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In questo tempo che chiude in casa e svuota le città, il Teatro di Roma decide di aprire il sipario sui canali social di Facebook (Teatro Argentina, Teatro India, Teatro Torlonia) e Instagram (@teatrodiroma) con una giornata dedicata alla poesia, nel primo giorno di primavera (per chi se li fosse persi, i video delle letture poetiche rimangono disponibili online).

Se nelle nostre stanze di vita quotidiana, così come nelle platee e sul palcoscenico, dobbiamo rinunciare alla vicinanza e al calore dei corpi, il teatro trova il modo di resistere nella «voce», in quella «radice comune» dalla quale scena e verso fioriscono. In un tale tempo di bonaccia, sono quindici poeti contemporanei a soffiare nelle vele stanche della nostra mente. Giorgio Barberio Corsetti, Mariangela Gualtieri, Azzurra D’Agostino, Paolo Maccari, Maria Grazia Calandrone, Tommaso Giartosio, Laura Pugno, Franco Marcoaldi, Orso Tosco, Ida Travi, Marco Mantello, Silvia Bre, Lidia Riviello, Vincenzo Ostuni, Antonella Anedda: è questo l’equipaggio di cui avevamo bisogno. La maratona “Voce” comincia, la lancetta avanza di 30 minuti in 30 minuti, e a ogni rintocco sgorga sulla pagina Facebook del Teatro un nuovo rivolo di poesia. L’orologio poetico risuona nelle bacheche degli ascoltatori, porta «le parole alate» nelle case di chi vive questo tempo fermo, congelato da un’emergenza che ha colto tutti alla sprovvista. Ma la parola poetica non si fa intimidire e fluisce libera anche quando ogni altro movimento è impedito.

Ad aprire le danze è Giorgio Barberio Corsetti, che ci invita a immaginare il Teatro Valle completamente vuoto, con qualche sedia soltanto lungo i margini della platea e un tappeto di cuscini su cui «potere allungarsi e ascoltare le parole dei poeti». Corsetti riporta al centro l’atto stesso della scrittura, praticata per «depositare» l’«anima al sicuro dentro quei fili appoggiati sul foglio» e «per dare conto del canto disperato» che sente dentro di sé. Lo scrivere come àncora di salvataggio, ma anche come pozione magica per trasformarsi in qualcos’altro, umano o animale che sia: dal corvo che segue un movimento di natura piombando «sugli occhi spenti di una carogna», al predatore che divora un pesce a cui la morte fa male, e che lo dice a chiare lettere, perché senzienti e sofferenti sono tutti gli esseri della Terra. La soggettività può dunque cambiare pelle, ma anche ridursi a pochissima cosa e lasciarsi cadere: è a questo movimento verso il basso che ci invita la poesia, a muoverci cioè verso il fondale che giace primordiale sotto di noi, facendo di questo tempo un’occasione preziosa per esplorare cavità, interstizi e angoli trascurati a causa del tran tran quotidiano. «È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore», diceva Jep Gambardella ne La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Ed è vero: oggi come mai riscopriamo che il silenzio non è semplicemente assenza di rumore, ma terra fertile da auscultare, da cui attendere il dischiudersi di una parola nuova - forse più genuina.

Il silenzio di questi giorni «per strade addormentate e piazze con nessuno» rischia di farci sentire «soli al mondo», ma ci ricorda, forse, anche un dovere nei confronti di questa terra «travestita da città»: quello di «una riconoscente spinta dentro i passi che la pestano piano». Nelle parole di Mariangela Gualtieri la paura cede il passo a una nuova consapevolezza, che in fondo è soltanto il ricordo della connessione profonda che unisce la vita degli uomini a quella degli animali e delle piante. Aver dimenticato, troppo a lungo, di essere noi stessi “pezzi di natura”, ha portato a ignorare e oltraggiare ecosistemi, a spezzare gli equilibri, fino a perdere il nostro stesso centro. «Quand’è», chiede Franco Marcoaldi, «che l’idea di limite e confine si è perduta, è stata per sempre abbandonata?». «Nulla è al suo posto» nell’Antropocene, la nuova era geologica di cui l’uomo si è erto a sovrano. Solo il gatto pare «coltivare ancora il proprio baricentro», e di nuovo la prospettiva animale rivela qualcosa di saggio, di desto, di fronte a un’umanità sempre più intorpidita, cullata dal sogno di un benessere eterno, luminoso, farneticante. «Volevamo il comando, volevamo fare i padroni», dice con voce sottile Ida Travi: ma che ne è dei nostri scettri, ora che un virus invisibile ci ricorda la fragilità della nostra natura? Nella Grecia antica gli uomini erano spesso chiamati οἱ θνητοί, “i mortali”. Non era però solo un tetro monito; i mortali sono anche gli unici esseri ad avere coscienza della propria finitezza, e a possedere un parziale antidoto all’oblio: la parola. Sì, perché la poesia è capace di ridare sostanza a ciò che è lontano, a ciò che sarebbe altrimenti perduto per sempre: è insomma voce di un’assenza, come quella articolata da Maria Grazia Calandrone nel suo Interiore invernale, dedicato alla nonna Gaetana: «Mentre il mondo cambiava […] tu come gli animali stavi senza domande. Senza dolore. Semplicemente esistere. Esistere e basta. Essere casa come sono casa i corpi, gli abbandoni, le guarigioni».

Nelle case e nelle camere da letto in cui siamo rinchiusi in questi giorni, i «figli non sanno dormire» e i padri si spaventano «al dovere di tramandare radici, di correggere gli errori e il male». È il «tremendo dei pensieri sguinzagliati» che tormenta i genitori e quelle generazioni che hanno l’obbligo di offrire risposte, di rintracciare le responsabilità che hanno condotto all’agonia il mondo consegnato ai loro figli. Nonostante i dubbi che lo attanagliano, destinati forse a rimanere sospesi, Paolo Maccari, seduto sul bordo del letto per il racconto della buonanotte, afferma con commozione: «mormoro appena, gli basta che io sia lì per ritrovare il sonno, come a me è bastato che lui fosse al mondo per supplicare me stesso di durare più a lungo». L’inquietudine accompagna anche Tommaso Giartosio, in una «notte di padri che appaiono ai figli e nei figli, e figli ai padri e nei padri», ma sembra stemperarsi in nostalgia, quando il ricordo si sofferma sulle «lingue» a cui si riducevano le saponette colorate, resti preziosi e «pezzi di vita consumati fino in fondo». Un «tempo perduto» di oggetti e abitudini domestiche lontane sembra riaffiorare in Giartosio, come in tutti noi, nel gesto quotidiano – ed oggi così frequente – del lavarsi le mani con «il sapone liquido». Nelle goccioline che colano sul dispenser si sedimenta il rimorso per lo «spreco sprecato», per un modo di produzione e una forma di vita orientata al consumo che si deposita e si rintraccia nelle azioni più piccole.

Ma forse è ancora possibile «scollare la pelle del passato, prendendo senza ira il proprio nulla tra le dita», se in questa notte si cela non soltanto l’angoscia, ma anche l’attesa e la possibilità di una luce: è il sorgere di un’alba «che ci fa coraggio», come recita Antonella Anedda in italo-sardo, e che ci invita a «perlustrare» e a rinnovare noi stessi per primi.
Alba è leggerezza di vita, semplicità di sentimento, è tutto ciò a cui possiamo oggi aggrapparci, togliendo il superfluo e rimettendoci all’essenziale, come fa Marco Mantello nella sua dichiarazione d’amore non convenzionale, dove l’altro si ama non per la grandezza della sua eccezionalità, ma per la bellezza dell’ordinario condiviso: «[…] ti amo come Star Wars, come Tetsuo [...] ti amo perché nel tuo rimpianto ho visto il mio e nei miei torti le tue ragioni. Amo tutto di te. Anche i maglioni». Rimaniamo allora con le parole di Laura Pugno, che ci parla di fuoco e di calore come di una promessa: torneremo a posare la testa «su quella spalla, nell’incavo di quel braccio, contro quel torace»; i nostri sensi si sfameranno ancora della primavera in atto; la vita sospesa riprenderà il suo eterno fluire: «Ritornerai? Sei ritornata?» cesserà «di essere domanda».

Chiara Molinari

Maria Giulia Petrini

22/03/2020

ROMA - A volte non si è mai abbastanza preparati a confrontarsi con determinate realtà artistiche che, oltre ad essere spesso lontani da noi per gusto o comprensione, richiedono deliberatamente uno sforzo maggiore, che nulla ha a che vedere con il raziocinio al quale siamo abituati ogni giorno: bisogna, piuttosto, lasciare "la propria mente" fuori le tende del foyer, e predisporsi in maniera quasi devota con tutto il proprio arsenale emotivo a una totale esperienza immersiva, restituendo semplicemente ai nostri sensi la libertà e il "dovere" di agire secondo i loro preziosi dettami.

Ed è proprio questo lo sforzo di preparazione che, secondo noi, richiede l'arte di Ingri Fiksdal e, nello specifico, il suo lavoro coreografico "Shadows of tomorrow" (andato in scena al Teatro India di Roma).

Invitato ad entrare e rispettare la coreografia già pronta, tra le luci colorate e i danzatori in posizione, il pubblico prende posto in rispettoso silenzio, finché (in un sentito clima di aspettative, seppure confuse, fatto di scambi di domande e curiosità),  il "viaggio" nel mondo delle ombre può cominciare.

Dal buio primigenio della sala, solo alcuni dei quattro gruppi di riflettori disposti a perimetro iniziano debolmente a testimoniare la presenza degli interpreti (riuniti in due insiemi circolari e posizionati in angoli opposti), che lentamente prendono vita nei loro movimenti oscillatori prima di rompere lo spazio e invaderlo letteralmente con spostamenti ondeggianti, armoniosi, confusi nelle ombre riflesse dalla luce sulle pareti bianche. Una perfetta geometria coreografica, senza alcuna collisione di corpi, mentre in assenza totale di una colonna sonora d'accompagnamento provo ad immaginare una partitura di John Cage. La danza onirica di venti colorati arlecchini-lebbrosi senza rischio di identità. O reminescenti "amanti di Magritte", se a qualcuno dovesse riemergere una vena surrealista/esoterica. 

Solo un breve momento di stasi, prima dell'evanescente "secondo atto" (sostenuto dallo scrosciare della pioggia sul tetto, a voler quasi prendere parte attiva alla rappresentazione). La teatralità, giocata principalmente sull'effetto visivo, passa sempre più per i colori e i movimenti convulsi, quasi tribali e spaventosi, dei danzatori. Fino a staccare la spina della realtà oggettiva (che quotidianamente ci rende complici omologati) e lasciare fini all'ultimo "passo" un senso di totale vertigine. L'invito implicito, se volete, di fare i conti con la propria esistenza fuori dai severi schemi del raziocinio, eppure rimanendo ancorati a una sicurezza essenziale: quella secondo cui senza "ombre" non potremmo quasi accorgerci di "essere".

Un viaggio durato circa 45 minuti, quello che dal 2016 Ingrid Finksdal ha voluto portare fin qui a Roma dalla sua Oslo (Norvegia), reso possibile dalla cornice del Teatro India e dalla partecipazione (opportunamente selezionata) dei performer che nelle settimane precedenti hanno risposto alla "chiamata" per essere doverosamente preparati alla messa in scena finale.

Un libero accesso dalla porta principale della "danza contemporanea" di questo secolo, ma per il quale si richiede una predisposizione emotiva tutt'altro che banale. Senza esagerare, una sincera "voglia di perdersi".

Jacopo Ventura 28/02/2020

«Specchio, specchio delle mie brame. Chi è la più bella del reame?». In fondo la regina cattiva non era poi così egocentrica, anzi, aveva proprio ragione: tutti abbiamo bisogno della nostra immagine. Non si tratta di un’esigenza dichiarata, ma c’è davvero un’affezione quasi morbosa nei confronti del nostro io, alter ego spropositato e invadente dell’essere che si nutre di adulazioni e false promesse. Nell’esaltazione di tale consapevolezza appare complicato concepire un mondo senza specchi, un universo in cui non è possibile ricordarsi della propria identità, annientata da un editto vincolante ed estremo.

Eppure Elias Canetti aveva immaginato tutto questo nel 1934. Non è una questione di date, l’uomo sa essere tremendamente noioso e ridondante, ma ciò che viene proposto ne "La commedia della vanità" è essenziale, vero e paradossale. Sembra plausibile che lo scrittore avesse un reale disagio e che la sua immagine riflessa gli procurasse notevole tormento, ma la sua scrittura racchiude molto più di un semplice disturbo. L’elogio del superfluo, che diventa necessario, viene messo in scena da Claudio Longhi al Teatro Argentina con una rappresentazione allegorica e grottesca del totalitarismo in cui fotografie, specchi e ritratti sono categoricamente banditi dalla società, circo caricaturale con bambole di porcellana che intonano un coro dimesso e saltimbanchi sopra le righe che coinvolgono lo spettatore. L’opera nasce dalla penna di Canetti durante tempi bui, nei quali Berlino si rende protagonista delle Bücherverbrennungen, i roghi di libri considerati immorali dalle autorità naziste. Tra bandi e divieti sempre più minacciosi, Canetti immagina un contesto sociale dove si decreta di bandire la vanità e, con lei, tutti gli strumenti di autocelebrazione del Sé. Tutto ciò che può alimentare la pratica narcisistica viene destinato ad un grande falò applaudito da una massa ben fomentata.

“Saremo tutti d’accordo nell’affermare che sulla faccia della terra gli imbecilli costituiscono la maggioranza. Allora perché dovremmo farci comandare dalla maggioranza?” sentenziava il Dr. Stockmann in "Nemico del popolo", interpretato e diretto da Massimo Popolizio sempre sul palco dell’Argentina. E a Ibsen è seguita, in una piena continuità di temi, la messa in scena di Longhi, che offre proprio uno specchio al mondo contemporaneo, che del narcisismo ha fatto la sua bandiera, provocandosi, tra selfie e personal branding, una considerevole ubriacatura.

Al teatro “politico” di Popolizio e Longhi, verrà ad aggregarsi nel resto di questa stagione una grande varietà di produzioni: un Arlecchino goldoniano (11 - 23 febbraio), Il giardino dei ciliegi di Čechov (25 febbraio - 8 marzo), per la regia di Alessandro Serra; Imitation of life di Kornél Mundruczó e il suo Proton Theatre (11 - 14 marzo), opera multimediale che approfondisce le contraddizioni di una società violenta e discriminante; When the Rain Stops Falling (17 - 22 marzo), saga familiare dove la grande storia si incrocia alle vicende individuali; il dittico di Eduardo De Filippo, Dolore sotto chiave e Sik-sik, l’artefice magico (25 marzo - 9 aprile), con la regia di Carlo Cecchi; Misericordia di Emma Dante (17 aprile - 3 maggio); il classico pirandelliano Così è (se vi pare), diretto da Filippo Dini (19 - 31 maggio); La valle dell’Eden, infine, il capolavoro di Steinbeck riproposto da Antonio Latella e previsto in autunno. Nel programma compare anche la coreografia di Michele di Stefano, Parete Nord, dove i danzatori si confrontano con lo spazio della montagna. A rendere più ricca la rassegna, una serie di conferenze e approfondimenti, come la VI edizione di Luce sull’archeologia, otto appuntamenti sul tema delle origini di Roma, e il Festival Contemporaneo futuro nuove generazioni, teso alla valorizzazione della produzione teatrale per l’infanzia; non manca infine una serata con protagonista Massimo Recalcati, con una lezione speciale sul nuovo lessico amoroso. La rassegna del Teatro India mira invece principalmente allo scoperchiamento del contenitore delle emozioni umane. Poesia, danza, cinema e riflessioni sociali si intrecciano nei vari spettacoli inseriti nel programma, da L’après-midi d’un foehn di Phia Ménard (31 gennaio - 2 febbraio), accompagnato dalle musiche di Debussy, al dittico firmato da Tamara Bartolini e Michele Baronio, Tutt’intera (18 - 20 febbraio) e Dove tutto è stato preso (21 - 23 febbraio), fino all’adattamento della plurirappresentata Antigone di Eschilo a cura di Massimiliano Civica (18 - 30 aprile).

Giuseppe Cambria
Maria Giulia Petrini
Laura Rondinella

30/01/2020

La sesta edizione del festival "Dominio Pubblico_la città agli under 25" è già iniziata, di fatto, alla conferenza stampa di presentazione tenutasi lunedì 10 giugno al Teatro Valle di Roma: in mezzo al foyer, gli artisti della Scuola di Circo BigUp, tra gli ospiti di quest’anno, hanno coinvolto a sorpresa il neodirettore del Teatro di Roma Giorgio Barberio Corsetti in una performance da giocoliere, con tre palle da far roteare in equilibrio sopra di sé. Un avvio di conferenza allegramente anarchico e irrituale che anticipa le parole chiave del nuovo festival (dal 14 al 23 giugno al Teatro India), “ribellarsi” e “sollevarsi”. E sono proprio ribelli che si sollevano nel panorama culturale romano i giovani organizzatori del progetto: "Dominio Pubblico" punta infatti a offrire spazio e visibilità agli artisti di teatro, danza, musica, cinema, circo e arti visive sotto i venticinque anni, in una città che, come ricorda il direttore artistico Tiziano Panici, troppo spesso «nasconde e tende a dimenticare». Panici ha ricordato la genesi del progetto, nato cinque anni fa «da due fucine culturali» della Capitale, il Teatro Argot Studio e il Teatro dell’Orologio. Malgrado la chiusura di quest’ultimo nel 2017, "Dominio Pubblico" ha potuto contare sull’ospitalità del Teatro India, che anche quest’anno sarà per il festival una casa «da abitare, da ripensare e, in qualche modo, da ampliare».

Restano amarezza e non poca polemica per il mancato inserimento (a differenza degli scorsi anni) del festival tra gli eventi dell’Estate Romana, come traspare dagli interventi di Fabio Morgan (direttore generale di Dominio Pubblico) e Luca Ricci (ideatore del progetto). Un «fulmine a ciel sereno», ha dichiarato quest’ultimo, che tuttavia non ha pregiudicato (anche grazie al sostegno economico della Regione Lazio) «un lavoro reale» che valorizza la messa in rete dei soggetti (in particolare giovani) per rimettere il teatro «al centro di un processo di appartenenza tra cittadini». L’incontro di lunedì è dunque proseguito con la presentazione degli oltre cinquanta eventi previsti nel calendario della nuova edizione. Per le sezioni di Teatro e Danza hanno preso la parola Sabrina Sciarrino e Mariaenrica Recchia della (rigorosamente under 25) Direzione Artistica di Dominio Pubblico. Tra gli spettacoli teatrali selezionati abbiamo Intimità (14 giugno) di Amor Vacui, Socialmente (15 giugno), di e con la Premio Ubu Claudia Marsicano, Amore (15 giugno) di Tristezza Ensemble, Pulcinella morto e risorto, scritto, diretto e interpretato Alessandro Paschitto (22 giugno), La Sposa Prigioniera (23 giugno) della Compagnia dei Giovanio’nest. Tra i lavori di danza selezionati ci saranno invece Granelli di cosmo, di e con Camilla Grandolfo, After, di e con Giovanni Careccia (entrambi in scena il 15 giugno) e Variazione: S. Velato (22 giugno) di Lorenzo De Simone.

La Sezione Musica si avvale quest’anno della partnership con LAZIOSound, progetto regionale teso a valorizzare i talenti musicali Under 35 attraverso un concorso i cui finalisti si esibiranno proprio nella cornice del festival: tra gli artisti selezionati, un riconoscimento speciale da parte di Dominio Pubblico andrà a Micol Touadi, voce del trio nu-soul Whitey Brownie, che si esibirà in occasione della serata di apertura il 14 giugno. Nuovo cinema under 25 sarà la sezione dedicata a cortometraggi e documentari, in collaborazione con diverse realtà del territorio tra cui Sapienza Short Film Festival e Zalib. Tra le molte altre partnership ricordate in chiusura di conferenza ci sono quella con il giornale Scomodo, che darà vita agli incontri del Roma Social Forum per confrontarsi sui problemi della Capitale, e quella con la Middlesex University of London per la masterclass Bordless, evento emblematico della vocazione anche internazionale del festival. Riassume perfettamente lo spirito della sesta edizione di Dominio Pubblico l’intervento di Alessandra Carloni, illustratrice, street-artist e autrice dell’immagine di quest’anno, raffigurante un supereroe-fanciullo che si solleva su una mongolfiera luminosa dal buio della città: «Rispetto al resto dei personaggi che rimangono indietro, perché ancora non sono pronti a svegliarsi, lui decide di prendere posizione e di sollevarsi. Un invito, per le nuove generazioni, a prendere coscienza, far sentire la propria voce e mettere in campo la propria creatività».

Emanuele Bucci 11-6-2019

Esagitata, inquieta, muta, d’un tratto logorroica; Silvia teme ogni esame. Se per lei lo studio è un mostro motore di angoscia, la sua messa in atto è il persistente cavillo che l’attanaglia.
S’inchioda alla sedia, ricorre a speciali cuffie antirumore; vano è ogni tentativo di concentrazione.
In scena al Teatro India di Roma lo scorso 18 e 19 Maggio, “Amo i paragrafi corti: lezioni introduttive sulla solitudine” di Mariasilvia Greco è parte integrante del progetto “Scritture” di Lucia Calamaro.
“Io so studiare!” – assidua e irruenta la ragazza si esorta, insofferente eppure bisognosa delle silenziose premure di due genitori remissivi e spaventati. La sua è la storia di un’insolita solitudine.
Una madre intenta a difficili parole crociate, un padre che si improvvisa in creativi progetti culinari; sono tutte distrazioni di fronte d una figlia che sembra soffrire d’un disturbo senza rimedio.
Si avvicinano quando lei si allontana, si allontanano quando lei si avvicina; è forse una comunicazione distorta che si fa meccanismo per un disagio reciproco che ci illude a voler rimanere da soli.
Laddove i genitori cercano in tutti i modi di giungere alle cause di un’esasperazione che appare immotivata, Silvia si chiude nella sua stanza dove tra una lettura e l’altra si improvvisa a dialogare con un gigantesco poster di Sandro Pertini.
“Sandro! Sandro!” - E’ inibita dalla scadenza, si sente “surgelata”, alterna spasmi furenti ad un’immobilità letargica e immobilizzante.
Sarà solo dopo l’allontanamento meramente fisico dalla casa paterna che quel malessere, una volta estremizzato, troverà forma.
Un sentimento nostalgico, un bisogno impellente travolgerà la protagonista che in bilico tra la rassicurazione infantile e la spinta all’indipendenza si scoprirà essere ancora attaccata ad una culla cui pensava di voler fuggire.
Con Mariagiulia Colace, Francesco Aiello e Emilia Brandi, un filo invisibile attraversa questa storia tragicomica, un filo che, se riconosciuto si fa rimedio e consapevolezza di fronte al dilagare di un crescente spaesamento.

Giorgia Leuratti

Forse sono dodici i colpi sordi e tremendi che fanno sobbalzare lo spettatore dalla poltrona quando ancora non c’è alcuna luce sul palco. Dodici come i baci sulla bocca che promette il titolo dell’opera scritta da Mario Gelardi e diretta da Giuseppe Miale di Mauro, secondo spettacolo del Dittico Nest – Napoli Est Teatro, in scena al Teatro India fino al 17 Febbraio.

Dodici colpi inferti al pubblico stesso dalla compagnia Nest, fondata dall’attore Francesco Di Leva nella realtà più scomoda di Napoli e d’Italia, con lo scopo di mettere in scena proprio quella realtà, cruda e brutale, per smuovere lo spettatore ad un’immedesimazione priva di catarsi. Un teatro che rinuncia alla finzione per concentrare la sua forza espressiva nella trasformazione della realtà sociale, colpendo lo spettatore tanto forte da costringerlo a reagire.

Dodici colpi che aprono e chiudono lo spettacolo contenendo nella loro atroce freddezza una storia lontana, ambientata nella Napoli degli anni ’70, eppure capace di percuoterci come accadesse in diretta, davanti ai nostri occhi. Occhi impotenti, che fin dal principio vedono il destino scritto e non possono intervenire. Allo stesso modo in cui tre monoliti, disposti a triangolo sul palcoscenico a rappresentare ognuno dei tre personaggi, hanno una superficie riflettente nella quale, però, lo spettatore non riesce a vedere il proprio riflesso, restando illuso.  

L’ordine geometrico dei tre monoliti traccia le dinamiche stesse tra Antonio (Ivan Castiglione), proprietario di un ristorante mafioso e vicino all’estrema destra, suo fratello Massimo (Andrea Vellotti), prossimo al matrimonio con l’unica donna che abbia mai avuto, ed Emilio (Francesco Di Leva), lavapiatti segretamente omosessuale con il sogno di trasferirsi lontano. Un triangolo alla cui punta sta Emilio, capace di intaccare la base della costruzione geometrica, il rapporto tra i due fratelli, facendo innamorare Massimo e costringendo Antonio a recitare un ruolo che non sembra appartenergli veramente.

La musica, popolare e intensa, riempie le loro traiettorie umane, così come riempie i vuoti presenti nei dialoghi. Per questo, l’incontro tra Massimo ed Emilio riesce ad avere la fisicità di uno scontro solo grazie alla capacità gestuale degli attori, senza il supporto dei dialoghi, troppo deboli per dare la giusta sostanza ai personaggi. La sola eccezione possibile riguarda Antonio, nel quale il rapporto contraddittorio tra le parole e la loro espressività, tra i gesti e il modo di realizzarli, sembra nascondere una complessità psicologica affascinante che non lo relega al semplice ruolo di cieco carnefice, dandogli una sostanza capace di superare la debolezza dei dialoghi.

Come il capolavoro di Ettore Scola, “12 Baci sulla bocca" è “una storia particolare", intarsiata sullo sfondo di un’altra Italia, lontana decenni e tristemente uguale a quella fascista. Anche qui è il documento sonoro ad inserire la drammaturgia nel suo contesto storico, riportando le voci di manifestazioni, attentati e dell’autocondanna della società per l’assassinio di Pier Paolo Pasolini. Echi esterni che seguono la traiettoria geometrica dettata dal palcoscenico, sfiorando Massimo, ferendo Emilio e mettendo in crisi le convinzioni di Antonio, fino ad arrivare a penetrare nella pelle dello spettatore e a trasformare la sua impotenza in bramosia di agire.

Alessio Tommasoli 13/02/2019

Quando un nome noto del teatro come quello di Emma Dante viene accostato a un classico senza tempo come "Le Baccanti", l’incontro promette scintille. E scintille sono, recapitate da un team di attori dell’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”, in scena al Teatro India di Roma nel periodo festivo a cavallo tra il 2018 e il 2019.
Sin dal principio, la regista traccia la sua linea, tesa e vibrante come una corda di violino, tra l’inquietudine e la sacralità. Due aspetti spesso, se non sempre, contrapposti nella tragedia greca, che esplodono sotto la direzione di Emma Dante, il cui occhio stravolgente si sposa alla perfezione con l’impeto caotico già copioso in Euripide.
Coreografie tra la danza e l’inseguimento, luci intermittenti e giochi d’ombra, sono alcuni degli ingredienti che rendono l’opera, nella traduzione di Edoardo Sanguineti, apprezzabile su più livelli: quello letterale o razionale (apollineo) e quello istintivo, quasi subliminale (dionisiaco). Paradossalmente le parti corali, cantate e armonizzate dagli attori, numerosi ma sempre in equilibrio sulla scena, risultano le più canoniche.49616292_218497349081115_7963060359684685824_n.jpg
Anche la scenografia, di Carmine Maringola, riflette una duplicità insidiosa, le pareti rosa sembrano imprigionare, più che proteggere, ma non sono impenetrabili. Oltre alle uscite adibite, una per lato, capita di vedere personaggi invadere la scena strisciando sotto i suoi confini, o scuoterli dall’esterno con urla e strepiti. Avvolgente, ma non sicuro, il locus di questo studio flirta con l’uterino.
Vi sono poi le innumerevoli interpretazioni, innumerevoli davvero. Come per sedimentazione, "Le Baccanti" hanno acquisito nei secoli altrettante stratificazioni. C’è il conflitto tra sacro e profano, tra erotismo e castità, tra uomini e donne. C’è il conflitto generazionale tra vecchi e nuovi regnanti, quello tra madre e figlio. C’è Pènteo che, più che ateo, sembra figlio di una religiosità infertile e invidiosa. Di contro, un Dioniso doppio, nel ruolo e nel genere sessuale, assume i tratti di un anticristo ante litteram, un pifferaio magico dedito ai piaceri irresistibili della carne: pur nella sua onnipotenza, fa delle baccanti il proprio unico e solo strumento, perché di tutti il più invincibile.
Inevitabilmente a loro, alle Baccanti, l’ultima nota di quest’analisi. Prede di un’euforia senza confini ben distinti, devono mostrare al contempo la follia di un alter ego e le spaventose profondità del proprio vero io (in vino veritas). Un ruolo potente quanto complesso sotto la guida esperta e esigente della regista, che esalta però, singolarmente e in gruppo, l’interpretazione di tutte le attrici, scandite con ritmo musicale come canne di un organo di desideri inconfessabili.

Andrea Giovalè
5/01/2019

Foto di Tommaso Le Pera

Grandi pianure”: una rassegna che porta questo nome non può che rimandare a concetti di estensione ed apertura, di ampiezza solo apparentemente spaziale, perché soprattutto mentale.
A cura di Michele Di Stefano, si concentra proprio sugli sconfinati spazi della danza contemporanea e della performance sperimentale. Il corpo e la corporeità al centro e intorno il mondo, che si estende a perdita d’occhio. Ciò che gli spettacoli indagano è proprio la capacità di guardare i luoghi circostanti, analizzati attraverso esperienze di movimento inedite e coraggiose. 

«Se il corpo è la vera misura di ogni confine, la postura corporea può cambiare da sola la nostra capacità di guardare il mondo», scrive infatti Di Stefano.

È in questo quadro che si inserisce “Speaking Dance”, andato in scena al Teatro India, creazione di Jonathan Burrows e Matteo Fargion: il primo è coreografo e performer inglese formatosi al The Royal Ballet School, il secondo è compositore e performer di origini italiane, docente presso la scuola di Anne Teresa De Keersmaeker a Bruxelles. I due sono in turnée insieme da sedici anni, hanno ricevuto diversi premi e toccato molti Paesi del mondo con “Speaking Dance” (2006). La performance conclude la trilogia di duetti cominciata con “Both Sitting Duet” (2002) e proseguita con “The Quiet Dance” (2005). È un’indagine sul rapporto tra danza e musica, sui confini labili che le tengono separate eppure vicine, legate dal costante bisogno di comunicare e interagire. Due mondi fragili, ma permeabili, rappresentati con humor e puntando molto sul coinvolgimento del pubblico.

Speaking Dance” si avvale solo di due sedie e poco più (un pc, una diamonica, una piccola armonica): è una coreografia delle parole fondata su un approccio performativo inedito e moltograndi pianure aperto, in cui la musicalità si fonde col gesto, coi silenzi, con il canto, coi rumori (dal battito delle mani al loro sfregare al fischio) e, appunto, con le parole. Tutto è tenuto insieme con precisione estrema fino a diventare un corpus compatto inserito in una performance sempre più incalzante, una vera e propria partitura musicale di diversi ritmi e diverse velocità. 
La prima parte dell’esibizione è un contrappunto di parole, una danza descritta ma non eseguita (left – right, up – down, walking – jumping, lift - stop, come on - come up).
Elemento portante dello spettacolo è sempre la ripetizione, come nella sezione ‘love’, parola pronunciata e ripetuta su musica per piano di Bach, creando anche effetti di 'eco'. 
Molto divertente la sezione ‘Chicken – Yes – Come’: i tre termini vengono prima presentati scritti su tre fogli di carta, poi mentre Fargion li pronuncia (cambiandone sempre l'ordine) Burrows ne fa il gesto corrispondente, a velocità crescente.
La parte testuale più complessa è tratta da testi di Rudolph Laban, esercizi di composizione coreutica per studenti tratte dal libro “The mastery of movement”: questi estratti vengono gridati alla fine di “Speaking Dance”, sovrapponendo le due voci in modo non perfettamente sincronizzato.
Accanto a parole e suoni c'è anche il movimento: essenziale, sporco, minimo. Questi brevi momenti di danza eseguiti da Burrows vengono accostati a canzoni popolari italiane eseguite da Fargion. Sembra quasi un gioco infantile tra due compagni di scuola. L'elemento ludico è parte integrante dello spettacolo, che trae molta forza proprio dalla sintonia tra i due, che viene percepita dal pubblico e in questo modo lo fa sentire partecipe di ciò che avviene in scena. 

Estremamente complici, Fargion e Burrows portano in scena qualcosa di essenziale, senza pretese e senza intellettualismi. È una comicità sottile la loro e il pubblico ne coglie l’inusualità e insieme la forza, perché se è vero che quello che va avanti per quasi un’ora è un fiume di parole alternato da filastrocche, musica, rumori e silenzi, è vero anche che in questi 45 minuti di performance si coglie il bisogno di comunicare, di capire e farsi capire, di costruire un’empatia. E il successo dello spettacolo sta proprio nel riuscire ad instaurare un’interazione performer – performer e performer – pubblico basata su elementi essenziali della comunicazione (parole brevi, ripetizione e gesti): e la sintonia non si scioglie nemmeno nei momenti di voluta e ponderata asincronia. 

Giuseppina Dente
05/07/2018

Quando si legge la parola “performance” sul flyer di una drammaturgia teatrale, solitamente, la prima, istintiva reazione è quella di un brivido lungo la schiena. Ci si chiede cosa si dovrà affrontare, quali bizzarrie il teatro avrà, stavolta, in serbo per noi. Ebbene, il flyer di “Quando non so che fare cosa faccio” (andato in scena dal 13 al 23 giugno scorso), di e con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, recita anche, in chiusura, un evocativo e simpatico “si consiglia di indossare scarpe comode”.
Sì, perché si cammina nella suggestiva e al tempo stesso urbana cornice del quartiere Marconi, attorno al Teatro India di Roma. Da una parte il fiume, l’orizzonte, il Gasometro, dall’altra il lungo viale, i negozi, la periferia urbana. Ma andiamo con ordine: si entra nella Sala B del Teatro India, spoglia e profonda, nuda, con Daria Deflorian seduta a distanza dal pubblico. 1Veniamo armati di cuffie bluetooth, con le quali far arrivare la voce sommessa della protagonista fino alle nostre orecchie. Poi si comincia, usciamo dal retro della sala e partiamo per un viaggio, al tempo stesso nella città e nella mente della non-attrice.
Già, perché uno degli obiettivi dello spettacolo è mettere in evidenza cos’è un attore al di fuori del della scena, e di riflesso cos’è il teatro, cosa la recitazione, chi è il pubblico e dove sta il confine (labile) tra palco e realtà. La sovrapposizione dei due è massima, mentre seguiamo Daria a debita distanza lungo le scenografie naturali costruite da Roma: capita di sorpassare una coppia di giovani che litigano, bambini che urlano e calciano un pallone di gommapiuma, di preoccuparsi per qualche goccia di pioggia, di sbirciare fuori dalla vetrina di Tiger, mentre la protagonista solitaria, se solitaria può dirsi per le strade di città, entra, prova qualche strano cappello e commenta, dal vivo, nelle nostre orecchie. Il tutto è condito da brevi riflessioni sull’essere e crescere donna, in bilico tra la scena e la vita, prendendo spunto da aneddoti legati a Stefania Sandrelli e al suo esordio cinematografico in “Io la conoscevo bene” (1965, di Antonio Pietrangeli).
In un percorso in cui tutto sembra casuale, compreso il racconto vocale, forse un po’ troppo spesso abdicato al silenzio, c’è anche spazio per le piccole partecipazioni “scriptate” di Monica Demuru o Ludovica Manzo, a seconda della data, e Francesco Alberici, il cui ruolo non è mai palese prima della rivelazione finale, per i saluti al pubblico. Grande idea, quindi, e costruita con mestiere, quella made in Tagliarini e Deflorian, che potrebbe indubbiamente godere di numerose altre applicazioni. La commistione di storia nelle cuffie e passeggiata in città, infatti, partorisce un’esperienza che meriterebbe di essere provata da chiunque, di solito, rabbrividisca al prospettarsi di misteriose “performance”. Magari al tramonto, con scarpe comode.

Andrea Giovalè
25/06/2018

Si ride e tanto in “Domani mi alzo presto”. Ottenuta la menzione speciale al "Premio Giovani Realtà del Teatro" dell’Accademia Nico Pepe, la compagnia padovana Amor Vacui ha portato lo spettacolo in scena al Teatro India nell’ambito della rassegna “Dominio Pubblico”.

Cosa hanno in comune i protagonisti: uno studente di psicologia (Andrea Tonin), una biologa (Eleonora Panizzo) e un aspirante attore (Andrea Bellacicco)? Si trovano tutti e tre in un limbo di immobilità, fatto di mancate azioni, scarso coraggio, zero volontà e continuo procrastinare. È una settimana cruciale, decisiva per il loro futuro, eppure continuano a rimandare al domani quello che dovrebbero fare oggi. Il primo è iscritto all’Università da 10 anni e non riesce a dare l’ultimo esame per potersi poi laureare, la seconda rimanda da due anni la partecipazione al bando per un dottorato all'estero e il terzo deve preparare un provino importante ma non si applica quanto e come dovrebbe.

Domani mi alzo presto” ha un forte impatto sul pubblico, non solo per la carica di comicità e la bravura degli attori, ma perché teatralizza dinamiche in cui tutti ci riconosciamo: le liste di cose da fare, i gruppi diDomani mi alzo presto 3 WhatsApp, la pausa caffè, le serie tv. Sono tutte scuse quotidiane in cui ciascuno di noi si è (in)volontariamente imbattuto, per allontanarsi dai doveri. Ecco perché mentre uno prepara l’esame non riesce a resistere alla tentazione di controllare il cellulare, ecco perché mentre prepara la documentazione richiesta dal bando l’altra rimane ingarbugliata in sequenze di azioni che programma su carta e poi non compie e il terzo invece di imparare a memoria il suo monologo continua a preparare caffè.

Fai a caso, fai male, ma fai!”, “Il primo passo è fare il primo passo”: con la teoria i tre ragazzi sono bravi, ma poi non riescono a mettere in pratica queste belle parole. A nulla serve neppure l’oroscopo che ogni mattina accompagna i loro risvegli e che sembra parlare proprio a loro: “Qual è la vostra scusa più grossa? Oggi è la vostra giornata!”.

Lo studente, la biologa e l’attore sono il ritratto di una generazione bloccata e sono uno lo specchio dell’altro: per questo riescono ad essere sinceri (cattivi, ma sinceri), solo quando scoppia la lite. In quel momento riescono a vedere gli altri e dunque anche se stessi per quel che sono e riescono a dire le cose come stanno, senza filtri. Anche parlare in terza persona è un filtro. Con questo stratagemma è come se i tre si vedessero dal di fuori, si percepisce il loro lasciarsi vivere senza agire in prima persona attivamente e con convinzione.

Domani mi alzo prestoLa scena si riempie mano mano di oggetti casalinghi (tazzine, libri, piatti, bicchieri, vestiti, coperte) a testimonianza del disordine della casa e dell’atteggiamento svogliato dei ragazzi, per poi essere ripulita e tornare al punto di partenza: un divano al centro della scena, quel divano che è stato per i tre ragazzi oasi di tranquillità (dove condividere le serate davanti al pc) e insieme trappola (dove annullarsi e far scorrere il tempo senza renderlo produttivo).

L’arco temporale descrito copre una settimana, sette giorni in cui avrebbero dovuto portare a termine i loro doveri e invece si sono ridotti all’ultimo giorno senza concludere nulla. A vincere è stata la paura di fallire, il sentirsi fuori tempo, il non sapere realmente cosa si vuole. Darà l’esame? Parteciperà al bando? Si presenterà al provino? Proprio quando sembra che si stia, con un pizzico di delusione, scivolando verso un finale dolciastro, ecco che invece lo spettacolo recupera alla grande la sua essenza, senza snaturare le sue premesse e le sue fondamenta. 

Giuseppina Dente
04/05/2018

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