Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

LISBONA – “C’è a Lisbona, come in nessun’altra città del mondo, ciò che io definisco natura architettonica. A Lisbona questo concetto è perfezione” (Thomas Bernhard).

 Arrivando in aereo si sorvola il Cristo Rei con le sue braccia spalancate ad accoglierci e a indicarci la via. Gli passiamo proprio sopra quasi a scompigliargli i lunghi capelli, lisciandoli e pettinandoli.Festivals in Almada | Culture, Nightlife, Celebrations Events of Almada Vederlo nuovamente (sono qui al Festival de Almada per la quarta volta) ci benedice, ci fa sentire figliol prodigo, ci infonde emozione e speranza. A guardarlo dalla costa di Lisbona, con il sole che ci ferisce gli occhi, quasi sparisce in alto sulla collina. Ci guarda noncurante. Ha altro a cui pensare. La foschia se lo inghiotte, lo mangia a pezzi, lo fa scomparire tra volute di nuvole pronte a piovere in quest'angolo dove il Tago si mischia fangoso alle onde blu dell'Oceano Atlantico, dove i piccoli traghetti arancioni, tra Almada e Lisbona, fanno la spola, dove il rumore delle auto che passa sopra il ponte rosso d'acciaio sembra una turbina accesa, un rotore d'aereo, un potente mulinello preparato per una partenza bruciante, una rincorsa per lo scatto finale. E' un rumore continuo di fondo al quale dopo pochi minuti ci si abitua guardando i colori pastellati sull'intonaco sgretolato degli affreschi decorati a colpi di bombolette spray. Almada è giovane, è smart, è uno schiocco di dita, è una carezza tra i capelli bagnati di salsedine. Almada è la marea che carica e pompa, che torna e scava. Almada sono i pescatori sotto il grande ascensore, Almada è le centinaia di muggini che si raggomitolano come anguille nei piccoli golfi vicino al porticciolo degli aliscafi. Se di giorno il caldo sembra gambizzarti, spossandoti e portandoti via energie, la sera la temperatura cala come trovarsi improvvisamente in un'ombra boschiva. Anche il vento che arriva dal mare cambia rotta e adesso sverza il suo lamento. Almada sono le rughe degli anziani che vendono le pesche al mercato tra l'aroma e l'afrore acre delle sardine alla griglia, Almada è l'incontro tra la magnifica fregata di legno e il sottomarino di ferro, Almada sono le tre mani rivolte verso il cielo ma pronte a stringerti in un abbraccio, a cingerti di vicinanza e solidarietà, Almada si vede più nitidamente dall'altra parte, come facendo un passo indietro, dalla statua-monumento che si erge e innalza il suo occhio vigile sugli ex cantieri navali. Almada è la terra che ha dato i natali a Luis Figo, il campione di calcio passato anche in Italia.

Il “Festival de Almada” (2-25 luglio) è sempre un'esperienza da respirare fino in fondo. Trentottesima edizione e quest'anno anche un anniversario tondo per la Companhia de Teatro de Almada che lo gestisce, mezzo secolo. Nel foyer del teatro principale, il Teatro Municipal Joaquim Benite inaugurato nel 2005 e dedicato al regista e direttore scomparso nel 2012 (gli è succeduto Rodrigo Francisco che sta ben proseguendo il suo lavoro), una mostra con le locandine di tutti i festival passati. Il bilancio per questa edizione parla di 626.000 euro, provenienti dal Ministero della Cultura e dal Consiglio comunale per mettere a punto un cartellone equilibrato tra proposte nazionali, la maggior parte causa pandemia, spagnole, belghe, brasiliane, francesi, cilene, olandesi, slovene. Anche quest'anno, cDiscurso 2.jpgome ogni edizione dal 2008 la Camara Minucipal de Almada ha indetto il “Premio Internazionale Carlos Porto” (intitolato alla figura del critico teatrale portoghese) che prevede un “Gran Premio”, il “Premio per la Stampa Specializzata” e un “Premio per la Stampa Generalista”. Chi scrive nel 2018 ha ottenuto il Gran Premio mentre quest'anno quello per la Critica Teatrale. C'è anche un Premio da parte del pubblico per lo spettacolo che più ha fatto sobbalzare i cuori. Spettacoli mai banali (21 in totale, ogni piece in media ha fatto cinque repliche con punte di dieci per qualche produzione, consentendo così di poterli seguire tutti), scelte particolari in un mix tra ricerca e tradizione, tra messinscene innovative e temi attuali e contemporanei.

Ci ha colpito “Discurso sobre o filho-da-puta” (non serve la traduzione, visto nel Teatro Estudio Antonio Assuncao) a cura delle compagnie portoghesi Teatro da Rainha e Miso Music, tra ironia, cinismo, verità, esperienza sul campo. Ognuno di noi nella sua esistenza si è imbattuto, ha incontrato, si è scontrato con queste losche figure, che da adesso in poi qui chiameremo FdP sempre pronti a screditare, all'inganno, al sotterfugio, alla menzogna, alla meschinità, alla bassezza pur di scavalcarti, abbassarti per sorpassare la fila. L'impianto è scherzoso, da operetta allegra, canti a cappella e battute comprensibili ad ogni latitudine, come un varietà con due voci maschili e due femminili, perché l'essere FdP non ha generi né età né religione, è una “qualità” democratica, sparsa ai quattro angoli del globo e nessun popolo ne è sprovvisto o immune. Alle loro spalle cinque quadri appesi che fotografano apertamente la situazione: ecco il ritratto antropoformo di un busto umano con la testa di serpente, accanto abbiamo quello con la testa di pistola, poi lo squalo, dopo l'avvoltoio, seguito dal coccodrillo (in questo senso “Lo zoo è qui” di Luciano Ligabue è eloquente e chiarificatrice). E Giorgio Gaber, cantante e intellettuale, sottolineava: “Son sicuro che il bastardo è di sinistra, il figlio di puttana è a destra” in “Destra-Sinistra” cercando differenze semantico-politiche.

E' un'elegia e una preghiera, una processione di canti gregoriani, le lucine soffuse e il candelabro ci parlano di una funzione religiosa, di un rito funebre anche perché sotto di loro, Discurso.jpgcentralmente orizzontale, se ne sta un cadavere immobile che per tutto il tempo della rappresentazione si ha la netta sensazione che possa svegliarsi da un momento all'altro perché i FdP non muoiono mai come ci racconta nella sua ballata-stornello popolare, “Ahi, Ahi, Ahi”, il regista cinematografico fiorentino Leonardo Pieraccioni che ogni tanto si dilettava con la chitarra, sostituendo l'epiteto che ci ricorda la città dell'Asia minore adesso distrutta ma tenendo inalterato il significato di fondo e l'essenza: “Si baciano in bocca paian fotomodelli, catenine a i' collo e sedici anelli, son pieni di donne ma i' sabato sera li trovi da soli a i' bar Marilena, e mangiano i' kiwi gli fa schifo i' prosciutto, son vegetariani poi mangian di tutto”. FdP viene ripetuto all'infinito, centinaia di volte, ad ogni capoverso, ad ogni strofa di questa poesia urbana contaminata, come rafforzativi che, inevitabilmente, scatenano l'ilarità (sarebbe da tradurre e mettere in scena anche in italiano: sarebbe un successo). Anche il gruppo musicale Gli Stadio aveva coniato una strimpellata (proprio denominata “Grande figlio di puttana”) per il soggetto preso in questione: “Sotto l'ombra del cappello non ti fa capire mai se tira fuori il suo coltello o ti chiede come stai”. La qualità migliore del FdP è l'ipocrisia e il trarre vantaggi da qualsiasi situazione, finge, ha sempre un secondo fine, si fa passare per amico per carpire segreti che poi utilizzerà contro chi glieli ha svelati, contro chi si è aperto con loro credendo di avere davanti un confidente e non una vipera pronta a morderlo, non uno scorpione pronto a pungerlo a tradimento. Il FdP è un vigliacco e uno stratega e “Discurso” ne fa una precisa analisi e una corretto vivisezione, è una conferenza semiseria per sottolineare i suoi tratti distintivi, per sviscerare la tanto criticabile tipologia umana, è un'autopsia del suo essere intimo sul quale è impossibile non essere d'accordo. Il FdP è un calcolatore e recita in qualsiasi situazione si trovi, si muove sottotraccia e dietro le quinte, organizza, macchina, sposta le pedine a suo piacimento, combina affari per il suo solo tornaconto, tira l'acqua sempre al suo mulino, è invadente e arrogante, è geloso e invidioso, è lamentoso e vanitoso, è falso e ruffiano e codardo e meschino, diffama, mette gli amici gli uni contro gli altri, insinua mellifluo, è viscido e olioso, è sfuggente, è tutto apparenza, è un manipolatore e controlla incessantemente la vita degli altri ma, in tutto questo, è contento e soddisfatto di sé e non si ritiene assolutamente quel che è, ovvero un FdP.

E' un gran bel lavoro vocale (ci hanno ricordato i “Neri per caso”, peccato per i fogli in mano che rendono la recita, visivamente, meno scorrevole), sulle note, sugli accenti, sugli incastri, sul ritmo e la velocità delle parole, degli urletti, dei singhiozzi, sono rumoristi che usano la voce come uno strumento delicato e malleabile tra cori e scioglilingua. Gli uomini in nero e le donne in bianco, il bene e il male che si (con)fondono proprio perché il FdP si presenta sempre come amichevole per poi rivelarsi machiavellico. Un divertissement allegro, ma non troppo, le onoranze funebri alla nostra società costellata e distrutta nelle sue fondamenta dai tanti, troppi FdP.

miguel_molina_desnudo_escena_09.jpgDi attualità profonda e feroce sulla condizione di molti omosessuali in giro per il mondo è “Miguel de Molina al desnudo” di Angel Ruiz (prodotta dalla compagnia spagnola Lazona; visto al Cine-Teatroda Academia Almadense), un teatro-canzone per ricordare la figura avanguardistica e pionieristica del cantante di varietà che subì gravi conseguenze, fisiche e lavorative, dal governo franchista proprio per la sua omosessualità. E' una confessione quella di Ruiz nei panni di Molina, come se la platea fossero i giornalisti in una conferenza stampa post mortem per spiegare, mettere i puntini sulle i, sciogliere nodi. Molina, un po' Petrolini, ci ha ricordato anche Paolo Poli o Cristiano Malgioglio o ancora Leopoldo Mastelloni, ha pagato fino in fondo la sua libertà, il giusto rispetto che chiedeva e per questo è stato perseguitato anche dall'altro capo del mondo perché considerato simbolo repubblicano proprio per il suo spirito anticonformista. Ruiz, che ha grandissimi doti vocali, ripercorre la vita del flamenchista folcloristico, muovendosi come un torero poliedrico, passando dal tragico al cabarettistico in una sorta di piano bar ricordando agli astanti i suoi successi e le sue lacrime, gli applausi ricevuti e le delusioni sofferte a causa di un mondo che, evidentemente, aveva paura di quello che rappresentava, appunto la libertà di esprimersi e di essere se stesso al di là del genere. Come se fossimo tutti invitati a questa seduta spiritica Molina si mette a nudo, come recita il titolo, si apre, si racconta, vuol mettere la parola fine a tanti pettegolezzi, alle infamie, alle ingiustizie, alle bugie della Prensa. Adesso, dopo queste sue dichiarazioni e rivelazioni a cuore aperto, è libero di riposare, libero di andarsene finalmente pacificato. E noi con lui, contenti di averlo ascoltato per l'ultima sontuosa volta.

Ha un impianto invece contemporaneo e spiazzante, per le molte tecniche e oggetti e strumentazioni messe in campo, il “Viagem a Viagem 2.jpgPortugal” dei lusitani Teatro do Vestido (visto al Forum Municipal Romeu Correia) prendendo spunto dall'omonimo volume di José Saramago, il grande scrittore Premio Nobel '88 per la Letteratura. Dieci gli attori in campo, tra recitazione e movimentatori di scene e attrezzistica e oggettistica per questo caravan serraglio di colori ed emozioni. Su un tavolo da autopsia arrivano i reperti con una piccola telecamera a mano che tutto riprenderà e proietterà sul grande schermo sopra la scena. Ma è un continuo arrivare di fotografie e articoli di giornale mentre gli attori in video sono sostituiti da piccoli omini di Lego. La musica di una chitarra suonata dal vivo sul palco rende ancora più artigianale questo lavoro curioso, uno spettacolo più da sentire che da ascoltare, più da vedere che da capire, più istintuale che cerebrale. Perché gli elementi sono tanti ma si viene travolti dal mistero, dalla sovrabbondanza, dalla ciclicità, dal disordine caotico che il palco profonde tra lettere e cartine che esprime l'Amore incondizionato per il proprio Paese, una sorta, nelle sue differenze stilistiche e concettuali, di “Comizi d'amore” pasoliniani. Ne esce un quadro da festa triste sulla costruzione di un Paese, sulla trasformazione di una Nazione, sull'Identità, sulla Nostalgia, la faticosa strada percorsa, con i suoi errori e cadute (come la dittatura), da uno Stato per potersi chiamare tale. Perché la scelta totalitaria è “facile” mentre la democrazia è un elastico continuo, un Paese bisogna continuamente annaffiarlo, alimentarlo, supportarlo, riempirlo di senso, aiutarlo. “Perché la vita se la ride delle previsioni e mette parole dove noi abbiamo immaginato dei silenzi”, così ci stende Saramago.

Um gajo 2.jpgDi Portogallo si parla anche nella produzione del gruppo di casa, la Companhia de Teatro de Almada in collaborazione con la Companhia de Teatro do Alvarve di Faro, “Um gajo nunca mais è a mesma coisa” (trad: “Il ragazzo non è più lo stesso”), per la regia di Rodrigo Francisco, visto nella sala sperimentale del Teatro Joachim Benite. Il titolo fa riferimento all'evento traumatico che la guerra può comportare nella crescita e nello sviluppo di una persona, dall'essere un ragazzo mandato al fronte al diventare un adulto rabbioso e rancoroso, duro, acido, ruvido. La riflessione di Francisco, suo anche il testo, ci porta dentro il colonialismo portoghese soprattutto in Africa. Una struttura di letti a castello e impalcature, con teli e tende a coprire o disvelare, è efficace in quanto double face e permette di raccontare, a sprazzi e flash, momenti in alternanza, la guerra come le situazioni quotidiane contemporanee, chiamiamole “in tempo di pace” quando i portoghesi hanno dovuto fare i conti (come tutti i Paesi colonialisti: Francia e Inghilterra su tutti) con i nuovi cittadini (soprattutto da Mozambico, Angola, Capo Verde), africani che adesso erano annessi dalle colonie alla nazionalità. Il nemico che prima avevano combattuto adesso, in altre forme, era lì davanti a loro, come loro, con gli stessi diritti e doveri, si poteva fidanzare e sposare con i propri figli. Un mondo capovolto, un mondo che prima chiede di uccidere quegli stessi che dopo pochi Um gajo.jpganni saranno tuoi concittadini. L'atmosfera è da “Apocalypse now”, l'aria ci porta dentro “Good Morning, Vietnam” e riesci ad annusare perfino “Platoon”, e sembra di sentirlo l'odore del napalm, anche perché lo sporco della guerra si assomiglia dappertutto, a qualsiasi latitudine. A fianco si sviluppa la musica, chitarrista e cantante (che impersonerà tutti i ruoli femminili “colored”: poderosa Lara Mesquita vocalmente e attorialmente, è il fulcro attorno al quale ruotano gli altri quattro ruoli maschili) districandosi dal gospel ai Pink Floyd stilizzati e rarefatti, creando un tappeto sonoro emozionante e drammatico, intenso pathos. Da una parte le violenze perpetrate dai portoghesi verso questi popoli sottomessi con la forza, dall'altro l'impossibilità dell'anziano incattivito dalla vita e razzista truce (l'ex ragazzo soldato, adesso invecchiato, mandato a combattere una guerra non sua) di comprendere la realtà attuale e di accettare la situazione creatasi in un continuo scontro contro i fantasmi del passato che ritornano, riecheggiano, galleggiano ancora, fanno rumore nella sua testa. La Mesquita, uscita dal personaggio, interroga il pubblico per chiedere se sia di destra o di sinistra, mentre l'anziano afferma che “La guerra è la miglior cosa nella vita” proprio perché all'epoca tutto era più semplice e le scelte sembravano più nette e facili da prendere, si sapeva chi erano i buoni e chi i cattivi, o almeno quello che ci/gli avevano fatto credere. Sono, nelle differenze, danneggiati dagli stessi giochi politici, l'aggredita e l'aggressore, dentro un disegno politico più grande di loro, bersagli di interessi gretti, messi l'uno contro l'altro, strumentalizzati e usati, carne da macello, che tu sia soldato o tu sia martire. Qualcuno nei piani alti ha deciso la loro sorte, di mandarli in guerra o di diventare capri espiatori, due facce della stessa medaglia, sempre comunque umili, fragili, ultimi senza voce, pedine di scacchiere finanziarie, vittime del medesimo meccanismo bieco che schiaccia gli uomini comuni per interessi impersonali economici e che mette le persone contro imbevendole di odio e rancore senza senso.

Tommaso Chimenti 27/07/2021

LISBONA - Già nel 2018 Tommaso Chimenti fu insignito del prestigioso “Gran Premio” riconoscimento più alto all’interno del “Premio Internacional de Jornalismo Carlos Porto” al Festival de Almada (promosso dalla Camara Municipal de Almada), quest’anno la giuria gli ha conferito il “Premio Imprensa Especializada” (la stampa di settore, critica teatrale) per l’articolo scritto in occasione del festival dello scorso anno “Neanche il covid ferma il Festival di Almada che coraggioso rilancia” pubblicato il 5 agosto 2020 sulla nostra testata Recensito.net, nel quale aveva riportato le sue impressioni sugli spettacoli “O criado” (di Andrè Murracas), “Rebota, Rebota” (di Agnes Mateus), “Martir” (regia proprio di Rodrigo Francisco), “Turismo” (di Tiago Correia). Questa la motivazione del premio: “Una visione romantica del paese e della città facendo un parallelismo con il Festival de Almada”. Il Festival (quest’anno dal 2 al 25 luglio) è giunto alla 38esima edizione mentre la Companhia de Teatro de Almada, diretta dal regista Rodrigo Francisco, festeggia i 50 anni.

 

Queste le parole di ringraziamento di Chimenti durante la premiazione: “Innanzitutto vorrei ringraziare la Camara Municipal de Almada per l’attenzione che sempre mette nell’analizzare i testi critici riguardanti il Festival de Almada. In seconda battuta un ringraziamento doveroso al direttore Rodrigo Francisco che fin dal primo momento, complice anche la sua perfetta conoscenza dell’italiano, 220088568_10215503613621864_3323367542666283237_n.jpgsi è dimostrato un vero amico. Nel 2018 ho vinto il Gran Premio Carlos Porto in maniera del tutto inaspettata, per me quello era il primo riconoscimento nell’ambito della critica teatrale e dopo ne sono arrivati molti altri; quindi posso dire che il Festival de Almada mi ha portato fortuna. Non credevo assolutamente di poter vincere un altro premio così importante qui a Lisbona e per questo la soddisfazione è doppia. Il Festival de Almada ci permette di avere uno sguardo il più ampio possibile su quello che avviene sulla scena internazionale a livello mondiale. Ogni anno scopriamo nuovi autori e compagnie e approfondiamo il nostro bagaglio culturale e professionale. Sono molto orgoglioso di far parte di questo nucleo di giornalisti internazionali che son riusciti a vincere più volte il Premio Carlos Porto e posso dire che Almada e, di riflesso Lisbona, sono diventati miei luoghi dell’anima. Qui mi sento a casa. Ci vediamo il prossimo anno e per gli anni a venire sperando di essere letto e apprezzato da voi come è successo in queste quattro edizioni (‘17, ‘18, ’20, ’21) alle quali ho partecipato”.

Gli altri riconoscimenti sono andati: a Manuel Xestoso di “Nos Diario” il “Gran Premio” e a Goncalo Frota di “Publico” il Premio Imprensa Generalista”. Il premio, istituito nel 2008, è intitolato alla memoria di Carlos Porto, critico teatrale, poeta e drammaturgo portoghese. In questi anni hanno vinto giornalisti e critici di importanti testate portoghesi, spagnole, sudamericane, anglosassoni e statunitensi: Primer Acto, Publico, Revista Obscena, Latin American Theatre Review, Il Manifesto, Diario de Noticias, Jornal de Letras, Jornal espanhol Gara, Revista ADE, ABC, Teatro Critico Universal, Jornal Raio de Luz, Expresso, L'Humanité, L'Apuntador, Sipario, Jornal I, The Guardian, El Mundo, Nos Diario, Artezblai.

Qui il bando integrale del Premio: https://aviagemdosargonautas.net/2018/06/15/festival-de-almada-35-a-edicao-apresentacao-a-comunicacao-social-premio-internacional-de-jornalismo-carlos-porto/

E qui il link del Sindacato dei Giornalisti Portoghesi: https://jornalistas.eu/premio-carlos-porto-decidido-em-junho/

Questo invece l’articolo con il quale Chimenti ha vinto il “Premio Carlos Porto per la Stampa Specializzata”:

218448030_10215507247792716_2539142000057922278_n.jpgAlmada è sempre un soffio, un respiro, quasi un'isola lontana e vicina a Lisbona, ai suoi azulejos, alle sue strutture che cambiano, alla sua storia. Almada la vedi, è lì a portata di mano, la fotografi in lontananza che sembra irraggiungibile e quel ponte, sempre rosso fiammeggiante, pare un elemento scenografico e cinematografico messo lì per aumentare la magia del posto, delle acque che si incontrano, veloci del Tago e feroci dell'oceano a cozzare proprio davanti ai tanti murales, carichi di espressività e socialità, nati sulle vecchie e scalcinate mura di ex magazzini e vecchie fabbriche, cantieri navali in disuso. Almada pare un'isola, riconoscibile con quel Cristo che a braccia larghe ci abbraccia e non ci lascia mai soli. Gli aerei solcano di continuo il cielo anche in questo periodo post-Covid. La fase finale della Champions League si giocherà qui, a casa di Cristiano Ronaldo marchiato a strisce senza colori. La tramvia taglia Almada e la rende raggiungibile, veloce. Da Almada, con il bel tempo, si possono vedere entrambi i ponti, il XXV Aprile rosso come il Vasco de Gama bianco, oppure a sinistra Belem e a destra in alto il Castello. Negli ultimi decenni si è trasformata; sembra piccola ma è grande, moderna con le sue piazze dove giocano piccole fontane a zampillare verso il cielo, dove gli skate sfrecciano. Ecco, se vogliamo trovare un paragone, Almada sta a Lisbona come la Giudecca sta a Venezia. Città di mare, luoghi dove si respira il salmastro. 218378862_10215507065148150_4259575585637703637_n.jpgDa trentasette anni il Festival di Almada (quest'anno ancora più coraggioso di sempre il suo direttore artistico Rodrigo Francisco) è un faro nel campo teatrale europeo: in questa edizione addirittura si è passati dalle due settimane standard di programmazione (solitamente era dal 4 al 18 luglio) alle oltre tre (dal 3 al 26) rilanciando proprio quando molti hanno desistito. Anche i molti e sparsi teatri dove sono andati in scena gli spettacoli ci hanno mostrato, ancora una volta, il bisogno, la fame e la necessità di teatro di un popolo che ha vissuto il festival e riempito le sale, appuntamento atteso ed aspettato tutto l'anno: il centrale Municipal Joachim Benite che sembra una piscina capovolta con i suoi infiniti piccoli quadratini celesti a rischiarare e illuminare di luce tenue l'intorno, l'Academia Almadense moderno e funzionale, l'Incrivel Almadense cubo nero, il Forum Romeu Correia di grande impatto nel parco dove spicca la scultura delle tre braccia, con mani aperte a toccare le nuvole, l'Estudio Antonio Assuncao bianco e piccolo che pare una facciata di un palazzo messicano. Il bacalao non manca mai, nei pranzi e nelle cene condivise, momento conviviale dove potersi incontrare tra compagnie e operatori provenienti da tutto il mondo, mentre la scelta complicata è se prendere una Sagres o una Super Bock, le birre che vanno per la maggiore in Portogallo. Almada ogni anno ci sembra più attiva e contemporanea, Lisbona più fresca e giovane, il Portogallo più frizzante e aperto. Andrebbe fatto un monumento nazionale ai pasteis de nata, il pasticcino a base di pasta sfoglia e crema.

Sospesa tra cinema e teatro ci è apparsa la piece “O criado” (quest'anno soltanto tre sono stati gli spettacoli stranieri, tutto il resto erano di provenienza portoghese) di Andrè Murracas, non a caso anche regista cinematografico. Partendo da “The servant” adattato da Harold Pinter, il regista, che è anche attore e movimentatore di oggetti per le videoproiezioni ma anche lettore e mixerista al suo tavolino da lavoro centrale, è il deus ex machina che si muove, sposta, fa, articola tra i suoi mille spazi. Il tutto in bianco e nero e il tutto in continuo parallelo e confronto, in controluce, in prospettiva, in sovrapporsi, in dissolvenza, tra la realtà, la pellicola in questione e la riproposizione nel presente della stessa scena in video, quasi un doppio, allo specchio. Ma non solo; il film e le azioni del regista-performer in teatro dal vivo sono intervallate da interviste con vari attori che rispondono, leggono parti del copione o lo provano nel privato delle loro abitazioni. Murracas è molto hitchcookiano. Come se il teatro entrasse in contatto e in dialogo (diavolo?) diretto con il cinema. Ma se l'idea può essere arguta, la sua realizzazione, soprattutto con l'avanzamento, risulta didascalica con lo scorrimento delle immagini e la spiegazione delle stesse come fosse un cineforum o una conferenza o una lectio lasciandoci distanti, un po' in sordina, laterali rispetto all'opera molto nebulosa e criptica, ben orchestrata ma poco viva. E' questa la deriva del teatro o l'evoluzione del teatro? Speriamo sia soltanto la prima opzione. Il regista diventa anche dj, si improvvisa prestigiatore ma ha poca presa ed empatia ottenendo un effetto freddino che sa di un tentativo, un esperimento non andato a buon fine, naufragato senza dolcezza, rimasto a metà strada, con il colpo in canna. E se il cinema fosse soltanto il teatro in remoto?

220743099_10215512276798438_2647864091224905848_n.jpgSe “O criado” in una scala sentimentale era razionale e controllato, possiamo assolutamente affermare il contrario per quel che riguarda “Rebota, Rebota” della spagnola Agnes Mateus, un vero vulcano cosparso di argento vivo e mercurio incandescente. Sul palco è una furia, un ciclone, uno tsunami che tutto spariglia e travolge, una forza possente e titanica, una vera rocker, un fuoco, un turbine. Ha una marcia in più la Mateus nella sua invettiva che parte in tono canzonatorio e brillante e si fa pian piano sempre più atto d'accusa sul tema della violenza sulle donne divenendo, alla fine, vero e proprio stato d'allarme, processo accusatorio, presa di coscienza sul femminicidio, consapevolezza e moto di ribellione ed orgoglio. Sul boccascena, come una punk dai pantaloni dorati scatenata sulla musica techno con la faccia dipinta come Joker, la performer sperimenta la sua parodia machista-latina con tutti gli stereotipi del caso, partendo dalle offese alle donne. Il suo è un canto, un grido, un urlo, s'accapiglia, s'infervora, s'agita, si scalda. Il suo è un alfabeto delle ingiurie e degli insulti che normalmente le donne, ad ogni latitudine e in ogni contesto sociale, devono subire. Il suo è un j'accuse doloroso, a tratti rancoroso, spesso retorico, pieno di furore positivo e d'impeto rovente. Diventa cascata e torrente in piena, è un diesel che si fa turbo. Dopo gli oltraggi è tempo di scartavetrare e ribaltare il vero senso maschilista delle fiabe per bambini dove la donna aspetta sempre che il maschio la salvi, la sposi, la elevi dal suo rango di subalterna. Frasi al veleno, “nel calcio non ci sono omosessuali” o “se una donna non si sposa vuol dire che è lesbica”, fanno da contraltare con fasi più pop e leggere. E' un Leo Bassi in versione femminile, vulcanica, senza peli sulla lingua, è un Puk che non fa sconti, che non cede, che non molla la presa, che ti mette all'angolo con le spalle al muro, davanti alle responsabilità della società, degli uomini e delle stesse donne che accettano, subiscono, non si ribellano. Funambolica, elettrica, sconquassa, percuote, distrugge, è un carrarmato, un caterpillar, uno schiacciasassi che non si incrina, vera pasionaria, amazzone intensa, energia pura, spinosa, mai doma. L'elenco delle donne uccise per mano maschile tra le quattro mura domestiche in Spagna è un pugno nello stomaco ma è quando, da circense, diventa il bersaglio di un lanciatore di coltelli, metafora della condizione femminile, che il discorso si fa ancora più cupo fino a quando la Mateus non mette la testa, per minuti interminabili, dentro una carriola piena di terra ricordando lo struzzo ma anche pratiche di tortura: “Le donne dimenticano per sopravvivere, le donne perdonano”. Dall'alto cadono centinaia di palline (il rimando agli organi sessuali maschili è evidente e voluto): it's raining men!

Altro tema cruciale della nostra società è senz'altro la religione, i suoi fanatismi, i suoi deliri, le sue allucinazioni, i suoi isterismi, le sue farneticazioni, le sue esagerazioni. La religione vista come uno scudo, come un parafulmine a tutto ciò che accade, una protezione, un tetto sotto il quale rifugiarci nel mezzo del temporale della vita, un riparo conservatore e consolidato, accondiscendente e consuetudinario e consolatorio. Ma quando a diventare fanatico religioso e osservante alla lettera della Sacre Scritture è un adolescente le cose si fanno problematiche perché mette in crisi una serie di dinamiche e comportamenti assodati, crepano l'ordine costituito delle cose, il normale andamento di regole e divieti, mina l'autorità dei professori, quella dei genitori. “Martir”, testo di Marius von Mayenburg, per la regia di Rodrigo Francisco (in Italia l'hanno realizzato i Filodrammatici di Milano un paio di stagioni fa), ci porta dentro la trasformazione della psiche di un ragazzo, nel suo avvicinamento al Vangelo fino a considerare il mondo moderno come sponda naturale per le parole millenarie degli apostoli, applicando le parabole dei santi come leggi inamovibili che tutto regolano. La messinscena è ampia e aperta, bianca, pulita, un quadrato con tante finestre che adesso si fa scuola, ora casa, infine chiesa. Teche linde alle pareti dove poter scrivere (come sono gli adolescenti, teli bianchi, spugne che raccolgono) versetti e frasi, citazioni bibliche e virgolettati che danno un senso alla vita, che la spiegano, la chiariscono, vetrate come lavagne. La religione come appiglio e piede di porco per dare una definizione all'insondabile esistenza degli umani. Il ragazzo (molto convincente il protagonista) che diviene ogni giorno sempre più devoto e pio, bigotto ed osservante, che rifiuta il contatto con le ragazze, che entra in aperto conflitto con la madre e con la professoressa, nodo e fulcro della vicenda. Chi è il Martire? Chi vuol farsi Martire? Chi è vittima e chi invece si fa passare per vittima? In questo gioco al massacro ci si scambia la pena di una croce da portare per divenire quei “Martiri” che la società può tollerare, sopportare, santificare, con i quali solidarizzare e non, per senso di colpa, emarginare.

Interessantissima la riflessione del giovane regista e drammaturgo Tiago Correia che incentra la sua riflessione sul “Turismo”, quella massa di persone che si spostano, mangiano, 222105912_10215507751045297_3680106568792383037_n.jpgfanno foto, si muovono, prendono mezzi, hanno bisogno di servizi, incrementano l'indotto di un Paese inevitabilmente trasformandolo a suo gusto e misura snaturandolo intimamente. Il Portogallo, negli ultimi anni, ha sponsorizzato dinamiche per far sì che i pensionati europei, prendendo lì la residenza non paghino le tasse per i primi dieci anni. Un bel colpo, un Paese sicuro, tranquillo, con una buona qualità della vita, un clima mite anche d'inverno e nuove strutture per i suoi nuovi cittadini. E' ovvio che il turismo, e di rimbalzo l'economia, per soddisfare chi viene a spendere nel nostro Paese, lo voglia a sua immagine e somiglianza, a cominciare dal cibo, ai costumi, tutto si frantuma, si globalizza, diventa meticciato, le tradizioni si perdono, tutto si annacqua tra souvenir (prodotti comunque in Cina) e mete sempre meno esotiche ma anzi frequentatissime. Non esiste più un luogo che non ha visto turismo e turisti che sì comprano, dormono e cenano ma che trasformano le città in gadget, ninnoli, soprammobili, cartoline. Le città così violentate perdono la loro anima, i residenti che lasciano il centro affittando a prezzi astronomici. Quello che è successo con Venezia, città fino alle sei di pomeriggio invivibile e dopo deserta. Quello che è successo a Forte dei Marmi in Versilia con i russi che sono arrivati in massa a comprare le ville. Si crea una bolla finanziaria e immobiliare per le quali per i residenti che lì ci vivono tutto l'anno, i prezzi diventano insostenibili, i servizi ai quali poter accedere irraggiungibili in quella che era ed è ancora casa loro ma, in pochi decenni, esclusi, emarginati dal mercato. Se ci mettiamo anche che per attirare capitali stranieri (negli ultimi anni cinesi, russi, arabi) devi abbassare il costo del lavoro, va da sé che in molti Paesi del mondo, compreso il Portogallo e l'Italia che vivono di turismo, tra qualche anno, dopo l'ennesima fuga dei cervelli, in patria non rimanga che lavorare nella ristorazione o nella ricettività alberghiera. Un magro panorama.

La messinscena è europea, di grande respiro internazionale con un uso delle luci evocativo e serafico e sensuale, le immagini riprese in presa diretta e riproiettate sulla scena, il rumore costante di aerei che atterrano e partono per il mordi e fuggi low cost. Se tutti possono andare dappertutto allora il prezzo si abbassa compresa la qualità in nome di una quantità che diviene dozzinale, grossolana. Le Nazioni si trasformano in divertimentifici, in succursali estive per stranieri con il portafoglio gonfio. Basti pensare alla Grecia alla quale è rimasto il mare e le isole. I Paesi diventano quello che i turisti sperano di trovare, le persone del luogo vengono sostituite, bisogna imparare le lingue altrui per potergli vendere l'ennesimo ricordo a pochi euro. E' un gioco che in pochi anni può distruggere ecosistemi di usi e costumi centenari inseguendo il Dio denaro e cercando di soddisfare le richieste, la domanda che gestisce e trasla l'offerta. Dimmi cosa vuoi e sarò in grado di dartela in un cortocircuito di competizione internazionale per attrarre più rotte possibili, intercettare più flussi. Vengono scoperte nuove mete, si costruiscono aeroporti, sorgono città che non c'erano, servizi, possibilità, il lavoro c'è per tutti, sottopagato ma c'è, fin quando non viene aperta un nuovo mercato che attragga maggiormente. Perché nel mondo del turismo, dove tutti sono andati dappertutto, è la novità quello che cerchiamo sempre, il nuovo, il mai visto. Appena il turismo di massa si sposta da un luogo ad un altro vengono mese sul lastrico generazioni e popoli, famiglie intere. Il turismo è una droga, è un doping che pompa quelli che all'inizio sembrano soldi facili ma che gonfiano i conti, le spese, l'inflazione. Il turismo è come la prostituzione, vittima delle ondate e delle voglie. Gradualmente gli Stati perdono i loro connotati, la propria identità sbiadisce, diventa movida e alcool, ristorantini, code, musei. I piatti tipici si avvicinano al gusto del forestiero per poterglieli vendere più facilmente, storie millenarie di popoli si inchinano a tripadvisor, si genuflettono a booking e tutto prende il sapore di una Disneyland al retrogusto del “menù turistico”, quelli dove non mangi ma ti riempi e ti rimane quella sensazione di pienezza senza che il palato sia realmente soddisfatto. Le città diventano “a misura di turista” e non “a misura di cittadino”, il turismo che usa ed abusa, consuma e sporca e se ne va lasciando i problemi a chi la abiti 365 giorni l'anno. Turismo e responsabilità spesso sono due rette parallele. Una bellissima intuizione, una regia fresca, una dialettica efficace per smuovere il dibattito”.

Redazione

LISBONA – Almada è sempre un soffio, un respiro, quasi un'isola lontana e vicina a Lisbona, ai suoi azulejos, alle sue strutture che cambiano, alla sua storia. Almada la vedi, è lì a portata di mano, la fotografi in lontananza che sembra irraggiungibile e quel ponte, sempre rosso fiammeggiante, pare un elemento scenografico e cinematografico messo lì per aumentare la magia del posto, delle acque che si incontrano, veloci del Tago e feroci dell'oceano a cozzare proprio davanti ai tanti murales, carichi di espressività e socialità, nati sulle vecchie e scalcinate mura di ex magazzini e vecchie fabbriche, cantieri navali in disuso. Almada pare un'isola, riconoscibile con quel Cristo che a braccia larghe ci abbraccia e non ci lascia mai soli. Gli aerei solcano di continuo il cielo anche in questo periodo post-Covid. La fase finale della Champions League si giocherà qui, a casa di Cristiano Ronaldo marchiato a strisce senza colori. La tramvia taglia Almada e la rende raggiungibile, veloce. Da Almada, con il bel tempo, si possono vedere entrambi i ponti, il XXV Aprile rosso come il Vasco de Gama bianco, oppure a sinistra Belem e a destra in alto il Castello. Negli ultimi decenni si è trasformata; sembra piccola ma è grande, moderna con le sue piazze dove giocano piccole fontane a zampillare verso il cielo, dove gli skate sfrecciano. Ecco, se vogliamo trovare un paragone, Almada sta a Lisbona come la Giudecca sta a Venezia. Città di mare, luoghi dove si respira il salmastro. Da trentasette anni il Festival di Almada (quest'anno ancora più coraggioso di sempre il suo direttore artistico Rodrigo Francisco) è un faro nel campo teatrale europeo: in questa edizione addirittura si è passati dalle due settimane standard di programmazione (solitamente era dal 4 al 18 luglio) alle oltre tre (dal 3 al 26) rilanciando proprio quando molti hanno desistito. Anche i molti e sparsi teatri dove sono andati in scena gli spettacoli ci hanno mostrato, ancora una volta, il bisogno, la fame e la necessità di teatro di un popolo che ha vissuto il festival e riempito le sale, appuntamento atteso ed aspettato tutto l'anno: il centrale Municipal Joachim Benite che sembra una piscina capovolta con i suoi infiniti piccoli quadratini celesti a rischiarare e illuminare di luce tenue l'intorno, l'Academia Almadense moderno e funzionale, l'Incrivel Almadense cubo nero, il Forum Romeu Correia di grande impatto nel parco dove spicca la scultura delle tre braccia, con mani aperte a toccare le nuvole, l'Estudio Antonio Assuncao bianco e piccolo che pare una facciata di un palazzo messicano. Il bacalao non manca mai, nei pranzi e nelle cene condivise, momento conviviale dove potersi incontrare tra compagnie ed operatori provenienti da tutto il mondo, mentre la scelta complicata è se prendere una Sagres o una Super Bock, le birre che vanno per la maggiore in Portogallo. Almada ogni anno ci sembra più attiva e contemporanea, Lisbona più fresca e giovane, il Portogallo più frizzante e aperto. Andrebbe fatto un monumento nazionale ai pasteis de nata, il pasticcino a base di pasta sfoglia e crema.87A7431©ALIPIOPADILHA.jpg

Sospesa tra cinema e teatro ci è apparsa la piece “O criado” (quest'anno soltanto tre sono stati gli spettacoli stranieri, tutto il resto erano di provenienza portoghese) di Andrè Murracas, non a caso anche regista cinematografico. Partendo da “The servant” adattato da Harold Pinter, il regista, che è anche attore e movimentatore di oggetti per le videoproiezioni ma anche lettore e mixerista al suo tavolino da lavoro centrale, è il deus ex machina che si muove, sposta, fa, articola tra i suoi mille spazi. Il tutto in bianco e nero e il tutto in continuo parallelo e confronto, in controluce, in prospettiva, in sovrapporsi, in dissolvenza, tra la realtà, la pellicola in questione e la riproposizione nel presente della stessa scena in video, quasi un doppio, allo specchio. Ma non solo; il film e le azioni del regista-performer in teatro dal vivo sono intervallate da interviste con vari attori che rispondono, leggono parti del copione o lo provano nel privato delle loro abitazioni. Murracas è molto hitchcookiano. Come se il teatro entrasse in contatto e in dialogo (diavolo?) diretto con il cinema. Ma se l'idea può essere arguta, la sua realizzazione, soprattutto con l'avanzamento, risulta didascalica con lo scorrimento delle immagini e la spiegazione delle stesse come fosse un cineforum o una conferenza o una lectio lasciandoci distanti, un po' in sordina, laterali rispetto all'opera molto nebulosa e criptica, ben orchestrata ma poco viva. E' questa la deriva del teatro o l'evoluzione del teatro? Speriamo sia soltanto la prima opzione. Il regista diventa anche dj, si improvvisa prestigiatore ma ha poca presa ed empatia ottenendo un effetto freddino che sa di un tentativo, un esperimento non andato a buon fine, naufragato senza dolcezza, rimasto a metà strada, con il colpo in canna. E se il cinema fosse soltanto il teatro in remoto?

Se “O criado” in una scala sentimentale era razionale e controllato, possiamo assolutamente affermare il contrario per quel che riguarda “Rebota, Rebota” della spagnola Agnes Mateus, un vero vulcano cosparso di argento vivo e mercurio incandescente. Sul palco è una furia, un ciclone, uno tsunami che tutto spariglia e travolge, una forza possente e titanica, una vera rocker, un fuoco, un turbine. Ha una marcia in più03_REBOTA__f.Quim Tarrida.jpg la Mateus nella sua invettiva che parte in tono canzonatorio e brillante e si fa pian piano sempre più atto d'accusa sul tema della violenza sulle donne divenendo, alla fine, vero e proprio stato d'allarme, processo accusatorio, presa di coscienza sul femminicidio, consapevolezza e moto di ribellione ed orgoglio. Sul boccascena, come una punk dai pantaloni dorati scatenata sulla musica techno con la faccia dipinta come Joker, la performer sperimenta la sua parodia machista-latina con tutti gli stereotipi del caso, partendo dalle offese alle donne. Il suo è un canto, un grido, un urlo, s'accapiglia, s'infervora, s'agita, si scalda. Il suo è un alfabeto delle ingiurie e degli insulti che normalmente le donne, ad ogni latitudine e in ogni contesto sociale, devono subire. Il suo è un j'accuse doloroso, a tratti rancoroso, spesso retorico, pieno di furore positivo e d'impeto rovente. Diventa cascata e torrente in piena, è un diesel che si fa turbo. Dopo gli oltraggi è tempo di scartavetrare e ribaltare il vero senso maschilista delle fiabe per bambini dove la donna aspetta sempre che il maschio la salvi, la sposi, la elevi dal suo rango di subalterna. Frasi al veleno, “nel calcio non ci sono omosessuali” o “se una donna non si sposa vuol dire che è lesbica”, fanno da contraltare con fasi più pop e leggere. E' un Leo Bassi in versione femminile, vulcanica, senza peli sulla lingua, è un Puk che non fa sconti, che non cede, che non molla la presa, che ti mette all'angolo con le spalle al muro, davanti alle responsabilità della società, degli uomini e delle stesse donne che accettano, subiscono, non si ribellano. Funambolica, elettrica, sconquassa, percuote, distrugge, è un carrarmato, un caterpillar, uno schiacciasassi che non si incrina, vera pasionaria, amazzone intensa, energia pura, spinosa, mai doma. L'elenco delle donne uccise per mano maschile tra le quattro mura domestiche in Spagna è un pugno nello stomaco ma è quando, da circense, diventa il bersaglio di un lanciatore di coltelli, metafora della condizione femminile, che il discorso si fa ancora più cupo fino a quando la Mateus non mette la testa, per minuti interminabili, dentro una carriola piena di terra ricordando lo struzzo ma anche pratiche di tortura: “Le donne dimenticano per sopravvivere, le donne perdonano”. Dall'alto cadono centinaia di palline (il rimando agli organi sessuali maschili è evidente e voluto): it's raining men!

Altro tema cruciale della nostra società è senz'altro la religione, i suoi fanatismi, i suoi deliri, le sue allucinazioni, i suoi isterismi, le sue farneticazioni, le sue esagerazioni. La religione vista come uno scudo, come un parafulmine a tutto ciò che accade, una protezione, un tetto sotto il quale rifugiarci nel mezzo del temporale della vita, un riparo conservatore e consolidato, accondiscendente e consuetudinario e consolatorio. Ma quando a diventare fanatico religioso e osservante alla lettera della Sacre Scritture è un adolescente le cose si fanno problematiche perché mette in CM_0842.jpgcrisi una serie di dinamiche e comportamenti assodati, crepano l'ordine costituito delle cose, il normale andamento di regole e divieti, mina l'autorità dei professori, quella dei genitori. “Martir”, testo di Marius von Mayenburg, per la regia di Rodrigo Francisco (in Italia l'hanno realizzato i Filodrammatici di Milano un paio di stagioni fa), ci porta dentro la trasformazione della psiche di un ragazzo, nel suo avvicinamento al Vangelo fino a considerare il mondo moderno come sponda naturale per le parole millenarie degli apostoli, applicando le parabole dei santi come leggi inamovibili che tutto regolano. La messinscena è ampia e aperta, bianca, pulita, un quadrato con tante finestre che adesso si fa scuola, ora casa, infine chiesa. Teche linde alle pareti dove poter scrivere (come sono gli adolescenti, teli bianchi, spugne che raccolgono) versetti e frasi, citazioni bibliche e virgolettati che danno un senso alla vita, che la spiegano, la chiariscono, vetrate come lavagne. La religione come appiglio e piede di porco per dare una definizione all'insondabile esistenza degli umani. Il ragazzo (molto convincente il protagonista) che diviene ogni giorno sempre più devoto e pio, bigotto ed osservante, che rifiuta il contatto con le ragazze, che entra in aperto conflitto con la madre e con la professoressa, nodo e fulcro della vicenda. Chi è il Martire? Chi vuol farsi Martire? Chi è vittima e chi invece si fa passare per vittima? In questo gioco al massacro ci si scambia la pena di una croce da portare per divenire quei “Martiri” che la società può tollerare, sopportare, santificare, con i quali solidarizzare e non, per senso di colpa, emarginare.

Interessantissima la riflessione del giovane regista e drammaturgo Tiago Correia che incentra la sua riflessione sul “Turismo”, quella massa di persone che si spostano, mangiano, fanno foto, si muovono, prendono mezzi, hanno bisogno di servizi, incrementano l'indotto di un Paese inevitabilmente trasformandolo a suo gusto e misura snaturandolo intimamente. Il Portogallo, negli ultimi anni, ha sponsorizzato dinamiche per far sì che i pensionati europei, prendendo lì la residenza non paghino le tasse per i primi dieci anni.1533_© Jose Caldeira_© Jose Caldeira.jpg Un bel colpo, un Paese sicuro, tranquillo, con una buona qualità della vita, un clima mite anche d'inverno e nuove strutture per i suoi nuovi cittadini. E' ovvio che il turismo, e di rimbalzo l'economia, per soddisfare chi viene a spendere nel nostro Paese, lo voglia a sua immagine e somiglianza, a cominciare dal cibo, ai costumi, tutto si frantuma, si globalizza, diventa meticciato, le tradizioni si perdono, tutto si annacqua tra souvenir (prodotti comunque in Cina) e mete sempre meno esotiche ma anzi frequentatissime. Non esiste più un luogo che non ha visto turismo e turisti che sì comprano, dormono e cenano ma che trasformano le città in gadget, ninnoli, soprammobili, cartoline. Le città così violentate perdono la loro anima, i residenti che lasciano il centro affittando a prezzi astronomici. Quello che è successo con Venezia, città fino alle sei di pomeriggio invivibile e dopo deserta. Quello che è successo a Forte dei Marmi in Versilia con i russi che sono arrivati in massa a comprare le ville. Si crea una bolla finanziaria e immobiliare per le quali per i residenti che lì ci vivono tutto l'anno, i prezzi diventano insostenibili, i servizi ai quali poter accedere irraggiungibili in quella che era ed è ancora casa loro ma, in pochi decenni, esclusi, emarginati dal mercato. Se ci mettiamo anche che per attirare capitali stranieri (negli ultimi anni cinesi, russi, arabi) devi abbassare il costo del lavoro, va da sé che in molti Paesi del mondo, compreso il Portogallo e l'Italia che vivono di turismo, tra qualche anno, dopo l'ennesima fuga dei cervelli, in patria non rimanga che lavorare nella ristorazione o nella ricettività alberghiera. Un magro panorama.

La messinscena è europea, di grande respiro internazionale con un uso delle luci evocativo e serafico e sensuale, le immagini riprese in presa diretta e riproiettate sulla scena, il rumore costante di aerei che atterrano e partono per il mordi e fuggi low cost. Se tutti possono andare dappertutto allora il prezzo si abbassa compresa la qualità in nome di una quantità che diviene dozzinale, grossolana. Le Nazioni si trasformano in divertimentifici, in succursali estive per stranieri con il portafoglio gonfio. Basti pensare alla Grecia alla quale è rimasto il mare e le isole. I Paesi diventano quello che i turisti sperano di trovare, le persone del luogo v1211_© Jose Caldeira_© Jose Caldeira 1.jpgengono sostituite, bisogna imparare le lingue altrui per potergli vendere l'ennesimo ricordo a pochi euro. E' un gioco che in pochi anni può distruggere ecosistemi di usi e costumi centenari inseguendo il Dio denaro e cercando di soddisfare le richieste, la domanda che gestisce e trasla l'offerta. Dimmi cosa vuoi e sarò in grado di dartela in un cortocircuito di competizione internazionale per attrarre più rotte possibili, intercettare più flussi. Vengono scoperte nuove mete, si costruiscono aeroporti, sorgono città che non c'erano, servizi, possibilità, il lavoro c'è per tutti, sottopagato ma c'è, fin quando non viene aperta un nuovo mercato che attragga maggiormente. Perché nel mondo del turismo, dove tutti sono andati dappertutto, è la novità quello che cerchiamo sempre, il nuovo, il mai visto. Appena il turismo di massa si sposta da un luogo ad un altro vengono mese sul lastrico generazioni e popoli, famiglie intere. Il turismo è una droga, è un doping che pompa quelli che all'inizio sembrano soldi facili ma che gonfiano i conti, le spese, l'inflazione. Il turismo è come la prostituzione, vittima delle ondate e delle voglie. Gradualmente gli Stati perdono i loro connotati, la propria identità sbiadisce, diventa movida e alcool, ristorantini, code, musei. I piatti tipici si avvicinano al gusto del forestiero per poterglieli vendere più facilmente, storie millenarie di popoli si inchinano a tripadvisor, si genuflettono a booking e tutto prende il sapore di una Disneyland al retrogusto del “menù turistico”, quelli dove non mangi ma ti riempi e ti rimane quella sensazione di pienezza senza che il palato sia realmente soddisfatto. Le città diventano “a misura di turista” e non “a misura di cittadino”, il turismo che usa ed abusa, consuma e sporca e se ne va lasciando i problemi a chi la abiti 365 giorni l'anno. Turismo e responsabilità spesso sono due rette parallele. Una bellissima intuizione, una regia fresca, una dialettica efficace per smuovere il dibattito.

Tommaso Chimenti

Il nostro collaboratore Tommaso Chimenti, giornalista e critico teatrale, ha vinto il prestigioso “Grande Premio Internazionale di Giornalismo e Critica Teatrale Carlos Porto” al Festival de Almada di Lisbona per i testi e le recensioni prodotte in occasione della rassegna dello scorso anno. Il Festival teatrale di Almada compie quest’anno i 35 anni, è organizzato dal gruppo teatrale Companhia de Teatro de Almada, diretta dal regista Rodrigo Francisco, che invece è attiva da 40 anni, e si svolge ogni anno nel mese di luglio, dal 4 al 18. Il Premio si divide in tre categorie: Il “Grande Premio” (vinto da Chimenti), il “Premio Porto per la stampa generalista”, e il “Premio Porto per la stampa specializzata”.IMG-20180719-WA0010.jpg_MG_0042.JPGQuesta la motivazione della giuria composta da un rappresentante della municipalità di Almada, un membro dell’Ordine dei Giornalisti portoghesi, un delegato del Sindacato dei Giornalisti, un nominato dei Lavoratori dello Spettacolo e un componente della Società degli Autori: “A Tommaso Chimenti, per la serie di testi sul Festival di Almada, di elevata qualità e creatività, pubblicati sulla rivista Hystro, sul portale Erodoto 108 e sulla testata giornalista on line recensito.net. Per il parallelismo tra l’arte e la città e per il legame del Festival con lo spazio fisico dove è inserito, in un’ottica e approccio differenti e innovatori” (http://www.jornalistas.eu/?n=9809).
Il riconoscimento è stato consegnato in occasione della serata conclusiva del festival. Chimenti è stato premiato per aver redatto le recensioni sugli spettacoli “Operarios” della compagnia portoghese Utero, “A perna esquierda de Tchaikovski” con la francese Barbora Hruskova, “Svaboda” dell’argentino Bernardo Cappa, “Mae” dei belgi Peeping Tom, “Tempestade” del portoghese Joao Garcia Miguel.36874283_10209221733578789_6013874209279705088_n.jpg
Il premio, istituito nel 2008, è intitolato alla memoria di Carlos Porto, critico teatrale, poeta e drammaturgo portoghese. In questi anni hanno vinto giornalisti e critici di importanti testate portoghesi, spagnole, sudamericane, anglosassoni 36836404_10209222055906847_1443639070549868544_n.jpge statunitensi: Primer Acto, Publico, Revista Obscena, Latin American Theatre Review, Diario de Noticias, Jornal de Letras,Jornal espanhol Gara, Revista ADE, ABC, Teatro Critico Universal, Jornal Raio de Luz, Expresso, L'Humanité, L'Apuntador, Jornal I, The Guardian, El Mundo. Negli anni, due menzioni tra i giornalisti italiani: nel '09 per Gianfranco Capitta de Il Manifesto e nel '13 per Mario Mattia Giorgetti e Rosanna Bocchieri di Sipario.
Qui il bando integrale: https://aviagemdosargonautas.net/2018/06/15/festival-de-almada-35-a-edicao-apresentacao-a-comunicacao-social-premio-internacional-de-jornalismo-carlos-porto/

La redazione 19/07/2018

LISBONA – Trentacinque anni di festival, quarant'anni della compagnia che lo organizza. Numeri tondi e importanti per il Festival de Almada, quello spicchio di terra collegato a Lisbona dal grande ponte in ferro rosso. Il Ponte e la statua del Cristo Redentore, i simboli di questa parte che s'affaccia sulla foce del Tejo e guarda l'oceano, grande e misterioso, lì ad un passo. Portogallo è il bacalau, è il pasteis de nata, è, inevitabilmente, Cristiano Ronaldo. Ma anche le maioliche azul che rivestono, dentro e fuori, le chiese, è la Chiesa del convento do Charmo che ha perso il tetto nel terremoto di36866233_10209226287372631_6506777403631599616_n.jpg metà '700 (ricorda San Galgano, l'abbazia vicino alla spada nella roccia), è indiscutibilmente il fado, i tram che s'inerpicano sulle vie in salita. Fascino e tradizione. Lisbona è Belem con la sua fortezza sull'acqua, con il monumento ai Padri delle Scoperte che si protende nel mare alla ricerca di nuove terre. E Almada sembra tuffarsi nel cuore di Lisbona. Non chiamatela periferia. Qui la Companhia de Teatro de Almada, diretta dal regista Rodrigo Francisco, mette in piedi, ogni anno dal 4 al 18 luglio, una rassegna internazionale con i grandi nomi del teatro; quest'anno, solo per citarne alcuni, Pippo Delbono, la Needcompany di Jan Lauwers, la Familie Floz, Spregelburd e Paolo Magelli. Gruppi provenienti dal Belgio come dalla Francia, dalla Croazia e dal Messico, Italia e Spagna, Slovenia e Germania, un'atmosfera multiculturale piena, vivace, frizzante.

28mar13-459.jpgHa una patina da Fratelli Coen l'“Arizona” dei messicani Teatro de Babel, testo smaccatamente anti-Trump, polemico con l'arma dell'ironia (facile), pungolo alle politiche migratori e anti-immigrazione che stanno sconvolgendo l'attualità, dal muro ai confini con il Messico ai barconi verso l'Italia, ai respingimenti in Ungheria. Ormai la politica interna degli Stati più sviluppati è la politica estera. Qui tutto è ipercolorato, acceso come un fumetto, volutamente, forzatamente spinto verso la tesi che gli statunitensi sia tutti dei bifolchi gringo con la camicia a scacchi e il fucile pronto a sparare mentre i messicani (o chi proviene dal Sud del mondo) sia buono, bravo, pacifico e non solo voglia venire in un altro Paese ma, arrogantemente, non chiede permesso ma pretende il libero passaggio, forse anche una casa e un'occupazione. La critica sociale verso le politiche di frontiera del governo Trump (il muro non lo ha fatto, quello che già c'è è dell'epoca di Clinton) avrebbe avuto senso e sostanza se fosse stata fatta dall'interno, ovvero dal una compagnia statunitense non certo da una messicana. Ma torniamo al teatro. Gli Stati Uniti sono un posto xenofobo, abitato da trogloditi che a male pena connettono concetti e parole. Semplificazioni. Tutto è parodia, sullo sfondo un confine che è metà fisico e altrettanto metaforico. In video le centinaia di persone che ogni notte scavalcano le recinzioni e in audio l'inno a stelle e strisce: la platea si scalda, tutti contro gli “invasori” americani, tutti con i jeans e cenando al MacDonald's. Altra facile speculazione l'uomo (ricorda il personaggio di Crozza Napalm51) è un bovaro ignorante mentre la moglie (le donne, si sa, sono sempre un passo avanti agli energumeni maschili), pur nei suoi dubbi e nelle sue incertezze, è più sensibile e aperta, progressista e possibilista. Il pic nic sulla frontiera è assurdo. Si sentono i profumi del “Grande Lebowsky” come gli afrori da “Breaking Bad”. I messicani del Teatro de Babel ci dicono che gli americani guardano con il binocolo un nemico che non esiste (infatti i due coniugi non scovano nemmeno un erede dei Maya intendo a passare il confine clandestinamente) ma è dentro di loro, alberga nelle loro coscienze sporche. C'è un sibilo che ci porta all'“Aspettando Godot”, ad un qualcosa che deve accadere ma che proprio nel momento giusto ritarda, tentenna, si stoppa, un coitus interruptus. Marito e moglie scrutano la platea, siamo noi i nemici, i messicani in un mix da musical campagnolo tracoloniapenal_04.png “La casa nella prateria” e il nostro Mulino Bianco, l'immancabile Bibbia e nel naso quel senso da Far West. Nel finale, pulp e splatter, la ridicolizzazione degli U.S.A. raggiunge il suo acme. Peccato che esistano ancora i confini, gli Stati, i passaporti, le leggi, i governi.

Da una frontiera da eludere ad una reale impossibile da oltrepassare una volta varcato il cancello: la prigione. I portoghesi del Teatro do Bairro hanno ricreato quel velo di angoscia claustrofobica del quale è impregnata “Colonia penal” di Genet riuscendo a rendere e restituire tutto il peso chiuso, tutto quello strato di impossibilità e rapporti deviati che scaturiscono dietro le sbarre, tutti i poteri e le subalternità da subire, le scale gerarchiche alle quali essere sottomesso. Ricorda le performance dei Living Theatre. Gli aguzzini hanno cappelli da Pinocchi, la ghigliottina sta in primo piano a ricordare la fine, la conclusione mentre le pareti semoventi si aprono o si richiudono, diventano un angolo ottuso o acuto come ventagli, come un incubo sotto il quale essere schiacciato senza via d'uscita in questa penombra, reale e dell'anima, che tutto ammanta come una lingua di catrame, in questo lager dalle sintonie fragili, in questo campo di concentramento allucinato senza scampo.

zapiranje_ljubezni-01-v.jpgInfine il “Final do amor” di Pascal Rambert a cura degli sloveni Mini Teater, un Lui e una Lei che si fronteggiano in monologhi lunghissimi, scagliandosi, scannandosi, insultandosi, tentando di amarsi odiandosi. In una scena vuota, svuotata e arida come il loro rapporto giunto al capolinea, si urlano in faccia come gatti randagi, vorrebbero andarsene ma ritornano perché hanno bisogno del nemico di una vita. Tanto sono immobili, fissi, statici, verticali nella loro postura, tanto i loro gargarismi vocali e il loro profluvio di parole azzanna l'altra, lo travolge, lo inonda, lo spazza come cascata, come valanga, come alluvione di rancore e di tutto quel non detto che adesso esonda, travalica, non riesce a rimanere negli argini. Sembrano Marina Abramovich e l'ex marito Ulay nella celebre performance “The Artist is Present”. Vanno a folate, attacchi e rinculi, reprimende e scuse, singhiozzi tremanti e accuse solide, una guerra, meglio una guerriglia dove avvicinarsi e ritirarsi a fisarmonica in un flusso di parole da apnea, una sfida, una mitragliatrice che spara critiche e denunce, mancanze e insoddisfazioni da “C'eravamo tanto amati”, una danza di morte, un ballo per rinascere.

Tommaso Chimenti 16/07/2018

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM