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CASTROVILLARI – Primavera dei Teatri rimane primavera anche se siamo ad inizio autunno. Per varie vicissitudini, lo scorso anno lo storico festival della Calabria del Nord, PdT è saltato e quest'anno è slittato da fine settembre fino alla prima settimana di ottobre ma questo non ha influito sulla ricerca dei nuovi linguaggi nella nuova drammaturgia non soltanto di casa nostra. La rassegna, diretta da Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano, quest'anno ha raddoppiato gli sforzi con un prologo a Catanzaro con diverse proposte internazionali. A Castrovillari, dove tutto è nato e dove tutto ritorna, abbiamo potuto seguire otto tra spettacoli e performance. Castrovillari sembra sempre la stessa, sembra sonnecchi con il Pollino sopra con la sua croce e le nuvole grigie a fare da cappello, le strade sempre con gli stessi disegni e graffiti che nessuno copre e nessuno migliora e nemmeno nessuno che ne propone di nuovi. Tutto è fermo anche se il fermento c'è, si sente, si percepisce, basti guardare i tanti giovani che affollano i luoghi del festival, il Teatro Vittoria e il Sybaris nel Protoconvento dove i ragazzi pullulano. Non cambia nemmeno l'immancabile Osteria della Torre Infame, che piace proprio perché rimane fedele a se stessa nei decenni: con il proprietario Nicola neo presidente del Castrovillari Calcio in Serie D e gli spaghetti al fuoco di Bacco, cotti nel vino e piccanti, che sono un must irrinunciabile e da soli valgono il viaggio (come non ricordare il caposala Pasquale). Oltre agli spettacoli ci sono stati i commossi ricordi di Maria Grazia Gregori e di Renato Palazzi, due grandi critici teatrali milanesi che ci hanno lasciato nell'ultimo anno. E c'è stata anche la presentazione del volume scritto da Gigi Giacobbe, altra firma prestigiosa stavolta messinese, su Bob Wilson. Come ogni anno ci attira molto la locandina che stavolta propone un uomo gonfiabile, una sorte di omino della Michelin, tutto avvolto dentro il cellophane, quello da scoppiare, quello per salvare gli oggetti fragili. Siamo teneri, siamo delicati e allo stesso tempo vogliamo stare sotto una campana di vetro per non romperci anche se, vicino a noi, come nostro compagno di viaggio esistenziale, c'è un cactus che, anche se piccolo, potrebbe farci esplodere, potrebbe far scoppiare la nostra scorza, il nostro scudo e armatura.Giancarlo Cauteruccio.jpg

Quello che abbiamo notato, nella maggior parte delle proposte, è stata una solida riflessione sul tema figli-genitori e spesso figli-padre. Chissà, forse parlare troppo delle madri e troppo di Genitore 1 e Genitore 2 ha scaturito un'ondata dissonante. Forse i padri mancano oppure non sono più le figure dei No decisi oppure c'è troppa confusione tra i ruoli. Ma la sostanza sono gli spettacoli, dai quali abbiamo attinto, ai quali ci siamo abbeverati di nuove riflessioni e spunti. Come “La Divina Calabria” di Giancarlo Cauteruccio che non smette di stupirci: idea geniale quella di prendere un locale sfitto sulla via principale, accanto ad un bar dai tavolini affollati e un kebab dagli odori e suoni e lingua araba. Tra caffè e carne bruciacchiata messa dentro pane e stagnola ecco che si apre l'antro della Sibilla Cauteruccio che, sull'immancabile carrozzella beckettiana, feticcio e firma, ha aperto il suo temporary shop dove all'interno un cantore, lo stesso Maestro cosentino-fiorentino in dark, due coriste-vocalist-cantanti in nero e sullo sfondo un performer in un'azione che ricordava il riscaldamento pre-nuoto, lo stretching, la ginnastica per cercare di non affogare nello Stige dei nostri peccati. L'eco rimbombava tra le pareti bianche, immersi nelle luci rosse rotanti di sirene, con questa acre Divina Commedia (canti scelti dall'Inferno, 1, 3, Purgatorio, 1, 2, 5, e Paradiso, 1, 10, 33) tradotta in lingua calabrese che pizzica e morde. Il Maestro si contorce sulla sedia a rotelle, con gli occhiali scuri da sole (non vedente tra Tiresia e Finale di Partita), mentre luci d'allarme come piccoli fari girano su se stesse creando un fremito uditivo e visivo e sonoro. Bianco delle mura, neri gli abiti, rosse le luci per un'immersione totale, da ascoltare anche senza capire. Si percepiscono la musicalità e le assonanze, i suoni e le armonie fragorose. A volte sono solo sospiri e respiri, gemiti, altri sono grida e urla. Siamo dentro una grotta moderna mentre fuori le chiacchiere sono attutite dalla musica, le auto continuano a strombazzare, il mondo è lontano. Un Dante in carrozzina in questo rito per poche persone alla volta. Se Cauteruccio è bloccato, il performer, lo snodabile Massimo Bevilacqua, sullo sfondo è in continuo movimento, i canti, delle brave Anna Giusi Lufrano e Laura Marchianò, addolciscono e sottolineano questa potente esibizione.

L'incastro tra il drammaturgo Mariano Dammacco (e la sua attrice di riferimento e sodale Serena Balivo) e il performer a tutto tondo Roberto Latini non è riuscito alla perfezione in questo “Danzando con il mostro” (prod. ERT - Lombardi-Tiezzi) rarefatto affresco giocato più sulle epifanie e sulle apparenze che su una precisa corposa sostanza. Due personaggi in scena, che non capiamo, tra dialoghi surreali (il pubblico ride, e molto purtroppo, sulla reiterata parola “Cog-lioni”, detta proprio così, staccata e con questa scansione) che più che dipingere un habitat metaforico creano una confusione di immagini, sovrapposizioni, spaesamenti, nebbie, fraintendimenti. Dopo poco non si riescono più a cogliere i confini dei personaggi, scivoliamo, cadiamo, chi sono questi due? cosa fanno? perdendoci dentro dialoghi sospesi tra una Balivo-Franca Valeri e un Latini-Petrolini in un incedere che non NITROPOLAROID.jpegtrova un felice sbocco fluido. Diciamo criptico.

Un tempo c'è stato Antropolaroid che tanta fortuna ha portato a Tindaro Granata. Adesso arriva questo “Nitropolaroid” dei Crack24, scatto impressivo di una famiglia esplosiva. Parte benissimo questo scritto, in parte autobiografico, dell'autore Riccardo Lai. Un racconto fortemente tratteggiato dalla calata sarda, un autodramma per dirla con le parole che Strehler usò per definire il Teatro Povero di Monticchiello. A grandi intuizioni seguono acerbità e ingenuità. Lai, protagonista in scena (somiglia a Nicholas Cage), dà subito una bella carica alla platea, tra il sardo e un italiano sardizzato raccontando, da dentro, la sarditudine, la distanza, geografica e culturale, dell'isola, il mirabolante Continente da temere e da affrontare. Seguono scene e quadri, surreali e grotteschi, parodistici, e fin quando si rimane su questa falsa riga il tutto risulta fruibile e godibile. Poi sembra che gli sia sfuggito di mano qualcosa perché cambia bruscamente il clima che si fa cupo e tenebroso tra streghe e omicidi: un altro spettacolo proprio. Nella prima parte (dove la platea era tutta con loro), che ha il sapore di un Far West simpatico, con risvolti sociali e antropologici ma sempre sul difficile terreno ed equilibrio sottile di un'autoironia pungente, si ha la sensazione di una leggerezza intelligente ma allo stesso tempo siamo rapiti dalle sorti di questa famiglia rurale e da questo figlio che vuole seguire orme e sogni differenti. Qualcuno potrà dire generazionale, sì, è vero, però fatto bene. Alcune scene troppo allungate e annacquate, le streghe nel bosco ad esempio, anche se l'impianto a metà tra “Nozze di sangue” di Garcia Lorca e “Macbettu” di Alessandro Serra, sembra funzionare, tra il I Macbeth.jpgmistico e il mitologico, il sogno e la leggenda. Il ritratto del padre o dello zio (parla come un mix tra Maria Amelia Monti e Gianni Brera) sono folcloristici e curiosi, così come la scena delle tre suore (molto Marta Cuscunà). Poi, inspiegabilmente e senza alcuna ragione e spiegazione, si entra su un terreno drammatico pesantissimo che sconfessa tutto il precedentemente espresso: un Cristo in croce fino, appunto, ad una morte violenta che ci coglie impreparati ed è fuori luogo. A tratti la voglia di gag gli ha preso la mano: less is more. Dopo il crack, il punto di rottura segna anche un punto di non ritorno e “Nitro” diventa tutt'altro spettacolo che, improvvisamente, non funziona più. Purtroppo.

Dopo “Riccardo 3” arriva la seconda parte della trilogia shakesperiana frutto dell'incastro tra Vetrano/Randisi e Francesco Niccolini: “I Macbeth”, prod. Arca Azzurra (seguirà Amleto). L'impianto è quello di R3, una struttura di contenimento coercitivo, un carcere manicomiale di loculi e catene dove sono rinchiusi i personaggi delle tragedie del Bardo o persone che si sono così tanto immedesimate da credersi loro e sentirsi tali. Hanno tic e sentono fantasmi dentro le loro teste, dentro le loro orecchie che ritornano e non li lasciano in pace e i loro dialoghi arrivano direttamente dalla letteratura inglese seicentesca con innesti di quella cultura contemporanea voyeuristica televisiva che ben si presta alle vicende di cronaca nera del Belpaese. Così al Macbeth vengono aggiunti Olindo e Rosa e il caso Varani e tutto prende senso e “questa notte atroce e insanguinata” la sentiamo più vicina, più nostra, più tangibile, meno lontana, meno impossibile. I tratti sono cupi, barbari. Ancora manca qualcosa oppure questo secondo step troppo ricalca il primo passaggio da assimilarli.

Tommaso Chimenti 06/10/2022

SPOLETO – Gli esperti ci dicono che Don Giovanni e Casanova hanno tratti dissimili, lontani, divergenti. Eppure hanno in comune, a nostro avviso, da una parte la cupezza della disperazione esistenziale che li porta a cercare la carne non come soddisfazione ma come dissoluzione e disfacimento e distruzione, dall'altra la morte che aleggia, quasi la ricerca furiosa e forsennata della stessa, quasi fosse una punizione autoinflitta, una discesa agli inferi attraverso i piaceri smodati, attraverso l'abuso, l'eccesso, la caduta. “Don Giovanni” (3h 30' con intervallo) può essere rappresentato in forma leggera o in una versione più introspettiva, questa del Teatro Lirico Sperimentale spoletino, diretto da Salvatore Percacciolo e per la regia di Henning Brockhaus, tira molto sul lato comico, la prima parte, 02_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpge pesantemente drammatica la seconda, pur sembrando ridondante, troppo sottolineata. Rimane lievemente nel guado, nella non scelta, in un equilibrio equidistante che non soddisfa né l'una né l'altra parte restando imbrigliato in un gioco di colori sgargianti e soprattutto in una scenografia esondante, piena di riferimenti, anche non coerenti, colma di segni e oggetti che hanno spostato l'attenzione sui significati, sulla forma più che sull'analisi profonda di un testo multisfaccettato e composito come appunto il Don Giovanni. Se lo rappresenti soltanto come un donnaiolo irriducibile, un guitto, un bravo, un guappo (forse dovrebbe anche farci simpatia?) che ottiene le virtù delle fanciulle con stratagemmi, furbizie, inganni e violenze, fai un torto alla sua figura e, in maniera maggiore, a tutto il marcio, il sommovimento interiore emotivo psicologico di un personaggio che incontra la Morte, uccidendo caravaggescamente il Commendatore, e portandosi addosso come stigma, il simbolo dell'inferno. Un Don Giovanni che all'inizio entra dentro una tela da pittore, come un Dorian Grey, sfondando la parete ed entrando in un disegno più grande di lui.

Qui, nel primo atto in maniera evidente ma anche nel finale, si cerca più uno sfogo burlesco, burlone e gioviale, si fa leva sul battutistico (ad esempio un Leporello, disegnato con giacca di cuoio alla Fonzie, è raffigurato soltanto come un ruffiano bieco quando in realtà è l'altra faccia della medaglia di Don Giovanni). Si punta molto sul sesso, sugli incontri, sugli amplessi patologici, sul gioco d'accumulazione, anche se sembra che il nostro Cavaliere, rocker irrispettoso, impetuoso, libertino e arrogante, ami più la conquista seriale e sincopata e bulimica che la carnalità vera e propria: come se avendo perso la propria anima volesse cibarsi vampiristicamente di altre aure per riempire questa sua mancanza profonda e vuoto siderale succhiando la vita di vergini per ritrovare la purezza e il candore dissipati e smarriti per sempre. E ci ha lasciato stupiti la decisione di vietare la visione dell'opera mozartiana ai minori di diciotto anni: la parte più scabrosa, ad essere fiscali e ortodossi, era la locandina (scena non presente sul palco perché è un dipinto di Jack Vetriano) con Don Giovanni in piedi e una fanciulla seduta su una sedia 04_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgdi spalle in una posa da possibile, ma non esplicita, eventuale fellatio. In scena invece nessun momento di nudo, nessun quadro discinto o smaccatamente violento, con i costumi delle ragazze che ricordavano il Moulin Rouge con qualche fondoschiena al vento ma niente che non si trovi in ogni sito internet pubblicizzando lingerie e pizzi vari.

La cosa però più ingombrante e imponente che ha destato in noi più perplessità è stata la scenografia monstre, curata più per colpire nella sua abbondanza e voracità che per l'efficacia e la funzionalità: tra i fondali che si susseguono forse soltanto il primo, con sette donne di schiena (una sorta di ballerine di Degas con in mostra in prima vista i sederi rotondi) e l'ultimo con uno sbaffo di vino (sangue e sesso) possono in qualche modo essere in linea con il titolo, gli altri che si susseguono, astratti, riescono a complicare maggiormente la visione di ulteriori colorazioni e cromatismi. 05_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgIn alto restano sospese decine di sedie (Ionesco?) alle quali non siamo riusciti a trovare un significato soddisfacente. Cadono dall'alto infinite paia di scarpe femminili con tacchi vertiginosi per feticisti, mentre ai lati della scena, un po' nascosti e nel buio, stanno banchetti con tavole imbandite, quasi brechtiane, e candelabri con uomini e manichini nudi di donna come se la scena che stiamo-stanno guardando sia teatro nel teatro all'interno di un locale da spettacoli hot, come le odalische nei palchetti con le bolle di sapone. Addirittura, ad un certo punto, spunta anche un orso polare bianco (sembra quello di uno spot anni '90 della Coca Cola) che, con tutta la buona volontà, non siamo riusciti a collocare né filologicamente né come scelta azzardata e contemporanea. Insomma tanto, molto, troppo, un frullato 06_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgdai tanti gusti aggiunti per somma e forse non per esigenza narrativa o drammaturgica.

Le donne in bianco virgineo, mentre Don Giovanni inguaribile uomo senza onore, mentitore e traditore e bugiardo è in un giubbotto nero da motociclista demoniaco, non hanno libero arbitrio ma si lasciano prendere come burattini senza scelta né consapevolezza per poi, alla fine, cercare di fargli la pelle per punirlo moralisticamente: “Questo è il fin di chi fa mal”. Anche il Commendatore, che torna dal mondo dei defunti per colpirlo con le fiamme degli Inferi, si presenta dalla Platea (tecnica qui spesso usata per non dire abusata) con i led che lo illuminano da sotto la giacca. Più che l'opera incede e più zoppica. Infine sottolineiamo i costumi di Giancarlo Colis e tra il cast spicca Alessia Merepeza nei panni di Donna Elvira.

Tommaso Chimenti 20/09/2022

Foto: Ludovica Gelpi

Giovedì, 05 Maggio 2022 12:46

La Classe di Garella non è morta

BOLOGNA – La differenza salta agli occhi, diceva un De Gregori che discettava tra il bisonte e la ferrovia. Ma il confronto tra “La classe morta” di Kantor e “La Classe” di Nanni Garella sta proprio in quella mancanza, in quell'assenza di quell'aggettivo pesante, ingombrante, assoluto. Sembra poco, un aggettivo, ma qui dà nuovo senso alle stesse parole, alle stesse azioni, dona speranza per una compagnia per metà composta da attori (sei) e per l'altra metà da componenti dell'Associazione Arte e Salute, pazienti del Dipartimento di salute Mentale di Bologna. Sulla scena la dozzina è ben calibrata e se ne perdono i confini in un equilibrio artistico e attoriale che li fa essere sullo stesso piano, senza sbavature, senza discordanze, scarti e difformità che l'arte e la recitazione e lo stare su un palco, dentro le parole La classe ph Stefano Triggiani (8).jpgkantoriane, ha azzerato. “Morta” è stato eliso perché recitare, nel piccolo e intimo e raccolto Teatro delle Moline (dove ERT mette in scena piccole produzioni nostrane di grande apertura e respiro, ruolo fondamentale di un Nazionale), è vita, rinascita, sorpresa, scoperta, nuova linfa.

Testo La classe ph Stefano Triggiani (9).jpgmigliore non poteva esserci per questa compagnia nata a fine millennio scorso. L'impianto è quello dell'originale del '75 del regista polacco (ma senza una figura che ne ricalchi la sua presenza in campo): banchi di scuola funerei che sembrano inginocchiatoi penitenti da chiesa ottusa e claustrofobica, abiti pece stinti e facce bianche cadaveriche per un'installazione umana che si anima dopo un torpore secolare, come un sogno che ricompare catartico, un ritornare alla vita passata, un incedere dentro le pieghe del tempo andato, un ripercorrere anni e traumi, in un loop che sa di rivincita, di riconquista, di contrappasso, di purificazione. Infatti le azioni sono reiterate e prendono vigore proprio dalla loro riproposizione continuativa, come un riflesso che si propaga cambiandone i contorni, rafforzandone il contenuto ad ogni mossa, ad ogni nuovo ciclo. La classe come microcosmo dell'esistenza con i soprusi, i maestri, i kapò, il potere che soverchia il popolo, le angherie, la massa che si fa caos; come una fisarmonica si riempie e si svuota. Adesso l'aula è sovraffollata perché ognuno degli attori ha in mano dei pupazzi, quasi a grandezza naturale, i loro doppi di quando erano ragazzi, giovani, bambini, si portano in giro, si coccolano come marionette e bambole, si accudiscono con dedizione e cura e delicatezza. Ognuno di noi dentro ha sempre il fanciullino che una volta è stato, compresi i traumi che ha vissuto, passato, subito.

E' nella ripetizione meccanica degli avvenimenti che si esalta e sublima il senso di questo limbo purgatoriale, le processioni vorticose attorno ai banchi sembrano una danza, una coreografia di dervisci la-classe-luca-sgamellotti-2_1000x0_79620d41ddda236ca32c486beca1c7f2.jpgche incanta, che trascina in un'altra dimensione, una spirale che spalanca le porte del tempo. Come le filastrocche e le canzoncine, quelle nenie cullanti e inquietanti che trascendono in un mondo parallelo, seppiato e offuscato, scolorito e immaterico. Ognuno con il suo alter ego deve sempre fare i conti, ogni personaggio colpisce violentemente il suo fantoccio, lo uccide, li accatastano in un angolo, in quella crescita che disconosce l'età fanciullesca, quell'adultità che vuole cancellare le origini, rinnegando il prima in cerca di un futuro vergine da conquistare. Senza il passato e la memoria, lo sappiamo, non può esserci un domani limpido.

E qui ilaclasse14.jpg bambolotti sostituiscono i vivi sulle panche, le loro essenze che non si sono mai allontanate da quell'atmosfera restrittiva (il messaggio politico allora era chiaro, nel nostro caso, all'opposto, forse il riferimento è all'infanzia inteso come tempo neutrale prima della consapevolezza e della malattia conclamata e certificata), che non sono mai riuscite definitivamente a staccarsi, sganciarsi da quella cupezza, da quel legno bruno. Questo manipolo di uomini e donne eterei e chapliniani, pittoreschi al limite dell'essere foloniani, fragili e vulnerabili, con i loro movimenti automatici istintivi quasi involontari pinocchieschi, oniricamente incastonati e relegati nel tempo paludato, asfittico e impantanato, esotericamente imprigionati e imbrigliati, fantasmi attanagliati nella maglie della clessidra potrebbero essere un coro greco di anime o parte di quelle manifestazioni di lamentazioni funebri pubbliche, prettamente del folclore del Sud Italia, le prefiche, che si sciolgono e dolgono rumorosamente e plasticamente in sceneggiate lacrimevoli, in pianti rituali strazianti, adombrandosi in lagnanti litanie angosciose e laceranti. Come se il tempo si fosse inceppato in una seduta spiritica, come un disco rotto con la puntina gracchiante arrugginita, a rievocare lo spirito di se stessi quando, forse, erano felici non sapendo di esserlo.

Tommaso Chimenti 05/05/2022

visto al Teatro delle Moline il 03/05/2022

Foto: Stefano Triggiani, Luca Sgamellotti

BOLOGNA – In Italia scorrono circa 1200 fiumi che principalmente nascono dagli Appennini o dalle Alpi. Il più lungo è il Po che attraversa la Pianura Padana per oltre 650 km. Proviamo adesso a calcolare le migliaia di chilometri di argini che ci sono, che ci sarebbero dovuti essere, che mancano perché la manutenzione nel Bel Paese è roba da emergenza, da stato di calamità, fatta di malaffare e corruzione e cattiva politica. E allora ecco il Polesine nel '51 con 100 morti e 200mila sfollati, gli straripamenti del '54 a Salerno con oltre 300 morti, il Vajont nel '63 con 2000 morti, l'alluvione di Firenze nel '66, nel '68 a Biella e Asti con 78 morti, Una-Riga-nera-ph-Mario-Zanaria.jpgnel '94 ancora in Piemonte con 68 deceduti, il fiume di fango nel '98 a Sarno con 160 morti. Negli ultimi anni ricordiamo Livorno e Genova ed anche la tempesta Vaia (raccontata mirabilmente in teatro da Andrea Pennacchi), ma di eventi distruttivi naturali, che potevano essere controllati dall'uomo, avvengono ogni anno sul nostro territorio ed è facile dopo, a cose avvenute, scandalizzarsi, mettersi le mani nel capelli, piangere, indignarsi, fare una raccolta fondi per la ricostruzione.

Una riga nera al piano di sopra” (il titolo evocativo e bellissimo che sembra uscito da una poesia di Mariangela Gualtieri) rende bene, in un attimo, la fotografia della disperazione umana davanti alla furia dell'acqua, una riga nera che sembra rimmel sbafato sugli occhi piangenti di una donna di campagna, una riga tracciata tra ciò che era prima e quello che non sarà mai più, tra quel che c'era e quello che sarà trasformato perdendone la memoria e la tradizione, una riga come limite purtroppo valicato, una riga come confine deturpato e frontiera sfondata, una riga come spartiacque tra il fiume che era e il fango e detriti carichi di morte e povertà che adesso tracima e corre e travolge e sporca e lorda ogni cosa vivente e inanimata. Matilde Vigna (ha un volto “antico”; già due Premi Ubu nel suo palmares) è originaria del basso Veneto, terra di polenta e pane biscottato, una campagna dura rispetto ai merletti di Verona, i lussi di Padova, agli sfarzi di Venezia, ai palazzi di Vicenza. Un altro Veneto, più vero, più terreno, più tattile, fatto di mani e calli e lavoro. La Vigna (farà grande il teatro italiano nei prossimi 50 anni; ha un che della Vanoni; davanti a sé un futuro radioso da nuova “Maria Paiato”) è al suo primo testo che ha portato al Teatro delle Moline bolognesi nel bel progetto di produzione Ert sempre attenta alla nuova drammaturgia.

Un testo una-riga-nera-8-ph-Mario-Zanaria.jpgsolido, compatto, denso con l'attrice che ci aspetta in sala e una panca grigia che divide l'orizzonte dello sfondo nero alle sue spalle (fondamentale il disegno luci di Alice Colla). Ha in mano una pianta, un bonsai, quella natura che si ribella, quella natura che ha bisogno di noi, quella natura da cui inevitabilmente dipendiamo che però vogliamo distruggere e non rispettare per amore dell'asfalto e del cemento, di un illusorio progresso. La faccia è nascosta, celata, nella penombra, nell'oscurità. Ci apre alla memoria della sua terra con passione, tenerezza, senza fronzoli. Polesine 1951. Una performance carica di pathos e forza espressiva (teatro civile quasi paoliniano) nelle parti ombrose e in chiaroscuro dove è l'alluvione e lo stravolgimento delle terre soverchiate come delle vite trascinate nella melma a tornare in superficie, un racconto pieno, commovente, toccante, incisivo, corrosivo che ci arriva fino in fondo alle ossa e farci sentire il gelo dell'acqua fredda, quella miseria che la puoi toccare con mano. Parallelamente il percorso drammaturgico devia in un nuovo binariouna-riga-nera-al-piano-di-sopra-ph-mario-zanaria-4_1000x0_1ee8dbe6c85c42d219d01dab2263cb86.jpg che fa da contraltare a quello del ricordo, una parte più autobiografica, che intervalla quella drammatica, in piena luce anche sul pubblico, nella quale l'attrice si lancia in un filone generazionale di case, affitti, amori andati a male, ritorni a casa, valige da fare e smontare, rifare e lasciare.

Certo la metafora della valigia è centrale e subito la mente va agli sfollati di tutto il mondo, ai migranti di ogni epoca, oggi inesorabilmente al popolo ucraino. Ma lo scarto, in un equilibrio fragile e precario (certamente voluto), tra le due componenti è abissale: da una parte la scena spettrale di fumo e nebbia della furia del fiume in piena (il progetto sonoro di Alessio Foglia ben coadiuva le parole che diventano armoniose quasi poesia futurista onomatopeica, parole che si inseguono e corrono come una valanga, una cadenza, una scansione tambureggiante da ruscello di montagna, una musicalità che sembra una percussione industriale) dall'altra la “leggerezza” dell'oggi tra sogni infranti (Bridget Jones?) e le incertezze dei trentenni sul futuro (già visto, già sentito) che spezza l'armonia, blocca il trasporto, ferma l'emozione e il sentimento. La Vigna è un grande patrimonio del nostro teatro, “Una riga nera” è un bel punto di partenza come drammaturga.

Tommaso Chimenti 24/03/2022

Foto: Mario Zanaria

GENOVA – Il G8 genovese del 2001 è ancora una ferita aperta? E che cosa ne è rimasto, negli occhi, negli intenti, nelle politiche, a distanza di due decenni? E come hanno visto quei fatti così gravi, la morte di Carlo Giuliani, la macelleria della scuola Diaz, all'estero, dagli altri Paesi? Riflessioni che trovano ancora punti di domanda e qualche certezza forse sbiadita dal tempo e da tante altre sciagure e disgrazie e tragedie occorse a livello globale in questi anni. E il teatro deve porre interrogativi, dubbi, aprire discussioni, attraversando il pathos, la cronaca, le emozioni non per giungere alla verità ma semmai avvicinarsi alla comprensione, capire invece che giudicare. E Genova, città colpita in primis da quell'accadimento di portata mondiale e ancora ricordata per quei devastanti giorni di luglio, ha voluto ricordare e celebrare, sicuramente non dimenticare, tutto quello che accadde ma anche le istanze, le voglie, le manifestazioni, il desiderio di cambiare le cose di vent'anni fa. Che poi venti anni sono tanti o sono pochi a seconda da che punto di vista li guardi. Genova città di teatro, città di mare, città di porto, con il suo Teatro Nazionale ha ideato un format interessante, culturalmente e umanamente, uno spartito dalle tante voci, un caleidoscopio di intelligenze e documentazioni, di teste pensanti e architetture sceniche, soprattutto di parole nella grande (e grandiosa) produzione “G8Project” nato dalle menti e competenze del direttore Davide Livermore e del critico-dramaturg Andrea Porcheddu.

70 anni del Teatro Nazionale, 20 dal G8 fatidico, 9 spettacoli di altrettanti drammaturghi internazionali (da Francia, Russia, Germania, Canada, Gran Bretagna, Belgio, Giappone, Stati Uniti e Change le monde - dellavalle-4.jpgovviamente Italia) coinvolgendo trentacinque interpreti: una festa per gli occhi, una festa per il Teatro, un respiro internazionale del quale sentivamo un grande bisogno. Spettacoli con tagli differenti, onirici, crudi, grotteschi, ironici, polizieschi, trasognanti, iperbolici, futuristi, documentaristici, arrabbiati, poetici. Un grande ventaglio che è andato in scena in forma di maratona, dalle due di pomeriggio alle due di notte (organizzazione impeccabile) tra il Teatro Ivo Chiesa e il Teatro Gustavo Modena e che saranno nuovamente on stage tra il 10 e il 27 ottobre due o tre piece per sera. Sottotitolo deflagrante: “Il mondo che abbiamo”, ovvero quello che abbiamo costruito, quello che è stato reso impossibile, quello che ne è stato e che è diventato dopo la deriva di quel G8. Aggiungendo poi una didascalia fondamentale che fotografa alla perfezione questo affresco: “tra memoria e futuro”, un piede nel passato per guardare meglio, e con occhi nuovi, il domani che ci attende. E il Nazionale di Genova, con un grande sforzo di mezzi e lungimiranza, si è creata un repertorio di produzioni di qualità per i prossimi anni. Ecco i nove drammaturghi, Roland Schimmelpfennig, Nathalie Fillion, Guillermo Verdecchia, Fausto Paravidino, Sabrina Mahfouz, Toshiro Suzue, Wendy MacLeod, Ivan Vyrypaev e Fabrice Murgia, che hanno dialogato con i registi Giorgina Pi, Mercedes Martini, Serena Sinigaglia, Thea Dellavalle, Teodoro Bonci del Bene, Kiara Pipino, Thaiz Bozano, oltre che da Fausto Paravidino e Nathalie Fillion che hanno messo in scena i propri testi. Iniziativa originale è stata anche quella, anche per andare incontro ad un pubblico giovane e social, di dire, ad inizio di ogni spettacolo, che era possibile fare foto e video per promuovere gli eventi sui vari canali come fosse un concerto rock: un deciso cambio al passo con i tempi.

Si parte dagli occhi giganti indagatori sul video-fondale di “Change le monde, trouve la guerre” di Fabrice Murgia per la regia di Thea Della Valle. Gli occhi della giovane che era la protagonista a confronto con gli occhi della stessa oggi quarantenne tornata dopo venti anni in quella stessa Genova che l'aveva prima accolta e poi sputata via. I video che aveva girato quella notte alla Diaz sono ancora lì intatti, il trauma è ancora presente. Un racconto dritto (Irene Petris in forma), un racconto su quella Genova se vogliamo consuetudinario, prevedibile e la Our hearts - martini-7.jpgrisposta alla domanda “Un altro mondo è possibile?” è purtroppo: “Sì, ma peggiore”. I manifestanti pacifisti dei quali ci narra Murgia sono passivi-aggressivi e vivono di provocazioni punzecchiando i poliziotti “pasoliniani” per scatenare una guerriglia urbana più che parlare di temi e ideali. Poi “Boys don't cry” dei Cure ci mette tutti d'accordo. Niente di nuovo aggiunto alla riflessione.

Our heart learns”, di Guillermo Verdecchia per la regia di Mercedes Martini, parte da lontano e lo fa ampliando l'ottica dello sguardo e arrivando a Genova dopo un lungo percorso personale interiore dei due protagonisti (veramente bravi Martina Sammarco e Matteo Sintucci) che a cavallo dell'ironia, dell'amore, della disperazione e dell'allontanamento ci conducono dentro le pieghe di come un grande evento possa avere risvolti e riflessi sulle nostre piccole esistenze, cambiandole, distruggendole, disintegrandole. Studenti provenienti da ceti differenti, lui dalla campagna con un padre violento, lei figlia di avvocati impegnati nei diritti umani. E' la parabola del loro sentimento che nasce, passando dalle manifestazioni a Vancouver, Quebec City e Seattle fino alla Liguria, si alimenta fino all'implosione proprio dopo la grande paura subita a Genova, con lei che quasi giustifica la violenza e lui che la nega e la rifugge. Una scansione piccola che apre ad un cono globale per poi tornare a zoomare sulle loro vite Trascendance - sinigaglia-15.jpginevitabilmente cambiate per sempre, sul loro amore rotto e interrotto. “Ragazzo mio” di Ivano Fossati (dopotutto la Martini è la moglie) chiude commuovendoci. Come sempre.

E' molto urlato invece “Trascendance”, di Sabrina Mahfouz per la regia di Serena Sinigaglia. Su un letto due giovani trascorrono questi ultimi venti anni, a step di un lustro alla volta con le parole che si formano dietro lo schermo. Più che parlare di Genova si parla di droghe in una continua escalation da quelle leggere alle pesanti. Una storia di un amore alla Trainspotting che non ci restituisce il sapore acre dell'argomento di fondo.

Sherpa - pi-1.jpgArriviamo così ad uno dei migliori pezzi (non è certo una competizione ma il vederli tutti uno dopo l'altro crea anche delle piccole gerarchie di gusto) dell'intera maratona: è “Sherpa” di Roland Shimmelpfennig per la regia di Giorgina Pi, quasi un poliziesco con una tempra simenoniana e un'atmosfera retrò ed elegantemente feroce. Sedie e lampade, come fosse un continuo interrogatorio su ogni personaggio, e una drammaturgia che passa con naturalezza e senza sconti dalla cronaca (un fratello sulla nave dei potenti al largo del porto di Genova a fare il lavoro sporco, una sorella a manifestare ed essere pestata nel garbuglio umano) all'onirico fino all'incubo. Cinque punti di vista differenti, passandosi la parola, in un'esposizione scenograficamente minimalista e allo stesso tempo lessicalmente barocca. “Sherpa” (Gabriele Portoghese su tutti) ci dice che il G8 non fu solo Carlo Giuliani e la Diaz ma tante altre storie confuse, contorte, aggrovigliate, sedimentate, impastate come fili srotolati dal vento del tempo.

Il complicato “Dati sensibili” di Ivan Vyrypaev per la regia di Teodoro Bonci Del Bene ci ha rivelato l'estrema bravura del regista-attore Dati sensibili - bonci-8.jpgsolo in scena in questo monologo denso, teso come una corda di un arco. Una sedia e tre interviste ad altrettanti scienziati per comporre un quadro ampio e variegato sui temi che avevano affascinato e affabulato i movimenti no global ma anche molto altro. Un testo che si discosta molto dal clima del “G8 Project” ma intenso sia attorialmente che per le sue dinamiche: si tocca lo sviluppo cognitivo e Dio, la necessità della violenza nella nostra società, l'omicidio, l'omosessualità e le droghe, il clima, i regimi totalitari e il virus che attanaglia il pianeta Terra: gli umani. Il tutto, nel tritacarne, per arrivare a ben più spicce e fragili questioni in un triangolo amoroso non squallido ma semplice e forse banale. Come a dire che se gli Uomini non vedono oltre il proprio orticello sarà molto complicato che intervengano su questioni a lungo raggio come appunto l'innalzamento delle temperature. Siamo piccoli e facciamo scelte piccole.

In situ - fillon-3.jpgTorna il sogno e il trascendente ne “In situ”, il bellissimo pezzo composto sulle parole e regia di Nathalie Fillion, che mixa una scena contemporanea con il ritorno a casa di Cristoforo Colombo creando un limbo d'altrove dove queste due dimensioni convivono in modo straziante. Graziano Piazza è un Colombo spaesato e disilluso, perso in quest'intorno che non riconosce, Viola Graziosi è una madre esplosiva, divertente, atletica, tempestosa, prima sul lettino dello psicanalista poi in una corsa furiosa attorno al teatro, tra platea e palco, tra palco e realtà: “Il mondo entra dentro di me e mi consuma”. A legare i due mondi è una sorta di sciamana, Odja Llorca, che canta, intona, e ci conduce come una rabdomante, come in un rito pagano, attraverso un mantra che entra sottopelle, in un mondo parallelo in una critica all'uomo moderno, dal mare inquinato senza pesci ma con corpi galleggianti, ad un possibile ritorno alla terra come unica via per la salvezza e la felicità. Il figlio, nato proprio nei giorni del G8 del '01, sembra il più saggio di tutti ma finisce disteso in una riproposizione iconografica di Carlo Giuliani steso in Piazza Alimonda: “Il futuro è finito”. Tocca corde nascoste: emozionante.

Come colpi leggeri di pennellate pastello, delicate e soffici come carezze ma ferente come carta vetrata, è “Il vigneto” di Toshiro SuzueIl vigneto - bozano-5.jpg per la regia di Thaiz Bozano, che trasuda di atmosfere giapponesi, dagli haiku che ci conducono al vivere bucolico ai paraventi di carta di riso. Quattro donne, due di queste in gravidanza e montagne di debiti. Praticamente un “Giardino dei ciliegi” in salsa nipponica con il sogno del vigneto, che significa riscatto, lavoro femminile, futuro, e la morsa delle banche che attanagliano i piccoli produttori. La pièce, seguendo l'evolversi e il passaggio delle stagioni, ci mostra, tra cadute e difficoltose risalite d'orgoglio, le quattro eroine contemporanee schiacciate tra globalizzazione e delocalizzazione, sole e abbandonate dagli uomini, che forse riusciranno ad uscire dalle sabbie mobili. O almeno, ci avranno provato fino in fondo. La vita è anche seguire i propri ideali, contro tutto, anche contro la logica. Non può sempre vincere Golia. Non può piovere per sempre.

Basta - pipino-7.jpgL'idea di fondo di “Basta!”, di Wendy MacLeod per la regia di Kiara Pipino, è interessante, ovvero in chiave grottesca e fumettistica, esaltare la stupida violenza delle forze dell'ordine e quel mondo cameratesco e machista, sottolineando, attraverso gag coloratissime e scenette ridicole e assurde, i legami tra Polizia e Governo, intrighi di palazzo e piccole grandi ottusità e idiozie. Le violenze sui manifestanti raccontate come fossero le Comiche di Benny Hill addirittura evidenziandole con finte risate da fiction a stelle e strisce, le suonerie con Faccetta Nera, le torture e le reali deposizioni di quella terribile notte alla Diaz trasformate in barzellette fanno ancora più effetto: la banalità del Male.

E arriviamo al clou, lasciato come nelle migliori occasioni per il gran finale: Fausto Paravidino il primo che raccontò quel G8 in Genova 21 - paravidino-5.jpgteatro con il suo “Genova 01” e che adesso diventa “Genova 21”. Tra disegni, infantilmente dissacranti, e una narrazione che procede per interventi ai microfoni sul boccascena, la piece è un'arringa al non-detto, al non-fatto, alle zone d'ombra, al non dichiarato. Sembra che su questa vicenda non ci sia più niente da dire e poi c'è sempre qualcosa da sottolineare, da ricordare, da riportare bene alla mente, alla luce per non far scendere l'oblio su gravità mostruose che, per difesa, abbiamo rimosse dalla memoria. E l'incedere di Paravidivo, conduttore kantoriano delle operazioni, con il suo classico modo avvolgente e affascinante di stare in scena mix tra Valerio Binasco e Woody Allen, tra Haber, Paolo Rossi e Carlo Cecchi, che ci coglie sempre impreparati tra commozione e comicità, che ci fa Genova 21 - paravidino-10.jpgsentire partecipi e vivi. “Celebriamo i 20 anni dal G8. Che cosa festeggiamo?”, è un'atroce verità schiaffataci in faccia in questo mondo che ha bisogno di continue ricorrenze e scadenze temporali. Ma è difficile anche a distanza di vent'anni raccontare tutto quel corto circuito di Istituzioni, quel groviglio di macchinazioni. Ed ancora il drammaturgo-attore ci scuote nelle nostre certezze, dalle nostre poltrone: “Potevo essere io, poteva capitare a me” e un brivido avanza lungo la schiena e si fa pesante e concreto. Le brutalità commesse le senti tutte sulla pelle quando sale sul palco Mark Cowell, il cittadino britannico che nell'attacco alla Diaz perse sedici denti e gli furono rotte otto costole e ci dice che la parte più brutta di quest'esperienza segnante non sarebbero state le botte e il massacro che lo mandarono in coma ma tutti i processi successivi, gli incubi notturni, il non essere creduto. Sciocca ancora il racconto di quei giorni e il teatro fa riemergere le ferite, le riapre, le fa sanguinare. Nel '01 abbiamo perso l'innocenza ma in questi venti anni non l'abbiamo certo ritrovata. I nomi dei feriti di quella sciagurata notte senza alcun senso sono calci e schiaffi alle nostre coscienze. Quando tutto finisce sono quasi le tre di notte, gli occhi rigati, i nasi che colano sotto le mascherine, le mani calde per gli applausi, l'impotenza che non ci fa esclamare: “Non accadrà più”. Uva, Aldrovandi e Cucchi ci guardano.

Tommaso Chimenti 12/10/2021

NAPOLI – Non dare mai per scontata Napoli. Non credere di averla capita, non pensare di averla compresa fino in fondo. Se lo fai è la volta che ti sorprende, che ti sfugge, che ti frega, che ti fotte. Napoli è il mulino donchisciottesco arrugginito come la sua intrinseca utopia che lo muove. Infatti le sue pale sono ferme, immobili, incrostate. Napoli ti spiazza, ti spezza, ribalta le tue certezze, non annoia mai, ti scombussola, ti scuote. Intanto nello stesso giorno si può spaziare dal trovarsi davanti al Teatro Bellini Mario Martone che gira alcune scene della sua nuova pellicola, Erri De Luca che presenta un libro in Galleria, Giuseppe Conte che fa un comizio, e poi la mostra sui “Gladiatori” al Museo Archeologico che si mischia con quella blasfema al Museo Pan, mentre il Napoli è primo in classifica in Serie A. Un frullatore estatico.

Già il concetto labile ed effimero di noia, quel lieve misto tra insofferenza e leggera irritazione è la sensazione predominante all'uscita del lavoro del Maestro Christoph Marthaler (a proposito il 17 ottobre compirà 70 anni, 40 di attività), “Aucune idee”, dove, se proprio vogliamo parlare di idee, se c'erano (nessuna, come ci dice il titolo), erano offuscate, annebbiate eaucune-idee-ph-julie-masson.jpeg nascoste, quantomeno criptiche, e quando si palesavano diventavano subito ridondanti e stucchevoli. In una sorta di condominio-ufficio va in scena un teatro dell'assurdo e del non-sense lontano però dall'ironia che sempre contraddistingue le piece del regista svizzero. Manca la profondità, l'emozione, la linfa, il sangue, il brivido, senza gioia, e tutto ci lascia indifferenti, scorre senza toccarci. Sei porte che si aprono e si chiudono in maniera circense. Un uomo entra da una apertura e esce da un'altra come se fossero comunicanti anche se, nella narrazione, sono appartamenti separati. Un uomo, al quale cadono perennemente le chiavi dalle mani (per vecchiaia? per malattia?), mentre l'altro suona il violoncello (Martin Zeller). Ma c'è un terzo elemento così fondante e centrale che diventa a pieno titolo un terzo personaggio, anzi proprio perché invisibile, o almeno incorporeo e impersonale, funge da fulcro attorno al quale ruotano i due ruoli come lancette di un orologio alla ricerca del tempo perduto. E' la cassetta della posta dalla quale spuntano, anzi vengono proprio sputate con violenza quasi fosse un vomito, bibbie a getto continuo, a cascata, a valanga o pubblicità e depliant e volantini di prodotti commerciali della grande distribuzione a chili. La recitazione è fatta di vocalismi e virtuosismi fini a se stessi, tecnicismi freddi che non scaldano, non abbracciano, non aiutano la comprensione. Sta di fatto che si scoprirà soltanto alla fine che i due sono gemelli e che il rapporto con il Padre non è stato dei più facili. Ma è il mantra di tutto lo spettacolo che spinge la platea a chiedersi il perché di certe dinamiche, di alcuni movimenti e scelte quando, forse, una spiegazione logica non ce l'hanno. E ci troviamo nella scomoda posizione di cercare di mettere insieme i pezzi del puzzle e tentare di dare un ordine faticoso alle cose, alle scene viste. Il teatro dovrebbe porre interrogativi e dubbi non andare con il lanternino alla caccia disperata di dettagli e particolari per capire “chi è l'assassino” che, francamente, non interessa a nessuno.

Dicevamo duechristophe.jpg gemelli chiusi claustrofobicamente dentro questo palazzo, che potrebbe essere un labirinto dal quale, le porte che danno la sensazione e l'illusione di aprirsi su nuovi mondi invece riportano sempre come in un Gioco dell'Oca guasto allo stesso punto iniziale, non si può uscire. E se questo è un labirinto, il Padre-cassetta delle lettere potrebbe essere il Minotauro-deus ex machina che ordina senza palesarsi mai, che impartisce dettami senza concretizzarsi davanti loro fino a metterne in dubbio la sua vera esistenza. Il tutto è concettuale e rarefatto puntando più su un'estetica dalle linee nette e pulite che su una reale comprensione. L'attore (l'estroso, eccentrico e istrionico Graham F. Valentine), dai grandi mezzi espressivi e tecnicamente inappuntabile ma dagli scioglilingua estenuanti al limite della parodia stressante e provocatoria, sciorina il suo esperanto con parti in inglese altre in francese o tedesco. Nei suoi dialoghi surreali prima è un ladro che vuole rubare in un appartamento intrattenendosi amabilmente con il proprietario di casa da defraudare, poi riceve una lettera (sputata dalla solita cassetta, unico contatto con il mondo esterno) da una figlia che non sa di avere, oppure tira il guinzaglio a un cane immaginario che non ne vuol sapere di uscire di casa. Pare che quel loro piccolo mondo, fondato su minute e microscopiche certezze, si autodetermini tra il desiderio di uscirne e la paura di varcare la soglia che li lega e li separa dall'esterno, da tutto quello che si muove al di là dei loro movimento stereotipati e quotidianamente identici a ieri. 79351f24d611ff534b400736a11aa6847be737ffac555d17cd5054790e572749-rimg-w525-h350-gmir.jpg

Siamo sotto le feste natalizie e la solitudine si taglia a fette, l'isolamento, non sappiamo quanto volontario, è tangibile, palpabile: addirittura, come in una via crucis contemporanea, il nostro trascina una poltrona con sofferenza e fatica e peso, e non sappiamo se la seduta sia per la venuta dell'anziano Padre. Un teatro operistico gelido, una recitazione affettata lirica e glaciale che ha lasciato la platea non partecipativa, non coinvolta, non appagata.

Parlando di Padre e di claustrofobia spendiamo due parole anche sul “Paradiso” di Virgilio Sieni dove vediamo un Eden rigoglioso, debordante e che sembra “mangiarsi” l'uomo sulla Terra (tutti Adamo, nessuna Eva), green, bio, giunglesco, traboccante, esondante. Ma il tutto è tenue, incolore e timido, fumoso e pallido come la nebbia primordiale che nasce e cresce con un tappeto sonoro languido e ripetitivo, un groove senza grinta, piatto e monotono. Un teatro botanico e floreale. Anche il Paradiso è senza gioia e privo di felicità. “Where is the love?”, cantavano i Black Eyed Peas.

Tommaso Chimenti 26/09/2021

Foto: Renato Esposito

TODI – Todo Todi. A misura d'uomo. Si respira passeggiando dalla Cattedrale fino alla Chiesa di San Fortunato, il sole colpisce le pietre secolari creando ombre antiche. La musica classica in filodiffusione, un attore vestito da Dante declama alcuni versi, mentre due matrimoni si fanno fotografare sulle scalinate accompagnati da auto d'epoca. L'atmosfera è retrò in questa provincia sana dove l'occhio si perde nel panorama dolce di ulivi, tetti di embrici e vigne al sapore di Sagrantino corposo che asfalta lingua e palato. Pur essendo un piccolo centro l'arte sgorga da ogni strada: maestri scultori, ceramisti, artisti pittorici qui hanno le loro botteghe. Il turismo straniero è mordi e fuggi come addentare una bruschetta con il tartufo. Due fondazioni internazionali hanno qui 240860133_10215655330014679_3706660520215484974_n.jpgla loro sede: quella dedicata a Beverly Pepper, i cui interventi scultorei nel parco che sovrasta la città ricordano giganteschi cacciaviti arrugginiti installati tra un campo da basket e la torre della fortezza che proteggeva la città, e quella di Arnaldo Pomodoro, al quale è dedicata una mostra, con l'imponente foglia-osso di seppia e il labirinto con i visori, e le quattro colonne in piazza a coprire e nascondere, a disegnare ed esaltare la facciata della cattedrale. Arte da ogni poro. Due festival cinematografici e due teatrali, il Bengodi. Da cinque anni affiancato al “Todi Festival” (28 agosto – 5 settembre), per la direzione di Eugenio Guarducci, con gli spettacoli on air al Teatro Comunale, è nato e si è consolidato il “Todi Off” diretto dal regista Roberto Biselli e dal suo Teatro di Sacco perugino (con la preziosa collaborazione di Biancamaria Cola, factotum presente, figura centrale) con un programma parallelo in scena al “Nido d'Aquila”, spazio alternativo con uno degli scorci più suggestivi di tutta Todi tra colonne e tramonti, una dolcezza infinita che ci avvolge. Oltre agli spettacoli il "Todi Off" organizza laboratori d'alta formazione per attori, quest'anno erano presenti Vetrano/Randisi, Liv Ferracchiati, Francesca Della Monica. Il simbolo emblema, il segno distintivo della rassegna è quest'asola bucata da due aghi-lance che potrebbe sembrare anche una barchetta da migranti alla deriva, sempre firmato da Pomodoro. E ancora incontri letterari con gli autori e questa continua scoperta rappresentata da “Todi Open Doors”, antri, cortili, corridoi, androni di palazzi invasi dall'arte contemporanea, dalle galline metalliche a statue classiche di pane, ad ogni angolo per meravigliarsi, per finire con il concerto di Loredana Bertè. Todi Caput Mundi. I tuderti non possono certo lamentarsi. E nemmeno gli umbri.

Appena scende la notte la temperatura cala vertiginosamente, l'estate sta finendo, “L'inizio del buio” ci coglie sempre impreparati nel passaggio dall'assolato all'oscuro. Basato sulle parole veltroniane che, tassello dopo tassello, storicizza le fasi italiane e i nostri momenti di declino, l'omonima piece ha il pregio di riunire due eventi, il rapimento di Roberto Peci, fratello del brigatista pentito Patrizio, e la caduta negli abissi di un pozzo del piccolo Alfredino. Che Peci e buio hanno già una radice sintomatica sintattica comune. Il nero dei cinquantacinque giorni di clausura e sequestro e interrogatori e processo del popolo di Roberto (poi è stata ristabilita la verità storica e la sua lontananza e non aderenza al movimento terroristico rosso) e il nero negli occhi in questo buco freddo a Vermicino del piccolo Alfredo. Le vicende, soprattutto quelle del piccolo, sono purtroppo note (e continuano a commuovere a distanza di quarant'anni), le abbiamo già viste, sentite, lette Inizio-del-buio.png(in questo periodo una serie Sky su Alfredino come la piece che porta il suo nome di Fabio Banfo, così come il testo teatrale di Emiliano Brioschi “Life” sull'esecuzione Peci), ma metterle in correlazione, proprio perché scaturite lo stesso maledetto giorno, il 10 giugno 1981, è un'operazione lampante che nessuno aveva ancora cucito assieme. La narrazione dei due attori (Giancarlo Fares e Sara Valerio) è frontale, sulla testa hanno una decina di lampadari che colano come meduse per illuminare le storie, per far luce sotto la benda sugli occhi del primo, tra il fango di quel foro alle porte di Roma il secondo. Non ci vogliamo soffermare sulle storie, come detto note, né sulla recitazione che, diligente, riporta, scansiona cronologicamente in un report ma che niente aggiunge ai tanti programmi televisivi di approfondimento che in questi decenni sono fioriti. E' l'inizio e la fine che ci hanno colpito, che hanno attirato la nostra attenzione: prima l'espediente narrativo di identificare la piccola televisione arancione psichedelico, anni '70-'80, come un neonato nella sua culla e la chiusa che sbiadisce il pathos degli eventi narrati. Sembra quasi che Veltroni, questa è la sensazione, abbia preso a pretesto queste due vicende, così lontane e così vicine, per spiegarci come la televisione, soprattutto quella privata e commerciale (gli anni '80 vedranno il boom delle reti berlusconiane), ci abbia cambiato, impoverito, mutato ovviamente in peggio. Una tv volgare che ci ha involgarito, una tv stupida che ci ha istupidito, una tv violenta che ci ha affamato come lupi e incarognito come iene. Una tesi che potrebbe essere anche giustificabile ma non partendo da questi due eventi delittuosi, il primo commesso dalle BR (che ricordiamo qualcuno definì “Compagni che sbagliano” quasi giustificandone bonariamente l'operato), il secondo dall'incuria, dalla superficialità, dalla mancanza di regole e attenzione. Per colpire la televisione e il suo immaginario, questo ci è sembrato, per colpire la deriva del tubo catodico alla quale siamo stati esposti come gli abitanti di Chernobyl alle radiazioni, prendere in prestito, per puro espediente letterario, la giustizia sommaria di gruppi violenti e la morte atroce e straziante di un bambino nel freddo di una fessura a decine di metri sottoterra nella pancia della terra nel mezzo del nulla, ci sembra francamente eccessivo. La battuta finale, in dialetto romanesco, riesce in un attimo fatale a raffreddare cuore e spirito, a gelarci la commozione accumulata, a rattrappire la nostra partecipazione emotiva.

Tu mi fai girar come fossi un “Bambolo”, anche se quello messo in scena dalla regia di Giampiero Judica per la drammaturgia di Irene Petra Zani rimane fermo, immobile, statico. it_15-09-il-bambolo-quadrata_original.jpgUn testo che è una frattura, una ferita lancinante questo amore squilibrato, questa unione di disagio, questa coppia formata da una ragazza (Linda Caridi) e il suo uomo gonfiabile. La ragazza si è rifugiata in questo amore univoco, a senso unico, antropomoforfizzando un ammasso di plastica e aria dalle fattezze umanoidi maschili; con lui parla, crede di guardarsi, crede di capirsi. E' evidente lo stato prostrato di sofferenza, l'acre dolore che, grottescamente, sprizza da ogni scena ossimoricamente colorata. Da questa situazione limite, quasi hikikomorica, da questa clausura volontaria avendo come unico referente di confronto un oggetto inanimato sul quale poggiare sentimenti e sensazioni, risposte e amore a specchio (“la cosa più bella è parlare con te”), passiamo  al tema anoressia che potrebbe sembrare abbastanza forzato. Dalla solitudine al rifiuto del cibo. Ma non è finita qua perché, proprio quando la piece sembra concludersi, dopo una prima parte visionaria e rarefatta, arriva il carico e tutto torna ad essere realistico. L'autrice ci vuole spiegare il perché dell'anoressia e della solitudine incasellando in ordine tutte le componenti sfiorate, dandoci tutte le risposte alle domande aperte. Ma forse il teatro deve porre punti interrogativi non fornire soluzioni. Quindi veniamo messi al corrente che tutto è dipeso dalla violenza che il padre le ha usato, dalla depressione della madre: il teatro si sgonfia così come il bambolotto.Federica Fracassi 5Luigi Di Palma scaled

Ecco un testo, ecco una scena, ecco un'attrice, ecco una regia, signori ecco il teatro. Su un piano sdrucciolevole, in profonda discesa pericolosa, inclinato, scivoloso e faticoso, emblema metaforico e simbolo sia interiore di caduta sia socialmente come argomento da affrontare, una donna (una meravigliosa e intensa prova di Federica Fracassi, Premio San Ginesio '20 e Premio Hystrio '21, finalista Premio Le Maschere '21) vive la sua crisi di mezza età, soffre e affronta la sua “Febbre” che la sconquassa, la sobbalza, la smuove, la scuote in profondità. Una crisi che serpeggia nella nostra società che ci indora la pillola, che ci fa avere interessi che ci spingono lontano dalle cose che veramente contano, che ci fa parlare di tv, vestiti e moda allontanandoci da noi stessi, dall'essenza interiore, coscienza o spirito, che dentro continua a pulsare seppur soffocato da milioni di sovrastrutture che tentano ogni giorno di annegarlo, di toglierci la terra da sotto i piedi. Il testo dello statunitense Wallace Shawn, per la regia di Veronica Cruciani (un bel binomio di donne, regia-attrice, anche se lo spettacolo in precedenza negli USA e a Londra era messo in scena da uomini; ma la scelta ci pare azzeccata), ci porta dentro il delirio di una cinquantenne borghese che, tra momenti di lucidità dove rafforza e difende la sua idea di essere parte integrante del Primo Mondo alternando attimi di apertura, solidarietà e presa di coscienza di avere le mani insanguinate del dolore di milioni di persone sparse nel Globo, si sdoppia bipolarmente scivolando dentro l'abisso di ciò che è e di ciò che avrebbe voluto perseguire.

E' una progressiva caduta del personaggio infilandosi dentro il buco nero delle nostre vite superficiali e di facciata mentre la gente muore come mosche per garantire a noi aVeronica Cruciani.jpgperitivi e divertimenti, svaghi e lustrini che adesso vediamo e consideriamo come normalità e non come surplus e benefici. La Fracassi ci tiene in scacco fin dall'inizio perché anche noi, come il suo personaggio, siamo colpevoli o quantomeno complici di un Sistema che poi fingiamo di combattere e condannare con le adozioni a distanza, le elemosine, i cibi bio, l'accoglienza dei migranti, il non comprare olio di palma, andare al cineforum per constatare attraverso documentari la povertà e la violenza di alcuni Paesi e indignarci e commuoverci prima di andare a cena nel ristorante di grido. Ma siamo anche pedine, ingranaggi di una fabbrica più grande dalla quale, se non con azioni eremitiche e di rottura totale con il nostro mondo, rinnegandolo, che difficilmente riescono a liberarsi, a spezzare le catene dell'ipocrisia nella quale siamo cresciuti e imbevuti. Potremmo definire questa figura una radical chic di sinistra con profonde crisi valoriali che le provocano squilibri interiori, nella claustrofobia di questo bagno che gronda sangue (dentro la vasca-liquido amniotico coperta e imbrattante di rosso-corrida ci è arrivata in soccorso l'epifania dell'iconico “La morte di Marat” di Jacques-Louis David). La febbre la porta a delirare tra discorsi da aperitivo, “Mi piacciono i quadri di Matisse, mi piace la bellezza, mi piacciono le tazzine di porcellana” e la critica sociale, tra il cinismo di “Bella la sensazione di avere soldi in un paese povero” e il pensiero che vola alle guerre civili (non può non venire in mente Kabul). Un testo acido che non ti lascia tranquillo, che punge continuamente, scomodo perché ci mette davanti ad uno specchio indicandoci chi siamo, chi siamo diventati. Lo scompenso non può non attanagliare chiunque si fermi un attimo a pensare e a riflettere per poi riprendere la nostra esistenza di appuntamenti ed eventi irrinunciabili prima della prossima crisi. Alterna il pensare alle torture con la corrente alla voglia di gelato, gli stupri sistematici delle ragazze e la ricerca di raffinatezza e morbidezza. “Abbiamo bisogno di conforto, di consolazione” ci dice e in quell'attimo è la Pietà michelangiolesca e nello stesso momento è sia la Madonna che tiene in braccio il figlio, sia Gesù abbandonato sulle ginocchia della madre. Confessa: “Faccio tutto quello che posso per essere una buona e brava persona” ma qualcosa si è rotto dentro e vomita veleno: “La nostra vita non ha una giustificazione”. “I diritti degli uomini devono essere di tutti altrimenti chiamateli privilegi” sentenziava, facendoci vedere il marcio insito in ognuno di noi, Gino Strada.

Tommaso Chimenti 02/09/2021

BOVA - “La dignità è al sommo di tutti i pensieri ed è il lato positivo dei calabresi” (Corrado Alvaro). La Calabria è una madre arcaica e scontrosa e rugosa e curva che fa allontanare i propri figli per mancanza di domani e da lontano li ama ancora più forte ed è ricambiata ancora più visceralmente. Piange il cuore vedere la ferrovia che deturpa la costa, che taglia le spiagge. La terra è bruciata, la terra continua a bruciare. In alto volteggiano i Canadair che viaggiano a coppia facendo la spola tra il mare e queste montagne di stradine che si arricciolano, si inerpicano, si aggrovigliano simili alle salsicce che girano su se stesse come liquirizie, con il finocchietto selvatico e il piccante (che qui è una religione, una morale e un way of life). Questi aerei gialli e rossi vorticano nel loro brulicare tra le nuvole superando gli spuntoni di roccia che affiorano nello skyline che sembrano dover bucare e sgonfiare il cielo. Bova (da non confondere con Bova marina, qui gli abitanti ci tengono alla separazione netta) è a 900 metri sopra il livello del mare e, arrivandoci, la sensazione è quella del presepe 

236439950_10215627041667488_5028595219927995748_n.jpgda cartolina. Gli arbusti secchi ai lati della strada, l'erba ingiallita, i campanacci di pecore e capre che rincorrono l'ultima ombra nella vallata. Il silenzio è secolare, ti viene spontaneo di acquietare i pensieri banali di cittadino e stare in ascolto, di un fruscio, di un gemito, di un verso portato qui da chissà quale parte dell'orizzonte. La foschia opacizza il mare là in fondo. Quello che vedono le retine è metafora di quello che esprime l'intorno: rovi, sassi smangiucchiati, ferri arrugginiti che spuntano, abitazioni abbandonate alle sterpaglie, il ronzio costante di insetti alla ricerca di qualcosa. E' Aspro questo Monte. Ma nel selvaggio incolto ecco anche i fichi dolcissimi come le more che tingono di macchie malate e chiazze viola il cammino.
All'entrata del paese non può non colpire la gigantesca locomotiva, comprensiva di un vagone, che intasa la piccola piazzetta e relega gli anziani a giocare in tavolini minuscoli ed emargina i bambini a giocare attaccati a questa ferraglia lucente nera bordata di rosso. A Bova non c'è neanche la stazione, non ci può essere. Istituzione di Bova è il “Lestopitta”, il ristorante dei gemelli Mimmo e Nino con le loro pizze fritte farcite con melanzane e peperoni e capocollo e formaggio e il vino nero che qui tengono in fresco mentre altrove sarebbe una bestemmia. Un paese di salite e discese, da polpacci buoni, un borgo dove le case sono costruite proprio sulle rocce e il muschio le adorna, le colora di giallo, le pitta granuloso e ruvido. Salendo si arriva, passando per la Grotta degli Innamorati, fin su al Castello Normanno del quale rimangono alcune rovine e dal quale si vede un teatro all'aperto purtroppo inutilizzabile (chissà da quanti anni) perché in alcuni punti hanno ceduto le assi del palcoscenico; fare e vedere teatro quassù sarebbe una meraviglia per lo spirito, esperienza unica per attori e pubblico. A Bova tutto è slow e anche il telefono non prende e la parola “wifi” viene percepita con sospetto se non proprio come una vera minaccia all'integrità e all'identità del luogo. E' proprio un valore aggiunto quello di non poter essere connessi a null'altro che non sia quel luogo e quel tempo nel presente. Per le stradine sotto i piedi scrocchiano croccanti gli aghi di pino che sembra di calpestare un pane appena sfornato, tra i muretti a secco e le ringhiere di tronco. 

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Da venti anni vengono qui in inverno a provare i loro spettacoli la compagnia Mana Chuma Teatro (il drammaturgo e regista Massimo Barilla, l'attore e regista Salvatore Arena, il musicista Luigi Polimeni) gruppo metà siciliano e metà calabrese, e qui hanno deciso di portare la prima edizione del loro “Epic Festival” (16-24 agosto; per il futuro bisogna lavorare meglio sul pubblico) dislocato tra piccoli cortili, aie, piazzette, parchi. Siamo nella Calabria Grecanica ed anche i cartelli sono in doppia lingua: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca”, sosteneva Cesare Pavese. Nelle parole di Barilla contenute nel suo volume di poesie “Ossa di crita” (creta, argilla ma per assonanza anche grida, suggestione del tutto personale) stanno i termini e le atmosfere che identificano questa terra appuntita e solidale, che ferisce e abbraccia, zolle che producono cicoria e cardi così come la dolcezza amara del bergamotto dal profumo intenso. Ci sono le mani, i sapori, i saperi, i graffi, i chiodi e il vento, il padre, i denti, il vino, il sangue, le orme, il dolore, la carne, la pietra, la polvere, il fango, le ombre, la madre. Un libro, che qui è diventato performance, in doppia lingua, calabrese (o meglio reggino) e italiano a fronte. A strizzarle ne esce l'odore secco del sole che ferisce come arpioni. Ad accompagnare Barilla il musicista e compositore Luigi Polimeni che maneggia il Thremin, strumento che emana frequenze, carezzandolo, lisciandolo, massaggiandolo come se toccasse una pelle nuda cercando l'armonia migliore, l'onda che fa rima, l'aria che si sfarina, muove i palmi nell'aria trovando l'invisibile, sposta consonanze di materia volatile che noi scettici non possiamo decodificare sfiorando quell'asta di barca a vela al tramonto, bianca come pinna di squalo in controluce. E' una magia quella che provoca, surfando sul niente, donando senso, tagliando il silenzio. Quella di Barilla è una poesia tattile e naturale, di smozzicamenti e morsi, parole artigiane, di brace, di occhi stretti, di amore e morte.

Di spine è pieno lo sguardo, tra i fossi, tra i campi. E “Spine” (testo e regia delle due anime dei Mana Chuma, e nuova produzione), drammaturgia onirica e trasognante che, in loop, lascia i toni Gli-attori-Mariano-Nieddu-Stefania-De-Cola-e-Lorenzo-Pratico-foto-di-Felice-DAgostino-15.jpgrealistici per affondare e approdare in una dimensione impalpabile dove tre personaggi, anche scambiandosi i ruoli, se ne stanno reclusi, senza via d'uscita che non sia quella di ripercorrere gli accadimenti, di perpetrare quel dolore subito per giungere ad una nuova consapevolezza. In una sorta di taverna senza tempo l'ostessa Maddalena, il Capitano Lucio e il Becchino danzano e avanzano senza posa tra queste quattro mura che asfissiano il pensiero, si arrovellano sugli stessi argomenti in un ripetersi che torna e ritorna senza lasciar loro nessuna possibilità di movimento che non sia quella di rivivere gli eventi, nuovamente raccontarseli, riassorbire quel tragico dolore addosso, come veleno, senza riuscire a digerirlo ma solamente a ripercorrerlo, senza perdono, senza salvezza, senza assoluzione. E non si sa se siano le spine della vita che li hanno colpiti a fondo, in profondità, oppure se siano proprio loro delle spine che ormai, soltanto muovendosi nel mondo, feriscano chi gli sta accanto ferendosi a loro volta. Ogni giorno che cala gli stessi gesti sincopati, le stesse battute in questo angolo di Purgatorio che non purifica, in questa parentesi che li punisce ad una sofferenza eterna senza redenzione né possibilità di liberarsi del peso. Stonano leggermente le parti parodistiche, che sfociano nel ridicolo, troppo prolungate e forzate. Maddalena (come l'amante di Cristo; Stefania De Cola puntella le scene con eleganza e forza, tempra salda) e Lucio (Lucifero, portatore di luce; Lorenzo Praticò ha cambi di registro importanti) sono/erano una coppia, che adesso vive soltanto di recriminazioni e accuse, mentre il Becchino/Caronte (Mariano Nieddu sempre una garanzia) seppellisce i morti in questa bolla spazio-temporale, ed ha dato l'estremo saluto anche al loro figlio piccolo. E' questo il nodo e il moto verso cui tende tutta la forza e la violenza del testo, tutta la tensione di parole rimaste imbrigliate, zeppe di non-detto che ciclicamente tornano in questo pericoloso gioco a tre (assimilabile più al “Woyzeck” di Buchner che al molto citato “Otello” shakespeariano) che rivivono all'infinito la sequenza ultima, questa processione faticosa e snervante che li taglia, li spezza, li sfinisce, li prosciuga, li annichilisce, li svuota in questa condanna perpetua, immateriale e permanente: la peggiore di tutte le pene, avere la possibilità di riviverla senza poter cambiare il corso delle cose nella loro condizione di clausura.

“I calabresi sono gente dal carattere temprato come l’acciaio” (Antonio Gramsci).

Tommaso Chimenti 22/08/2021

LISBONA - Già nel 2018 Tommaso Chimenti fu insignito del prestigioso “Gran Premio” riconoscimento più alto all’interno del “Premio Internacional de Jornalismo Carlos Porto” al Festival de Almada (promosso dalla Camara Municipal de Almada), quest’anno la giuria gli ha conferito il “Premio Imprensa Especializada” (la stampa di settore, critica teatrale) per l’articolo scritto in occasione del festival dello scorso anno “Neanche il covid ferma il Festival di Almada che coraggioso rilancia” pubblicato il 5 agosto 2020 sulla nostra testata Recensito.net, nel quale aveva riportato le sue impressioni sugli spettacoli “O criado” (di Andrè Murracas), “Rebota, Rebota” (di Agnes Mateus), “Martir” (regia proprio di Rodrigo Francisco), “Turismo” (di Tiago Correia). Questa la motivazione del premio: “Una visione romantica del paese e della città facendo un parallelismo con il Festival de Almada”. Il Festival (quest’anno dal 2 al 25 luglio) è giunto alla 38esima edizione mentre la Companhia de Teatro de Almada, diretta dal regista Rodrigo Francisco, festeggia i 50 anni.

 

Queste le parole di ringraziamento di Chimenti durante la premiazione: “Innanzitutto vorrei ringraziare la Camara Municipal de Almada per l’attenzione che sempre mette nell’analizzare i testi critici riguardanti il Festival de Almada. In seconda battuta un ringraziamento doveroso al direttore Rodrigo Francisco che fin dal primo momento, complice anche la sua perfetta conoscenza dell’italiano, 220088568_10215503613621864_3323367542666283237_n.jpgsi è dimostrato un vero amico. Nel 2018 ho vinto il Gran Premio Carlos Porto in maniera del tutto inaspettata, per me quello era il primo riconoscimento nell’ambito della critica teatrale e dopo ne sono arrivati molti altri; quindi posso dire che il Festival de Almada mi ha portato fortuna. Non credevo assolutamente di poter vincere un altro premio così importante qui a Lisbona e per questo la soddisfazione è doppia. Il Festival de Almada ci permette di avere uno sguardo il più ampio possibile su quello che avviene sulla scena internazionale a livello mondiale. Ogni anno scopriamo nuovi autori e compagnie e approfondiamo il nostro bagaglio culturale e professionale. Sono molto orgoglioso di far parte di questo nucleo di giornalisti internazionali che son riusciti a vincere più volte il Premio Carlos Porto e posso dire che Almada e, di riflesso Lisbona, sono diventati miei luoghi dell’anima. Qui mi sento a casa. Ci vediamo il prossimo anno e per gli anni a venire sperando di essere letto e apprezzato da voi come è successo in queste quattro edizioni (‘17, ‘18, ’20, ’21) alle quali ho partecipato”.

Gli altri riconoscimenti sono andati: a Manuel Xestoso di “Nos Diario” il “Gran Premio” e a Goncalo Frota di “Publico” il Premio Imprensa Generalista”. Il premio, istituito nel 2008, è intitolato alla memoria di Carlos Porto, critico teatrale, poeta e drammaturgo portoghese. In questi anni hanno vinto giornalisti e critici di importanti testate portoghesi, spagnole, sudamericane, anglosassoni e statunitensi: Primer Acto, Publico, Revista Obscena, Latin American Theatre Review, Il Manifesto, Diario de Noticias, Jornal de Letras, Jornal espanhol Gara, Revista ADE, ABC, Teatro Critico Universal, Jornal Raio de Luz, Expresso, L'Humanité, L'Apuntador, Sipario, Jornal I, The Guardian, El Mundo, Nos Diario, Artezblai.

Qui il bando integrale del Premio: https://aviagemdosargonautas.net/2018/06/15/festival-de-almada-35-a-edicao-apresentacao-a-comunicacao-social-premio-internacional-de-jornalismo-carlos-porto/

E qui il link del Sindacato dei Giornalisti Portoghesi: https://jornalistas.eu/premio-carlos-porto-decidido-em-junho/

Questo invece l’articolo con il quale Chimenti ha vinto il “Premio Carlos Porto per la Stampa Specializzata”:

218448030_10215507247792716_2539142000057922278_n.jpgAlmada è sempre un soffio, un respiro, quasi un'isola lontana e vicina a Lisbona, ai suoi azulejos, alle sue strutture che cambiano, alla sua storia. Almada la vedi, è lì a portata di mano, la fotografi in lontananza che sembra irraggiungibile e quel ponte, sempre rosso fiammeggiante, pare un elemento scenografico e cinematografico messo lì per aumentare la magia del posto, delle acque che si incontrano, veloci del Tago e feroci dell'oceano a cozzare proprio davanti ai tanti murales, carichi di espressività e socialità, nati sulle vecchie e scalcinate mura di ex magazzini e vecchie fabbriche, cantieri navali in disuso. Almada pare un'isola, riconoscibile con quel Cristo che a braccia larghe ci abbraccia e non ci lascia mai soli. Gli aerei solcano di continuo il cielo anche in questo periodo post-Covid. La fase finale della Champions League si giocherà qui, a casa di Cristiano Ronaldo marchiato a strisce senza colori. La tramvia taglia Almada e la rende raggiungibile, veloce. Da Almada, con il bel tempo, si possono vedere entrambi i ponti, il XXV Aprile rosso come il Vasco de Gama bianco, oppure a sinistra Belem e a destra in alto il Castello. Negli ultimi decenni si è trasformata; sembra piccola ma è grande, moderna con le sue piazze dove giocano piccole fontane a zampillare verso il cielo, dove gli skate sfrecciano. Ecco, se vogliamo trovare un paragone, Almada sta a Lisbona come la Giudecca sta a Venezia. Città di mare, luoghi dove si respira il salmastro. 218378862_10215507065148150_4259575585637703637_n.jpgDa trentasette anni il Festival di Almada (quest'anno ancora più coraggioso di sempre il suo direttore artistico Rodrigo Francisco) è un faro nel campo teatrale europeo: in questa edizione addirittura si è passati dalle due settimane standard di programmazione (solitamente era dal 4 al 18 luglio) alle oltre tre (dal 3 al 26) rilanciando proprio quando molti hanno desistito. Anche i molti e sparsi teatri dove sono andati in scena gli spettacoli ci hanno mostrato, ancora una volta, il bisogno, la fame e la necessità di teatro di un popolo che ha vissuto il festival e riempito le sale, appuntamento atteso ed aspettato tutto l'anno: il centrale Municipal Joachim Benite che sembra una piscina capovolta con i suoi infiniti piccoli quadratini celesti a rischiarare e illuminare di luce tenue l'intorno, l'Academia Almadense moderno e funzionale, l'Incrivel Almadense cubo nero, il Forum Romeu Correia di grande impatto nel parco dove spicca la scultura delle tre braccia, con mani aperte a toccare le nuvole, l'Estudio Antonio Assuncao bianco e piccolo che pare una facciata di un palazzo messicano. Il bacalao non manca mai, nei pranzi e nelle cene condivise, momento conviviale dove potersi incontrare tra compagnie e operatori provenienti da tutto il mondo, mentre la scelta complicata è se prendere una Sagres o una Super Bock, le birre che vanno per la maggiore in Portogallo. Almada ogni anno ci sembra più attiva e contemporanea, Lisbona più fresca e giovane, il Portogallo più frizzante e aperto. Andrebbe fatto un monumento nazionale ai pasteis de nata, il pasticcino a base di pasta sfoglia e crema.

Sospesa tra cinema e teatro ci è apparsa la piece “O criado” (quest'anno soltanto tre sono stati gli spettacoli stranieri, tutto il resto erano di provenienza portoghese) di Andrè Murracas, non a caso anche regista cinematografico. Partendo da “The servant” adattato da Harold Pinter, il regista, che è anche attore e movimentatore di oggetti per le videoproiezioni ma anche lettore e mixerista al suo tavolino da lavoro centrale, è il deus ex machina che si muove, sposta, fa, articola tra i suoi mille spazi. Il tutto in bianco e nero e il tutto in continuo parallelo e confronto, in controluce, in prospettiva, in sovrapporsi, in dissolvenza, tra la realtà, la pellicola in questione e la riproposizione nel presente della stessa scena in video, quasi un doppio, allo specchio. Ma non solo; il film e le azioni del regista-performer in teatro dal vivo sono intervallate da interviste con vari attori che rispondono, leggono parti del copione o lo provano nel privato delle loro abitazioni. Murracas è molto hitchcookiano. Come se il teatro entrasse in contatto e in dialogo (diavolo?) diretto con il cinema. Ma se l'idea può essere arguta, la sua realizzazione, soprattutto con l'avanzamento, risulta didascalica con lo scorrimento delle immagini e la spiegazione delle stesse come fosse un cineforum o una conferenza o una lectio lasciandoci distanti, un po' in sordina, laterali rispetto all'opera molto nebulosa e criptica, ben orchestrata ma poco viva. E' questa la deriva del teatro o l'evoluzione del teatro? Speriamo sia soltanto la prima opzione. Il regista diventa anche dj, si improvvisa prestigiatore ma ha poca presa ed empatia ottenendo un effetto freddino che sa di un tentativo, un esperimento non andato a buon fine, naufragato senza dolcezza, rimasto a metà strada, con il colpo in canna. E se il cinema fosse soltanto il teatro in remoto?

220743099_10215512276798438_2647864091224905848_n.jpgSe “O criado” in una scala sentimentale era razionale e controllato, possiamo assolutamente affermare il contrario per quel che riguarda “Rebota, Rebota” della spagnola Agnes Mateus, un vero vulcano cosparso di argento vivo e mercurio incandescente. Sul palco è una furia, un ciclone, uno tsunami che tutto spariglia e travolge, una forza possente e titanica, una vera rocker, un fuoco, un turbine. Ha una marcia in più la Mateus nella sua invettiva che parte in tono canzonatorio e brillante e si fa pian piano sempre più atto d'accusa sul tema della violenza sulle donne divenendo, alla fine, vero e proprio stato d'allarme, processo accusatorio, presa di coscienza sul femminicidio, consapevolezza e moto di ribellione ed orgoglio. Sul boccascena, come una punk dai pantaloni dorati scatenata sulla musica techno con la faccia dipinta come Joker, la performer sperimenta la sua parodia machista-latina con tutti gli stereotipi del caso, partendo dalle offese alle donne. Il suo è un canto, un grido, un urlo, s'accapiglia, s'infervora, s'agita, si scalda. Il suo è un alfabeto delle ingiurie e degli insulti che normalmente le donne, ad ogni latitudine e in ogni contesto sociale, devono subire. Il suo è un j'accuse doloroso, a tratti rancoroso, spesso retorico, pieno di furore positivo e d'impeto rovente. Diventa cascata e torrente in piena, è un diesel che si fa turbo. Dopo gli oltraggi è tempo di scartavetrare e ribaltare il vero senso maschilista delle fiabe per bambini dove la donna aspetta sempre che il maschio la salvi, la sposi, la elevi dal suo rango di subalterna. Frasi al veleno, “nel calcio non ci sono omosessuali” o “se una donna non si sposa vuol dire che è lesbica”, fanno da contraltare con fasi più pop e leggere. E' un Leo Bassi in versione femminile, vulcanica, senza peli sulla lingua, è un Puk che non fa sconti, che non cede, che non molla la presa, che ti mette all'angolo con le spalle al muro, davanti alle responsabilità della società, degli uomini e delle stesse donne che accettano, subiscono, non si ribellano. Funambolica, elettrica, sconquassa, percuote, distrugge, è un carrarmato, un caterpillar, uno schiacciasassi che non si incrina, vera pasionaria, amazzone intensa, energia pura, spinosa, mai doma. L'elenco delle donne uccise per mano maschile tra le quattro mura domestiche in Spagna è un pugno nello stomaco ma è quando, da circense, diventa il bersaglio di un lanciatore di coltelli, metafora della condizione femminile, che il discorso si fa ancora più cupo fino a quando la Mateus non mette la testa, per minuti interminabili, dentro una carriola piena di terra ricordando lo struzzo ma anche pratiche di tortura: “Le donne dimenticano per sopravvivere, le donne perdonano”. Dall'alto cadono centinaia di palline (il rimando agli organi sessuali maschili è evidente e voluto): it's raining men!

Altro tema cruciale della nostra società è senz'altro la religione, i suoi fanatismi, i suoi deliri, le sue allucinazioni, i suoi isterismi, le sue farneticazioni, le sue esagerazioni. La religione vista come uno scudo, come un parafulmine a tutto ciò che accade, una protezione, un tetto sotto il quale rifugiarci nel mezzo del temporale della vita, un riparo conservatore e consolidato, accondiscendente e consuetudinario e consolatorio. Ma quando a diventare fanatico religioso e osservante alla lettera della Sacre Scritture è un adolescente le cose si fanno problematiche perché mette in crisi una serie di dinamiche e comportamenti assodati, crepano l'ordine costituito delle cose, il normale andamento di regole e divieti, mina l'autorità dei professori, quella dei genitori. “Martir”, testo di Marius von Mayenburg, per la regia di Rodrigo Francisco (in Italia l'hanno realizzato i Filodrammatici di Milano un paio di stagioni fa), ci porta dentro la trasformazione della psiche di un ragazzo, nel suo avvicinamento al Vangelo fino a considerare il mondo moderno come sponda naturale per le parole millenarie degli apostoli, applicando le parabole dei santi come leggi inamovibili che tutto regolano. La messinscena è ampia e aperta, bianca, pulita, un quadrato con tante finestre che adesso si fa scuola, ora casa, infine chiesa. Teche linde alle pareti dove poter scrivere (come sono gli adolescenti, teli bianchi, spugne che raccolgono) versetti e frasi, citazioni bibliche e virgolettati che danno un senso alla vita, che la spiegano, la chiariscono, vetrate come lavagne. La religione come appiglio e piede di porco per dare una definizione all'insondabile esistenza degli umani. Il ragazzo (molto convincente il protagonista) che diviene ogni giorno sempre più devoto e pio, bigotto ed osservante, che rifiuta il contatto con le ragazze, che entra in aperto conflitto con la madre e con la professoressa, nodo e fulcro della vicenda. Chi è il Martire? Chi vuol farsi Martire? Chi è vittima e chi invece si fa passare per vittima? In questo gioco al massacro ci si scambia la pena di una croce da portare per divenire quei “Martiri” che la società può tollerare, sopportare, santificare, con i quali solidarizzare e non, per senso di colpa, emarginare.

Interessantissima la riflessione del giovane regista e drammaturgo Tiago Correia che incentra la sua riflessione sul “Turismo”, quella massa di persone che si spostano, mangiano, 222105912_10215507751045297_3680106568792383037_n.jpgfanno foto, si muovono, prendono mezzi, hanno bisogno di servizi, incrementano l'indotto di un Paese inevitabilmente trasformandolo a suo gusto e misura snaturandolo intimamente. Il Portogallo, negli ultimi anni, ha sponsorizzato dinamiche per far sì che i pensionati europei, prendendo lì la residenza non paghino le tasse per i primi dieci anni. Un bel colpo, un Paese sicuro, tranquillo, con una buona qualità della vita, un clima mite anche d'inverno e nuove strutture per i suoi nuovi cittadini. E' ovvio che il turismo, e di rimbalzo l'economia, per soddisfare chi viene a spendere nel nostro Paese, lo voglia a sua immagine e somiglianza, a cominciare dal cibo, ai costumi, tutto si frantuma, si globalizza, diventa meticciato, le tradizioni si perdono, tutto si annacqua tra souvenir (prodotti comunque in Cina) e mete sempre meno esotiche ma anzi frequentatissime. Non esiste più un luogo che non ha visto turismo e turisti che sì comprano, dormono e cenano ma che trasformano le città in gadget, ninnoli, soprammobili, cartoline. Le città così violentate perdono la loro anima, i residenti che lasciano il centro affittando a prezzi astronomici. Quello che è successo con Venezia, città fino alle sei di pomeriggio invivibile e dopo deserta. Quello che è successo a Forte dei Marmi in Versilia con i russi che sono arrivati in massa a comprare le ville. Si crea una bolla finanziaria e immobiliare per le quali per i residenti che lì ci vivono tutto l'anno, i prezzi diventano insostenibili, i servizi ai quali poter accedere irraggiungibili in quella che era ed è ancora casa loro ma, in pochi decenni, esclusi, emarginati dal mercato. Se ci mettiamo anche che per attirare capitali stranieri (negli ultimi anni cinesi, russi, arabi) devi abbassare il costo del lavoro, va da sé che in molti Paesi del mondo, compreso il Portogallo e l'Italia che vivono di turismo, tra qualche anno, dopo l'ennesima fuga dei cervelli, in patria non rimanga che lavorare nella ristorazione o nella ricettività alberghiera. Un magro panorama.

La messinscena è europea, di grande respiro internazionale con un uso delle luci evocativo e serafico e sensuale, le immagini riprese in presa diretta e riproiettate sulla scena, il rumore costante di aerei che atterrano e partono per il mordi e fuggi low cost. Se tutti possono andare dappertutto allora il prezzo si abbassa compresa la qualità in nome di una quantità che diviene dozzinale, grossolana. Le Nazioni si trasformano in divertimentifici, in succursali estive per stranieri con il portafoglio gonfio. Basti pensare alla Grecia alla quale è rimasto il mare e le isole. I Paesi diventano quello che i turisti sperano di trovare, le persone del luogo vengono sostituite, bisogna imparare le lingue altrui per potergli vendere l'ennesimo ricordo a pochi euro. E' un gioco che in pochi anni può distruggere ecosistemi di usi e costumi centenari inseguendo il Dio denaro e cercando di soddisfare le richieste, la domanda che gestisce e trasla l'offerta. Dimmi cosa vuoi e sarò in grado di dartela in un cortocircuito di competizione internazionale per attrarre più rotte possibili, intercettare più flussi. Vengono scoperte nuove mete, si costruiscono aeroporti, sorgono città che non c'erano, servizi, possibilità, il lavoro c'è per tutti, sottopagato ma c'è, fin quando non viene aperta un nuovo mercato che attragga maggiormente. Perché nel mondo del turismo, dove tutti sono andati dappertutto, è la novità quello che cerchiamo sempre, il nuovo, il mai visto. Appena il turismo di massa si sposta da un luogo ad un altro vengono mese sul lastrico generazioni e popoli, famiglie intere. Il turismo è una droga, è un doping che pompa quelli che all'inizio sembrano soldi facili ma che gonfiano i conti, le spese, l'inflazione. Il turismo è come la prostituzione, vittima delle ondate e delle voglie. Gradualmente gli Stati perdono i loro connotati, la propria identità sbiadisce, diventa movida e alcool, ristorantini, code, musei. I piatti tipici si avvicinano al gusto del forestiero per poterglieli vendere più facilmente, storie millenarie di popoli si inchinano a tripadvisor, si genuflettono a booking e tutto prende il sapore di una Disneyland al retrogusto del “menù turistico”, quelli dove non mangi ma ti riempi e ti rimane quella sensazione di pienezza senza che il palato sia realmente soddisfatto. Le città diventano “a misura di turista” e non “a misura di cittadino”, il turismo che usa ed abusa, consuma e sporca e se ne va lasciando i problemi a chi la abiti 365 giorni l'anno. Turismo e responsabilità spesso sono due rette parallele. Una bellissima intuizione, una regia fresca, una dialettica efficace per smuovere il dibattito”.

Redazione

NAPOLI – Nelle città fragili, che si dibattono storicamente su un equilibrio precario (ricordiamo la leggenda di Napoli sospesa su un uovo, metafora perfetta) gli effetti di tragedie sociali come la pandemia hanno fatto ancora più danni che altrove, hanno trovato terreno fertile smontando quella socialità, quella parvenza di normalità fatta di lavori alla giornata, di “fatica” da inventarsi e conquistarsi a morsi un pezzo alla volta, giorno per giorno. E si incontrano sempre più ragazzi che ti vogliono vendere, all'ingresso di Via Chiaia o in Piazza del Plebiscito o salendo su per Toledo, calzini o penne per scrivere e le brande sotto i portici e davanti alla chiese non si contano più, sono decuplicate dal pre-Covid. La povertà la puoi conteggiare con gli occhi, ferisce. Ma Napoli si sta riprendendo.Ruggero Cappuccio.jpg Lentamente. Il turismo sta tornando. Ma si sente che è una città ferita, che ancora sanguina dolore e privazioni, dal sorriso tirato, dalle costole in fuori, che ha trattenuto il fiato per troppo tempo e questa apnea forzata, questa attesa sfibrante l'ha consumata da dentro, come un brutto male che non ha diagnosi ma batte cassa. Se l'arrangiarsi qui era considerato un valore, un sistema di vita collaudato, la costrizione del lockdown ha interrotto il percorso di generazioni, di manovalanza che sfangava la giornata. E nei bassi e nei quartieri fare distanziamento sociale era praticamente impossibile.

Il cielo questo metà luglio non è né blu né azzurro. Di nuvole non se ne vedono ma sopra il Vesuvio una caligine biancastra di foschia s'affolla e quasi lo nasconde. Vorrebbe piovere (forse vuole piangere questo cielo) ma non ce la fa. Si impegna ma riesce soltanto ad aumentare l'umidità, arrivata a livelli di foresta amazzonica. Le uniche gocce che cadono dall'alto, in questa estate da bollino hot, sono quelle che spillano e sprizzano dai condizionatori posti sulle terrazze e che fanno chiazze a terra che si asciugano velocemente. In questi giorni Napoli esplode di bellezza, nello stesso momento c'erano la mostra fotografica su Massimo Troisi, e quella su Frida Kahlo, e Klimt e Monet. Il caldo tutto tende a scolorire, è per questo che qui i toni sono più vivaci, i contrasti più aspri.

La sera però ci accoglie il fresco della Reggia di Capodimonte, nel verde torniamo a respirare. Dall'alto Napoli è bianca. Tutti gli spettacoli (la grande maggioranza campani se non proprio partenopei) concentrati su più palchi (grosso sforzo produttivo) all'interno del polmone verde della città sul golfo. E peccato che si possa vedere soltanto uno spettacolo per sera. E peccato ancora che, come in passato quando era possibile vedere e scoprire tutta Napoli attraverso i suoi palcoscenici naturali, prima il festival era dislocato in ogni angolo, dal Vomero al Real Albergo dei Poveri, dalla Galleria Toledo alla Darsena, dal Maschio Angioino al San Carlo, dal Mercadante al Sannazzaro, dal Teatro Nuovo alla Sala Assoli. Il teatro come pretesto e il contesto per esaltare la città attraverso la scena in un gioco di specchi. Stavolta il festival ha cambiato la denominazione, passando da “Napoli” a “Campania Teatro Festival” (direzione artistica di Ruggero Cappuccio, vicedirezione Nadia Baldi) per poche puntate fuori: a Benevento, ad Avellino, a Salerno, a Caserta, a Pompei (quest'ultima location gestita dal Teatro Nazionale di Napoli). Ma perché fare solo una o al massimo due repliche per spettacolo?

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Siamo riusciti a vederne tre: “La rosa del mio giardino” per la regia di Mario Gelardi ci ha lasciato dubbiosi, “Museo del popolo estinto” di Enzo Moscato ci ha sorpreso, per fortuna che alla fine è arrivato il Nest con la prima nazionale “Bufale e Liune” a firma del catalano Pau Mirò, che ci ha risollevato lo spirito. Intanto, mentre gli spettacoli a Capodimonte andavano in scena, dai vari quartieri della città scoppiavano ogni sera fuochi d'artificio e la leggenda metropolitana vuole che, se non siamo in giorni di patrono, significa che è arrivato un carico di qualcosa di illegale, come gli antichi segnali di fumo per attirare la clientela. Partiamo da “La rosa del mio giardino”; nel libretto del festival la dicitura indica “Debutto”, invece scopriamo che lo spettacolo è andato in scena a gennaio 2020. E' la presunta storia d'amore tra Salvador Dalì e Garcia Lorca. Basandosi sulle quaranta lettere che i due si scambiarono, ma la parola scritta è molto diversa da quella orale e infatti il tutto diventa difficilmente ascoltabile, non fluisce, non scorre, crea troppa distanza la poesia su carta, risulta letterario e ci appare lontano. Purtroppo assistiamo ad un'ora di scenate di gelosia, ad avvicinamenti e conseguenti allontanamenti. Sembrano due adolescenti sull'orlo di una crisi di nervi, e le due figure vengono se non proprio banalizzate quanto meno semplificate, riducendo il tutto a insignificanti screzi tra innamorati isterici e infantili, litigi da bassifondi, scambi acidi, recriminazioni, sgarbi, rimorsi, sberleffi, unghie stizzite, veleno ispido sputatosi addosso in un ballo dell'impossibilità tra battibecchi insipidi. In alcuni momenti sembra ricordare “Nella solitudine dei campi di cotone” di Koltes, dove un personaggio vuole vendere qualcosa all'altro senza che questo sappia di volerlo avere. Purtroppo qui non ci sono nemmeno Genet né Fassbinder né Testori per raccontare questo amore interrotto. La dimensione onirica e questa prolungata dinamica di attrazione e repulsione è una battaglia faticosa per lo spettatore (durata di un'ora). I due attori sono troppo sottolineanti, molto “teatrali”, in perenne posa, un'interpretazione forzata e sovraesposta.

Dall'incontro mancato tra Dalì-Lorca a Enzo Moscato la situazione non cambia. Anzi. “Museo del popolo estinto” è quasi un testamento artistico però Moscato (legge e non recita) che è in scena ma in disparte, senza entusiasmo né verve, distaccato mentre alle sue spalle una tavola da post Ultima Cena accoglie il resto della compagnia, figure tratteggiate con toni grotteschi. Sono apparizioni, fantasmi che si affollano; ognuno entra sulla scena, fa il suo “numero” e se ne va, oppure mettono in atto piccole scomposte coreografie o canzoncine per rimpolpare la drammaturgia già non-sense. E più che va avanti più che se ne perde la coerenza, si sfilaccia in una sequenza infinita (1h40') di monologhi con una recitazione affettata e artefatta, aulica e antica di un'epoca andata. Siamo in una sorta di parodia di un teatro da teca con frasi lanciate nell'agorà del palco tanto per vedere l'effetto che fa. Passano i minuti e altre chiose si affollano, non si trova il bandolo della matassa, tutto è nebuloso mentre le interpretazioni diventano, se possibile, ancora più esagerate, esagitate, caricaturali, eccessive, iperboliche. Un testo compiaciuto, ricco di battute e di citazioni, un assemblaggio di parole e perifrasi che risultano uno zibaldone composito. Un'operazione senza troppo coinvolgimento del pubblico.

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Passando dal Teatro Sanità alla Casa del Contemporaneo finalmente arriviamo al Nest e torniamo ad essere ottimisti sul teatro di domani. Respiriamo perché c'è un signor testo, una grande scenografia, attori all'altezza, una regia limpida, un'aderenza all'oggi (chiamalo contemporaneo se vuoi) che è quello che cerchiamo dal teatro al di là delle belle statuine e di un passato che spesso non è proprio da riesumare. Non soltanto a risultare centrale è la traduzione (di Enrico Ianniello) ma anche l'adattamento e la trasposizione. “Bufale e liune” infatti sono due delle tre piece che compongono una trilogia di Pau Mirò che Giuseppe Miale Di Mauro, Adriano Pantaleo e Francesco Di Leva hanno, e con loro il Nest, portato nella realtà che meglio conoscono, Nest.jpgil quartiere, il rione, il sottobosco periferico napoletano. Non solo quindi le parole trasformate ma anche l'ambientazione, il luogo, l'atmosfera (anche se in questo Barcellona molto somiglia a Napoli). La storia è misteriosa e pinteriana, a tratti carveriana in questo spaccato di umanità in chiaroscuro dove ognuno è doppio così come la morale che può essere ribaltata a proprio tornaconto. Lo spazio claustrofobico che vediamo è una lavanderia con gli abiti a raggiera (si entra e se ne esce come tanti sipari), a semicerchio tanto che sembra un anfiteatro greco. Al centro un totem, un pilastro, quasi un fusto di un albero millenario piantato nel mezzo e tanti neon ad intermittenza come in una discoteca in disuso da archeologia post-industriale, da umanità sconfitta. In questa lavanderia vive (sopravvive?) chiusa (al riparo dal fuori?) una famiglia: la figlia in sedia a rotelle, la madre che la vuole sistemare, il padre carrozziere mentre aleggia il ricordo di un altro figlio, scomparso, sparito da piccolo non si sa se rapito o ucciso. L'armonia, se così si può chiamare, è rotta dall'arrivo di un ragazzo con la camicia insanguinata che vuole farla lavare anche se siamo fuori l'orario di lavoro. La madre vede in lui un futuro possibile per la figlia e non vuole farlo andare via (come in “Misery non deve morire”), il padre vuole aiutarlo, stringendo un accordo, perché pensano che abbia commesso un omicidio che il ragazzo comunque nega. Ma la verità non è mai certa. L'aria è quella di “Dogman” di rapporti incancreniti, di vite al limite, zone di frontiera, fisiche ed esistenziali. Le menzogne si accavallano e gli enigmi, l'oscurità e i segreti, aumentano e si alimentano. Sembra di stare dentro al “Calapranzi” e il cupo ammanta ogni azione e lentamente la notte scivola in un incubo kafkiano. Nella vita devi sapere se sei bufalo o se sei leone anche se, come dice il proverbio africano, comunque dovrai correre appena sorge il sole. Da ricordare Giuseppe Gaudino, il commissario, Alessandra Borgia, la madre (ci ha ricordato Beatrice Schiros di Carrozzeria Orfeo), Angela Fontana (vista nella miracolosa pellicola “Indivisibili”), la ragazza in carrozzina (canta divinamente). Menomale che il Nest c'è. A Napoli, purtroppo o per fortuna, si perdona sempre tutto.

Tommaso Chimenti 06/07/2021

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