grigio del bitume e questo verde abbondante che invade e assale, in perenne lotta con l'uomo. Siamo in zona di bresaola. Siamo in zona, purtroppo, di Covid, in un possibile triangolo tra Milano, Bergamo e appunto questo “ramo del Lago di Como”. Sopra i boschi, che sono cupi e neri e gonfi e folti e pesanti come scarponi nel fango, c'è un cielo che ha l'umore di femmina, repentino nel suo mutare tra sole battente e scrosci improvvisi. Quassù, da sedici anni, c'è una comunità che cammina, che va, che non si ferma, una tribù che si muove al ritmo lento della natura, che si inerpica per sentire e raccontare storie, per ascoltare e donare tempo, esperienze, momenti. Il simbolo dell'edizione di quest'anno de “Il Giardino delle Esperidi” (dal 27 giugno al 5 luglio) è, non a caso, una volpe con gli occhi spauriti e, allo stesso tempo, curiosi. L'ambiente, il territorio e l'ecologia qui vanno di pari passo, insieme, a braccetto, con la sperimentazione artistica, con il teatro, con il palcoscenico: inscindibili esigenze che a queste latitudini trovano la loro sponda, la loro ragion d'essere. Non ci può essere arte e bellezza senza il rispetto della Natura e degli altri esseri viventi.omini2-scaled.jpg

Dopotutto nella mitologia greca le Esperidi erano le custodi del giardino dei pomi d'oro di Era. I valori che qui regnano sono il silenzio, il rispetto di tutte le forme di vita, l'ascolto reciproco, le piccole cose, i piccoli numeri. La parola, abusata, “resilienza” a Campsirago (borgo in pietra del 1600 di trentasei anime a venti minuti di curve in salita dal primo centro abitato, dal quale, se non c'è foschia, si vede il Pirellone di Milano) non solo è doverosa ma anche centra in pieno l'obbiettivo. Tra “discese ardite e risalite” abbiamo potuto assaporare e assaggiare la linea contemporanea e quella intimista espressa dalla direzione attenta (alle persone, all'accoglienza, al contatto umano, al sentire) del direttore Michele Losi, la prima contenuta nella carica fervida, pungente e che sconquassa degli Omini, la seconda con due piccoli, e per pochissime persone, “attimi” estrapolati come un morso alla fretta del nostro tempo: prima “Hamlet Private” delle Scarlattine, uno a uno con il pretesto del Principe di Elsinor ma con l'intento di scavare nel proprio intimo, la seconda con la camminata-spettacolo “Alberi Maestri”, toccante, semplice, profonda, totale.

Gli Omini tornano ad uno dei loro spettacoli di successo, cavallo di battaglia del recente passato con una versione 2.0 della loro “Asta del santo” di una decina d'anni fa diventa, anche causa distanziamento sociale e pandemia, “La coppa del santo” dove l'interazione del pubblico non è più tattile, con le carte tipo Mercante in Fiera o con i soldi tipo Monopoli, ma è una partecipazione, sentita, rumorosa, di voce e pancia, di urla e canti, una gran bella festa per celebrare in allegria il ritorno al teatro, il ritorno in una sala teatrale. Le trentadue carte dei santi, tutti disegnati sulle fattezze di pesci apostolici, si sfidano fino a nominare la carta del Santo campione, ed ogni sera il vincitore è diverso perché è il pubblico che decide con la democrazia dei decibel che riesce a proiettare sul palco. Mentre Giulia Zacchini sta alla consolle (la compagnia adesso è di tre elementi), il sacerdote, Luca Zacchini, è un imbonitore, un presentatore che tenta di magnificare la mercanzia, mentre il sacrestano, Francesco Rotelli, canta, mette la musica, balla sul cubo ed è una spalla perfetta nell'innescare questo prete-battitore libero. Come un campionato del mondo dei beati, ci sono le fasi eliminatorie, Martiri contro Crocifissi o Santi di Strada contro Santi d'Aria, ed ogni spiegazione trova nelle pieghe del reale o del raccontato dalle Scritture quel germe di grottesco, d'assurdo che porta intelligenza felice e sarcasmo mai fine a se stesso. Di fondo la critica, nemmeno così velata, all'istituzione Chiesa e alle parabole comprese nei Vangeli, su Gesù oppure è scatenata nei confronti di Padre Pio, emerge pungente e acida. Nel mezzo può partire un brano di Marcella Bella come un ritmo sexy che il diacono balla sfrenato rimanendo in boxer, o Battisti, Tenco e Mia Martini per sottolineare San Remo. La Coppa finale è il Sacro Graal. Divertimento assicurato: lunga vita agli Omini.

Se è il pubblico, Hamlet.jpgla folla la forza della performance del gruppo pistoiese, in “Hamlet Private” si riscopre il calore di una conversazione a bassa voce, uno scoprirsi lentamente assieme alle carte, quasi un farsi fare le carte, quasi un solitario, quasi tarocchi. Un tavolino, che pare quello iconografico delle sedute spiritiche, in un incontro uno ad uno (uno spettatore e un performer), per evocare gli spiriti di Amleto (il padre) e i tanti che vivono, circolano, abitano dentro di noi e che mettiamo a tacere nella fretta delle cose da fare nelle nostre agende piene zeppe di eventi che sembrano inderogabili e irrinunciabili. C'è la colonna del nostro essere e quella del desiderio e nel mezzo tra le due quella del ponte per raggiungere da una l'altra. E' un gioco a pescare dentro di sé ricordi e traumi e, se uno ha voglia di raccontarsi, riuscire a tirare fuori, con un perfetto sconosciuto (in questo caso la sensibile ed empatica, accogliente, riflessiva ascoltatrice Giulietta De Bernardi), cose mai dette ad essere vivente. Una nenia in sottofondo ci tiene sospesi in un anfratto, parentesi del mondo reale; qui adesso viviamo nel sogno ma anche nel teatro e siamo noi gli attori, viviamo in Amleto ma non siamo certamente lui, viviamo i nostri ricordi, i nostri errori, ci analizziamo senza più scusanti, senza un pubblico al quale dare ragione o torto, senza alcun giudizio, senza salvezza né condanna eterna. Siamo uomini, siamo deboli e fragili, miseri e fallaci, sbagliati e terreni. Il nostro Caronte-croupier gira le carte, la fortuna e la sorte ci vengono incontro, ogni carta ha i suoi lati solari come quelli ombrosi e cupi, e la palla passa a noi se ci vogliamo confrontare su una materia ostina e complicata come noi stessi, tema nebuloso e doloroso. C'è chi esce dall'incontro cambiato, chi stravolto, chi ha pianto, chi si è commosso, certamente non se ne rimane neutrali, smuove, scuote, sposta, è un respiro che ci aiuta, che ci fa riflettere e pensare, è utile e necessario. “Hamlet Private” è il tarlo nel tavolo, sono le domande ricorrenti, sono le porte socchiuse che abbiamo paura di riaprire, sono le scelte non affrontate, è il timore di sbagliare, ma è anche la consapevolezza di chi siamo e di chi, con impegno siamo voluti diventare, è un cammino senza fine perché non conta la meta se non ti godi il viaggio.

Viaggio è anche quello, effettivo ed interiore, connesso agli “Alberi Maestri” (testi confortevoli ma non confortanti di Sofia Bolognini) esperienza commovente hamlet-private.jpge toccante che porta lo spettatore a sentire parti nascoste, a pensarsi in relazione alla Natura circostante, non più individualista ma parte di un tutto gigantesco, infinito come la vita sulla Terra. In questo mondo mercenario e mellifluo che ci vuol far credere che siamo unici e insostituibili “Alberi Maestri” ci riconduce, anche attraverso la fatica del cammino in salita, al nostro essere piccoli, microscopici pezzi di un puzzle miracoloso che ha sulle spalle milioni e milioni di anni e che noi rischiamo di compromettere, distruggere, annientare perché miopi che non riescono a guardare oltre la punta del loro naso. Un piccolo manipolo di persone seguono un Cicerone nel bosco, ognuno ha delle cuffie (come “The Walk” dei Cuocolo/Bosetti o “Walking Therapie” del Teatro di Rifredi) nelle quali va on air un racconto che ci parla di vita e di morte ma senza tanti fronzoli poetici, ci racconta della vita degli alberi, ci fa sentire soltanto il rumore dei nostri passi e il battito del nostro cuore che si mischia al ruscello, all'uccello, alle foglie secche, agli insetti che fanno il loro giro e se ne fregano del domani vivendo il loro presente. Evidentemente l'uomo si è perso qualcosa per strada, ha pensato di essere il più furbo dell'Universo, ha pensato di poter soggiogare tutto, controllare tutto. Gli alberi sono i custodi del bosco, e il bosco è ossigeno, e l'ossigeno è la vita, la nostra dipende dagli alberi ma continuiamo ad abbatterli. La guida (Michele Losi stesso con affabilità silente e mai invadente) ci fa guardare, per molti di noi è la prima volta, da vicino un albero, ci fa sentire la corteccia, toccare le sue rughe profonde. Non siamo ai livelli hippie di abbracciare i fusti e i rami. La narrazione che si spande è sul doppio binario tra il camminare, il muoversi e lo stare immobili, ovvero quello che noi crediamo che facciano gli alberi. Anche se essi si muovono eccome, in alto, orizzontalmente si espandono, crescono, affondano con le radici. Ma noi ciechi non ce ne accorgiamo: “Fa molto Alberi.jpgpiù rumore un albero che cade che mille che crescono”.

“Alberi Maestri” ci dice di prestare attenzione a tutto ciò che ci circonda, a non dare per scontato niente, a non essere arroganti con gli altri umani così come con le altre forme di vita che ci circondano, ti mette in relazione con l'intorno, ti fa sentire una parte del tutto, essere razionale in mezzo a tanti altri esseri razionali che meritano il tuo stesso rispetto. E' un ritorno alla semplicità, alle origini senza però rinnegare il nostro tempo e le sue conquiste, il progresso; non si tratta qui di abiurare la modernità. E' un piccolo pellegrinaggio che ti mette in contatto con te stesso, col chi sei, col chi c'è sotto la scorza di sovrastrutture e retaggi, sotto nozioni e futilità. Nel bosco, tra felci e ortiche, perdi il tuo status, il cognome, la professione, l'età: sei soltanto uno che cammina, che fa fatica per raggiungere un punto fuori da sé e anche, finalmente, raggiungersi, trovarsi. Il bosco è una soglia dalle apparizioni continue, dalle scoperte, dove un passo non è mai uguale all'altro, dove devi sempre essere vigile e attento, dove tutto scorre, si muove: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre ma nell'avere occhi nuovi”, diceva saggiamente Marcel Proust. Al mondo vegetale dedichiamo sempre troppo poco del nostro tempo. E non consideriamo le radici che si “parlano” e si accarezzano sotto terra, non consideriamo che gli alberi hanno quindici sensi e non cinque come noi poveri mortali, che gli alberi vivono centinaia o anche migliaia di anni, che possono rigenerarsi. Gli alberi non hanno fretta, non fanno corse, non sono in competizione, sono lenti ma tenaci: “Mi hanno sepolto, ma quello che non sapevano, è che io sono un seme”. Dovremmo imparare dagli alberi, a non avere gerarchie, a vivere in una democrazia orizzontale. E mentre cammini, affaticato e sudato, immerso in tutta questa vita, non controlli l'orologio, non ti chiedi “Ma quanto manca?!” ma finalmente vivi, senti, ti riconnetti alle tue particelle più profonde. Campsirago è un tocco all'anima, contro ogni ego, votato al noi rifuggendo l'io.

Tommaso Chimenti 05/07/2020

L’esagerazione clownesca può dare frutti maturi e buoni perché la buona riuscita di uno spettacolo non è appannaggio esclusivamente di una lettura seria e drammatica. L’"Amleto al quadrato" di Filippo Timi, protagonista della pièce e direttore di se stesso, è un piccolo carnevale pop travestito da fiera della vanità al suo crepuscolo (degli uomini, non degli dèi). Chiuso in una gabbia che rappresenta la sua condizione di prigioniero del fato e delle trame di corte incastrato tra la volontà – chissà quanto sentita – di azione e la staticità prodotta dalla ruminazione del pensiero, l’Amleto di Timi è l’ultima disperata risata godereccia sul bordo della morte. Il principe di Danimarca si rivela per quello che è, un povero burattino infantile pieno di vuoto interiore e vittima delle circostanze che vive nell’ambiguità delle età della vita – ora figlio, ora uomo – e dell’identità, principe per diritto ereditario a cui non importa nulla della corona e omosessuale neppure troppo mascherato, col volto sbaffato di rossetto cremisi e l’ampia gonna da regina madre, che a Ofelia preferisce il fratello Laerte. Ma quest’ Amleto non è un grumo di nevrosi che gli danno le convulsioni sull’orlo del collasso, è anzi vita pura e insieme sedotta dal vizio e dall’invincibile impotenza degli uomini di fronte all’esistenza che sull’orlo di questo collasso sceglie di giocare con la corruzione e con l’innocenza.

La performance dell’attore e regista perugino è un alternarsi sincopato di movimenti veloci e altri lenti e solenni, di tecnica canora ora virtuosa ora dissacrante, che ne esalta le doti espressive, fisiche e vocali, in un salto continuo tra il ruolo del serio, addolorato nichilista vinto dal marcio in Danimarca e il bambino-folletto-dio Pan che si fa beffe della vita, della morte e del senso ultimo di tutte le cose facendo volteggiare ancora il lume della follia che è l’ultima scintilla di vita. E la musica stessa dello spettacolo segue questo ritmo spezzato e schizofrenico, tra canzonette leggere degli anni Settanta e dei solenni, funerei, movimenti di classica. L’Amleto alla seconda di Timi segue una costruzione drammaturgica che trova nell’attore e regista perugino il proprio fulcro, piuttosto che essere un rifacimento fedele, o ispirato, del testo scespiriano. L’Amleto principe danese non è altro che un trampolino di lancio per mettere a nudo, in tutti i sensi, l’io del Timi reale: i suoi pensieri, il suo orientamento sessuale, le sue parole, alcune volte profonde e in altri casi molto inclini alla risata facile e volatili. Così come quei palloncini neri che spiccano accanto al trono della follia e riempiono il palco, con il nastro della polizia che funge da cordicella: un elemento scenico che impregna la scena di una dimensione funerea.

Nel festival delle citazioni pop, il momento in cui Amleto/Timi gioca con il palloncino sembra riportarci alla memoria la scena madre de “il grande dittatore” di Charlie Chaplin, nel quale la follia nazista di Hitler si rovesciava nella parodia di un uomo matto e buffo che gioca con un pallone mappamondo. Solo in poche occasioni i costumi ci forniscono una dimensione temporale legata all’ “Amleto” originario, ma tutto ciò ha poca importanza ai fini di una messa in scena che tende al gioco, tra attori e pubblico e tra gli attori stessi, e che si trasforma in metateatro puro. La dimensione ludica si nota anche nella scena finale, con l’attore che esce fuori da una tenda e una porta tipicamente circensi. “Resta solo il silenzio” pronuncia una Marina Rocco/Marylin Monroe comicamente tragica in chiusura, ma questo, il silenzio, arriva dopo un’ora e mezza di spettacolo di risate e spunti di riflessione offerte al pubblico da un Filippo Timi mascherato da Amleto.

“Amleto al quadrato” di Filippo Timi è disponibile sul sito di RayPlay

Giuseppe Cambria
Lorenzo Cipolla

 

 

A cavallo di un unicorno, smaliziata, provocatoria: ecco Elena (Barbara Chichiarelli) impegnata nel suo prologo acceso come le fiamme che stanno finendo di bruciare su Troia, in un’atmosfera ruvida e punk come le note di apertura dei Nomatars nella loro personale versione di Yellow Submarine”dei ben più famosi The Beatles. «Io sono quella per cui è iniziato tutto», è la premessa quasi autocelebrativa, che comincia a segnare il distacco dell’opera di Antonio Latella rispetto a quella euripidea. Il cavallo di legno, parto dell’astuto Ulisse, ha compiuto il suo dovere, e la vendetta di Menelao (Ludovico Fededegni) si è abbattuta sugli abitanti di Ilio.  

Il secondo movimento di Santa Estasi. Atridi: otto ritratti di famiglia alza il sipario (seppure virtuale, in scena il 24 maggio 2020) al suo pubblico, mettendolo di fronte all’invettiva lanciata nei confronti della donna attraverso i tormenti e la rabbia di Ecuba (Giuliana Vigogna), moglie dell’ormai defunto re Priamo. «Quale sarà il destino delle donne troiane? Essere schiave del nemico?», si domanda la vecchia regina, mentre invoca le Erinni e maledice i Greci con voce straziante. Nessuna speranza da demandare alla progenie di Ettore, che in cerca del benestare della nonna si atteggia ad eroe pronto a vendicare il sangue paterno, come un bambino incapace del pensiero stesso della guerra. Il palcoscenico scelto da Latella è un vero e proprio salotto familiare minimalista, dove si consumano i risvolti tragicomici dell’inganno concepito dalla dèa Era, ovvero quello di aver creato “un fantasma dotato di respiro, un vuoto miraggio” in tutto simile a Elena. Esiste davvero la donna che insinuò Paride e divenne, banalmente, il pretesto di una guerra, di cui altro non restano che lutti e sofferenze?

Il coro delle donne si riunisce in un’unica grande dichiarazione: «Tutto questo mi fa paura. Mai avuto paura! Odio il mio nome! La storia che voi conoscete è tutta inventata, è stata la mia ombra. Smettetela di dire che sono una tr…!». Ecco la vera Elena, quella di Euripide, colei che mai venne meno ai propri voti nuziali e fu nascosta da Ermes in Egitto, presso il re Proteo. Mentre il bandolo della matassa sordida degli dèi viene sciolta in un susseguirsi esagitato di domande, risposte, beffe e timori, un lamentoso e incredulo Menelao - sopravvissuto alle peripezie del mare - naufraga proprio sulle terre ora governate da Teoclimeno. «Mia moglie, sì, è tutta colpa sua!», mentre le “mille voci” di Elena si interrogano sul futuro, progettando la morte pur di non cedere alle trame del re d’Egitto che la vorrebbe in sposa. L’inganno finale si compie: Menelao riesce a fuggire insieme alla sua fedele moglie, la vera Elena.

Ma cosa resta veramente di tanto sangue e strazio? E’ forse libera o ancora succube degli uomini, la donna la cui identità sembra non distaccarsi da quella di colei che soffiò sulle braci di Troia? Quale libero arbitrio esiste, se persino la concezione stessa dell’amore, come della guerra, non è niente di più che un misero pretesto escogitato dagli dèi per manovrare a loro piacimento la vita degli uomini?

L’Elena di Latella è una finestra aperta sul senso della libertà, della sua esistenza, che persino in questa rivisitazione moderna del classico euripideo lascia gli spettatori tra dubbi e incertezze: “scoperti” come i corpi degli attori/attrici cui la tragicommedia è stata affidata. E l’unica cosa che resta da fare, in un ultimo, desolante gesto da moglie annoiata della Elena/Chichiarelli, è arrendersi all’inevitabile.

 

Santa Estasi. Atridi: otto ritratti di famiglia è nato nel 2016 dal Corso di Alta Formazione che Antonio Latella ha condotto per Emilia Romagna Teatro Fondazione dirigendo sedici attori e sette drammaturghi, ed è divenuto un vero e proprio caso teatrale. Dal 23 maggio, ogni giorno alle ore 18.00 sarà online un nuovo capitolo fino a domenica 31 maggio, data in cui sarà possibile assistere agli otto spettacoli in forma di maratona dalle ore 15.00. I video, a cura di Lucio Fiorentino, rimarranno disponibili nella pagina ERTonAIR fino al 30 giugno.

Jacopo Ventura  26/05/2020

Se la cultura e l’arte hanno un compito, questo è di agire sull’uomo per cambiare il suo rapporto con la realtà. Un’esperienza di mutamento che passa prima dai sensi, la visto e l’udito, poi dall’emozione, gioia o disgusto, e infine si tramuta in consapevolezza. Da alcuni anni Enzo Cosimi, coreografo romano classe 1958, illumina zone d’ombra dove il nostro occhio solitamente non cade, per disattenzione o vigliaccheria o persino semplice abitudine ed assuefazione, con un discorso sperimentale che ci afferra per il nostro bavero interiore e scuote l’animo. Una commozione a cui fa seguito una presa di coscienza di una realtà fragile, dolorosa, intima rimasta oscurata e che ora, dopo esser venuta alla luce e quindi rinata, può cominciare a camminare con noi, dentro di noi. Il pubblico del Teatro Biblioteca del Quarticciolo, quartiere di Roma est, ha visto sfumare l’occasione, per via delle misure di contrasto al Covid-19, di vedere sul palcoscenico della sala una di quelle opere che certo rinnovano il nostro punto di vista sul mondo. Ovvero La bellezza vi stupirà. Spettacolo che parla di ed è interpretato da donne e uomini senza fissa dimora e primo quadro della trilogia Ode alla bellezza, dedicata alla scavo nelle vite relegate ai margini o nascoste al (pre)giudizio degli altri, iniziata nel 2015 con questa pièce e seguita da Corpus Hominis (2016), storia di un amore omosessuale tra una persona anziana e un uomo più giovane, e I love my sister (2018), racconto transessuale del passaggio da donna a uomo, è diventato il tema del primo appuntamento dell’iniziativa Ritratti d’attualità, l’intervista-dialogo tra la giornalista e critica della danza Marinella Guatterini e Cosimi trasmesso in diretta sulla pagina Facebook del teatro. Il coreografo contemporaneo, spiega la giornalista descrivendo il pensiero e l’opera dell’artista, lo è in quanto è capace di guardare dentro ogni aspetto e ogni anfratto della realtà che lo circonda, si apre agli stimoli provenienti da altri ambienti e al lavoro dei suoi colleghi. Soprattutto è in grado di mutare il suo linguaggio. Quella di Cosimi è una sfida e un’esplorazione costante che scopre temi scomodi e coinvolge spesso performer non professionisti, elemento innovativo che fu tutt’altro che ben accolto da una certa critica culturale agli inizi della sua carriera negli anni Ottanta. Poi Guatterini porge la prima domanda sulla genesi di quest’opera e, per esteso, da quale bisogno è scaturita l’intera trilogia.

Le tre produzioni nascono da un’indagine su vite invisibili, relegate ai margini della nostra considerazione perché in qualche modo avvertite ancora come irregolari, degli scarti dalla norma, che per quanto diverse sono accomunate dal dolore che si prova ad essere giudicati. Nell’alternanza tra domande, spunti, guizzi e risposte Cosimi affronta aspetti tecnici, umani, di metodo, senza dimenticare la finalità di questa produzione dell’intera trilogia: “Voglio dare un nuovo sguardo su queste persone. Sono tre lavori di cui vado fiero e penso che negli anni possano essere visti con maggior oggettività e maggior empatia”. Il coreografo ha ripreso l’idea de La stanza del principe, una revisitazione del secondo atto del balletto Il lago dei cigni in cui il personaggio del principe perde tutti i suoi connotati regali, messa in scena con persone senza fissa dimora. Questo “racconto fiabesco”, illustra Cosimi, prende vita grazia alla collaborazione delle associazioni che si occupano di chi finisce in strada e li trasforma, almeno per il tempo della rappresentazione, “in re e regine”. Una seconda occasione, seppur breve e momentanea, per chi ha visto l’esistenza scivolargli via dalle dite senza riuscire ad più aggrapparvisi per non naufragare. Cosimi spiega anche come negli ultimi anni il profilo del senzatetto sia cambiato a causa anche delle crisi che colpiscono la nostra società. “Prima l’homeless era una figura borderline, oggi chi lo diventa chi perde lavoro, la casa chi non vede più i figli. Ci sono ex avvocati, oltre a persone con difficoltà di salute e varie esperienze di vita”. Stimolato dalle domande e dalle osservazioni di Guatterini, Cosimi scende più nel dettaglio. Abituato da anni a lavorare con dei non professionisti, in una settimana – racconta il coreografo – riesce a instaurare un rapporto con i suoi attori vincendo le loro insicurezze e a portarli sul palco, concentrandosi sulla loro presenza scenica, sul ritmo e la musicalità. “Una sfilata visionaria, un cortocircuito tra l’effimero, il glamour e i loro sguardi. Voglio mettergli intorno un’aura di bellezza”, descrive Cosimi la rappresentazione. Un lavoro forte e diretto alla coscienza che, al di là del lato più istrionico, mostra la convivenza degli individui col proprio dolore. Ancora il regista: “È un dolore che contiene perdono, gioia, rabbia e sofferenza. Il dolore è un atto di sottomissione e insieme di resistenza alla fragilità umana. Ti reinventi il quotidiano attraverso le ferite che ti porti dietro. Ma ci siamo tanto abituati a consumare il dolore che non siamo in grado di prendercene cura”. La bellezza vi stupirà è un appello a commuoverci e provare empatia per le vittime del disinteresse e della paura del diverso, guardandolo con occhi nuovi e l’animo pronto ad accogliere. La curiosità della giornalista poi si spinge a sondare i piani futuri del coreografo. "La rappresentazione non terminerà qui, spero di riuscire a portarla al Quarticciolo”, assicura Cosimi che prosegue, “intanto mi dedicherò a questa dance media performance che ho chiamato Coefore Rock & Roll, la seconda parte della trilogia sull’Orestea, preprata per Romaeuropea Festival 2020. Ho anche intenzione di tornare in scena con la performance di 15 minuti “I need more”.

La conversazione tra i due è stata introdotta da estratti di alcune videointerviste a persone senza fissa dimora registrate da Cosimi in varie città d’Italia ed è seguita dalla visione di un promo di due minuti, risalente alla messa in scena di La bellezza vi stupirà all’edizione del 2015 del festival capitolino Teatri di Vetro. Se la missione della danza e del teatro è quella di far sedere lo spettatore non su un comodo cuscino ma su un cumulo di carboni ardenti che impediscono il puro intrattenimento e disturbano l’imperturbabilità, portandoci chissà dove, Cosimi è sicuramente su quella traiettoria. Con Ode alla bellezza ha mostrato vite (auto)recluse, con la precedente trilogia Passioni dell’anima ha strappato dal di dentro e gettato al di fuori di noi le nostre paure più inibenti, la nostra brama tanto più repressa quanto deflagrante più di piacere fisico – con un ricorso al sesso e alla sessualità non più come (legittimi) strumenti di rottura e di scandalo ma come chiavi di lettura della società e dei suoi cambiamenti – e la sofferenza che alza una cortina di separazione tra noi e lo scorrere dell’esistenza, rinchiudendoci in un ovattato vuoto dove l’assenza di senso si fa schiacciante, che il mondo contemporaneo per paradosso alimenta nella sua convinzione che la vita sia solo materialità e raziocinio. Con la prossima trilogia, ispirata all'Orestea di Eschilo, iniziata dalla del rapporto tra sesso e potere in chiave sadomasochistica di Glitter in my Tears e in attesa di proseguire col secondo capitolo Coefore Rock & Roll, la destinazione è ancora incognita.

Lorenzo Cipolla

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