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In una società dominata dall’immagine e dall’audio-visivo a segnare un’epoca non sono più i racconti impressi sulle pagine di storia, ma volti, musiche, colori. La televisione, così come il cinema, si fa contenitore di ricordi, di impronte indelebili lungo il cammino della nostra vita e la cui riproposizione svela una portata nostalgica fatta di momenti andati, lasciati indietro, in un passato che non si può rivivere se non attraverso il tasto “play” e la (re)visione di quei programmi, di quei volti. Per chi è nato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta Beverly Hills 90210, così come sarà Friends da lì a poco, non era solo un telefilm. Era un appuntamento a cui non potevi mancare, figuriamoci arrivare in ritardo. I volti puliti dagli sguardi ammiccanti che facevano la loro comparsa durante la sigla iniziale erano i suoni del campanello che ti avvisavano dell’arrivo di un tuo amico a casa tua e tu non potevi far altro che lasciarli entrare. Prima ancora di Johnny Depp, o Leonardo Di Caprio, la cotta delle ragazzine degli anni Novanta, di quelle che sfogliavano il Cioè come una Bibbia preziosa, e che giocavano con il Crystal Ball tra una Goleador e una Big Babol prendeva il nome di Luke Perry, anzi, di “Dylan di Beverly Hills” perché a quell’età i nomi degli attori non te li ricordavi, o comunque non ti interessavano. A far correre la tua immaginazione, dando il via alla creazione dei tuoi sogni erano quelle vite apparentemente perfette, ma del tutto inventate, che vedevi sullo schermo. Esistenze che tu credevi del tutto reali solo perché portate in scena e per questo visibili, quasi tangibili. A quell’età la distanza diegetica, tra spettatore-attore-personaggio era del tutto inesistente. Ciò che vedevi erano ragazzi e ragazze sullo schermo che parlavano, si abbracciavano, si amavano e litigavano e tu non pensavi che quelli fossero attori che recitavano, ma lo scorrere di vite in presa diretta. L’ingenuità faceva crollare le barriere e aumentare il livello di sospensione della realtà. E così facendo la tua vita scorreva in simbiosi con quella di Dylan, Brandon, Brenda, Kelly.

luke perryLa morte di Luke Perry a soli 52 anni porta con sé non solo lo stupore per una dipartita così prematura e improvvisa, ma anche la perdita di quell’ingenuità insita in noi e nel nostro essere eterni bambini; con Perry crolla la tessera di un domino fatto di ricordi e anni di spensieratezza, allegria, leggerezza. Notizie del genere sono ticchettii di orologi che ci destano dal sonno, risvegliandoci nell’età adulta, con una maturità profonda, ma non abbastanza da rielaborare certe perdite. Sembrerà superficiale, incomprensibile, ma con Luke Perry muore anche un pezzo della nostra infanzia. Una perdita che, in maniera inversamente proporzionale, ci rende consci degli anni che passano e del fatto che stiamo veramente diventando grandi. Il suo ritorno sulle scene nella serie prodotte da Warner Bros. e trasmessa su Netflix, Riverdale ci aveva illuso di riassaporare, seppur per brevi momenti, quegli anni. La sua comparsa in video era un transfert temporale che ci catapultava indietro nel passato, rendendoci ancora piccoli, leggeri, spensierati.
È vero, ogni giorno che passa il mondo diventa sempre più buio, colmo di tragedie, grandi o piccole che siano, degne o meno di essere citate sulle pagine di cronaca. Eppure, per chi vive della luce riflessa di uno schermo, e con lo sguardo sempre rivolto verso immagini in movimento, Luke Perry, così come in passato Philip Seymour Hoffman, Robin Williams, Paul Walker, Carrie Fisher, sono uomini e donne che ci hanno accompagnato durante il nostro cammino di crescita. C’erano quando abbiamo dato il primo bacio, quando abbiamo preso la prima nota a scuola, o quando malati eravamo un tutt’uno con il divano. Non lo conoscevamo di persona Luke Perry, eppure quella fronte, quello sguardo, quegli occhi ci hanno fatto così tanto compagnia mentre diventavamo, senza nemmeno rendercene conto, grandi, che lo consideravamo un compagno stretto; una persona degna di essere citata sui nostri diari Smemoranda tutti rovinati e pieni di scritte e pensieri, e poco di compiti da fare a casa.

Mancherà Luke Perry; la sua scomparsa renderà ancora più buia la strada lasciata dietro le spalle, spianata verso il passato, verso il nostro essere bambini. E così le luci che brillano nel nostro cielo interiore, quelle che si accendevano proiettando filmati di noi giovani sognatori, convinti che potevamo essere tutto, anche un Dylan o una Kelly, sono sempre più tenue, sfocate, spente.

Teniamocelo stretto il ricordo di Luke Perry, così come ci teniamo stretto il ricordo di Alan Rickman; solo così potremo stringere forte il nostro fanciullo interiore e non lasciarlo scappare via. E poco importa se al posto di Luke Perry lo continueremo a chiamarlo Dylan; vuol dire che il nostro bambino ancora pensa, parla, ricorda per noi.   

Elisa Torsiello, 6 marzo 2019

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