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"Primavera dei Teatri" compie vent’anni: un traguardo sottolineato più volte dai relatori della conferenza stampa di lunedì 15 maggio, dove è stata presentata la nuova edizione Festival di teatro contemporaneo, dal 25 maggio al 1 giugno a Castrovillari (in provincia di Cosenza), nel cuore del Parco del Pollino. L’incontro di lunedì, svoltosi in Piazza dei Campitelli presso la sede della Delegazione di Roma della Regione Calabria, ha visto la partecipazione di diversi dirigenti e rappresentanti delle istituzioni: tra questi, il sindaco di Castrovillari Domenico Lo Polito e l’Assessore alla Cultura della Regione Calabria, Maria Luisa Corigliano, intervenuta in videoconferenza. Una presenza, quest’ultima, non casuale per una manifestazione che vive grazie al finanziamento pubblico locale: l’investimento, ha ricordato l’Assessore, ammonta a 200 mila euro all’anno ed è finalizzato a valorizzare «la comunicazione materiale e immateriale» del territorio. 

A farci entrare nel vivo della nuova edizione sono stati Settimio Pisano, Direttore Generale del Festival, e Saverio La Ruina, Direttore Artistico assieme a Dario De Luca e, con quest’ultimo, creatore dell’iniziativa nel 1999 tramite l’Associazione Scena Verticale. Pisano ha illustrato i diversi progetti di respiro internazionale portati avanti sotto l’egida del Festival: primo fra tutti, Europe Connection (in collaborazione con Fabulamundi), attivo già da due anni e volto a far incontrare la nuova drammaturgia europea con le compagnie teatrali calabresi. Novità significativa di quest’anno sarà invece il progetto BeyondtheSud, attraverso cui il Festival si farà residenza per drammaturghi brasiliani e argentini under 35. La Ruina, dopo aver ricordato i molti e significativi artisti e compagnie che nei decenni trascorsi hanno visitato il Festival (Teatro Sotterraneo, Punta Corsara, Muta Imago, Lucia Calamaro e Davide Enìa, per citarne alcuni) ha esposto nomi e titoli del programma di quest’anno: Jan Fabre aprirà il Festival col suo lavoro autobiografico THE NIGHT WRITER. Giornale notturno, interpretato da Lino Musella. Seguirà il ritorno di Roberto Latini, che porta nuovamente un debutto, In exitu, dove ci si confronta con lo sperimentalismo linguistico del romanzo omonimo di Giovanni Testori.

C'è spazio anche per una produzione della stessa Scena Verticale, Lo Psicopompo (scritto e diretto da Dario De Luca), spettacolo che, ha aggiunto Pisano, sarà presentato nei BoCs Art di Cosenza «per gruppi di sessanta spettatori alla volta in cuffia». Un’attenzione significativa è dedicata ai giovani autori: tra questi, Pier Lorenzo Pisano col testo Per il tuo bene (già vincitore del Premio Riccione-Tondelli), Paola Fresa con la prima nazionale de Il Problema e Carlo Guasconi, il cui testo Aldilà di tutto verrà diretto e interpretato Valentina Picetto e Chiara Stoppa. Arricchiscono ulteriormente il programma, tra gli altri, l’anteprima di Sangue del mio sangue (riflessione sul male e sul rapporto vittima-carnefice) della compagnia Kronoteatro, un Menelao rielaborato in chiave contemporanea dal Teatrino Giullare, la riflessione sulla disumanità verso i migranti del Miracolo (scritto e diretto da Giuseppe Massa) e il «docupuppets per marionette e uomini» La Classe (scritto e diretto da Fabiana Iacozzilli). Non mancheranno infine gli incontri, tra cui quello con Claudio Longhi per la presentazione di Linea, nuova collana creata da Luca Sossella Editore con la Fondazione Emilia Romagna Teatro. Ce ne è abbastanza, insomma, per aspettarsi una ventesima Primavera dei Teatri pienamente all’altezza del suo importante anniversario.

Emanuele Bucci 16-04-2019

CALENZANO - “Dove tra ingorghi di desideri alle mie natiche un maschio s'appende, nella mia carne tra le mie labbra un uomo scivola l'altro si arrende” (Fabrizio De Andrè, “Princesa”).

Nella parola “maschio” o “maschile” c'è quel “ma” iniziale che fa da incipit, un termine che parte dubbioso, febbricitante, ipotetico, contraddittorio, sospeso, in bilico, nell'incertezza di un prima che vacilla, traballa, si tende. Nella “fiammina” invece si sente il calore, la linfa che cresce, il fuoco, la fiamma attratta, con una forza contraria a quella di gravità, verso l'alto, le nuvole, il cielo, come un dito infuocato ad indicare le stelle. Maschio e femmina, uomo e donna, mondi lontani che, a volte, si riuniscono in un corpo solo.masculu1
Masculu e fiammina”: cosa rimane di un rapporto nel quale si sapeva ma non si parlava, si conoscevano fatti e dettagli ma si evitava di metterli sul piatto, di discuterne, scandagliarli? Una madre (echi di “Psycho”, ma senza thriller né splatter), che adesso sta distesa orizzontalmente, ferma, immobile, defunta, una lapide, una foto, una rosa, un piolo, distante ma vicino, che fa da contraltare, scomodo, dove il figlio, ormai anch'esso anziano, che la va a trovare al camposanto, si siede, quasi fosse una penitenza, per raccontare quello che già la madre intuiva, aveva notato, sospettava: la sua omosessualità.
Saverio La Ruina è attore sensibile e fa della gentilezza e dell'armonia i tratti fondamentali della sua ricerca e della sua progressione nella drammaturgia italiana. Affronta temi difficili, ampi, scivolosi, ma lo fa con la leggerezza della strada, del paese, con l'utile riparo di un dialetto che è sempre aspro ma che nella sua bocca, tra i suoi denti, dalle sue labbra esce come sibilo arrossito e timido, sillabe dolci. La denuncia La Ruina la fa, l'ha fatta, la farà, passando da “Dissonorata” a “La Borto”, fino alla violenza casalinga sulle donne di 000masculuPolvere”, con l'impegno e il puntiglio, con la volontà di non dare mai lezioni né aprire le porte della conoscenza ma con quel tocco soffice, una carezza potremmo dire, che ci conduce dentro storie che già conosciamo, lette distrattamente nella cronaca senza soffermarci, sentite in uno dei tanti tg arrotolando un nuovo giro di spaghetti. La sua narrazione è semplice, e qui esplode la sua forza, una piccola cascata di parole che mai travolge con prepotenza ma che, con guanto di velluto, sfiora, passa sulle cose, come una pennellata, un canto, una mano nella mano.
Parla con lei”, potremmo dirla alla Almodovar. Le voci lontano che gracchiano di sottofondo ci portano in un abitacolo ristretto, giardini chiusi nell'ombra, piazze assolate, cortili interni, portici e archi di periferia, una voce che fa ricordo e famiglia, infanzia e poi adolescenza e infine gioventù e maturità, quella voce che ti chiama quando giochi, quella voce che riecheggia nella testa, quella voce che è filo che ti lega, boa di salvezza, casa dove tornare, quella voce che è mamma, che è madre, che somiglia al parlato dell'attacco di “Diamante” di Zucchero Fornaciari, poche parole in dialetto strascicato che già fanno tempo che passa e brividi. Il figlio racconta, si confessa a questa madre che ormai con il suo silenzio (qui non è omertà: “Grazie per tutto quello che non mi hai detto e per quello che non mi hai chiesto”) può solo annuire e acconsentire a questo sfogo, finalmente, lieve, emancipato, pulito, risolto. La neve tutt'attorno è simbolo di quiete, di cappa morbida, anche se somiglia a una spruzzata di cenere vulcanica, caduta per ammantare nel segreto, proteggere in una bolla sospesa nel tempo (forse il dialogo-monologo è immaginario), queste parole che hanno percorso tanto tempo prima di essere partorite.masculu2
È un'esistenza piccola e fragile, fatta di poche cose quella del “nostro”, tra zie da accudire, gli amori del passato, la panchina posizione privilegiata dalla quale guardare lo scorrere immobile del piccolo centro cittadino del Sud impantanato nei pregiudizi e in quel bullismo denigratorio, composta da offese e sberleffi, vergogne ed emarginazione, verso i “masculi a cui piacciono i masculi”. Alla madre (a se stesso, in definitiva) riporta le angherie, ma senza lamentazione, gli epiteti, ma anche con autoironia, gli sgarbi fino alle minacce e alle percosse fino alla morte pasoliniana del compagno aggredito e ucciso con l'unica colpa d'essere omosessuale.
Una vita a subire, gli occhi addosso, una normalità dei sentimenti mai potuta vivere fino in fondo, sempre “braccato”, nascosto, nell'ombra. E tra i santi Cosma e Damiano, la prima coppia di fatto della cristianità sempre accorpati e associati, la Riccione degli anni '70 e “Ti amo” di Umberto Tozzi, tra un ricordo di commozione e una ventata pop, l'affresco che ne esce è una protesta civile, senza rivendicazioni né astio combattivo aggressivo, una richiesta al mondo di più ascolto e meno giudizio, guardare e considerare l'altro che ci si para davanti, sia che tu sia “masculu” sia che tu sia “fiammina”, soltanto per quello che è: una persona.

Tommaso Chimenti 29/01/2017

FIRENZE – Facciamo un ripasso, un riepilogo. Che è sempre importante capire dove siamo per poi tracciare una linea sul futuro. Che cosa abbiamo visto, a teatro, in questo 2016 che va a concludersi che ci ha fatto sobbalzare dalla poltrona vellutata, che ci ha fatto rimanere incollati con gli occhi fissi sul palco, che ci ha fatto esclamare o respirare o applaudire come forsennati alla fine in un moto non di liberazione ma di gratitudine infinita per il tempo e l'arte che gli interpreti ci avevano regalato. L'elenco è, come deve essere, personale e parziale. Nessuna classifica. Questi sono i “miei” spettacoli di quest'anno che, al mondo del teatro, ha portato via principalmente Giorgio Albertazzi, Paolo Poli, Anna Marchesini e Dario Fo. Quelli in cui ho goduto e riso e mi sono commosso e ho detto alleluja.ChimentiCamera701
Cominciamo random, senza una scaletta cronologica. Accanto ad ogni spettacolo citato sarà presente il luogo, lo spazio, il teatro dove ho visto la piece. Li abbiamo visti in piccole rassegne o in giganteschi festival internazionali, la maggior parte in Italia, a Milano, Modena, Genova, Firenze, Messina, alcuni all'estero. Ecco la mia pattuglia, la mia ciurma, il mio esercito.

Non si può definire spettacolo muto “Murmel, murmel” (foto di copertina) dei tedeschi della Volksbuhne (Festival Gift, Tbilisi) perché dalle loro bocche esce ossessivamente un'unica parola, appunto quella che nel titolo appare due volte. Un grande incastro di paraventi, con precisione millimetrica, che scendono dall'alto o si chiudono dai lati, che danno l'effetto dello zoom di una macchina fotografica, portandoci, grazie ai costumi e alle musiche, nei favolosi anni '60 quando, per i protagonisti, oggi forse anziani, tutto era ancora possibile.
ChimentiGeppettoA che punto di svolta sia la drammaturgia dei Paesi dell'Est ce lo comunica, con piacere, “Camera 701” dell'autrice rumena Elise Wilk e visto per la regia di Ciro Masella (Intercity, Teatro della Limonaia, Sesto Fiorentino); il pubblico diventa voyeur spiando e sbirciando dentro questa room d'albergo dove si avvicendano persone, vite, futuri, perplessità, messe in gioco e in discussione. Come affrontare lo scottante tema dell'omogenitorialità che tanto recentemente ha fatto discutere ce lo spiega Tindaro Granata con il suo nuovo “Geppetto & Geppetto” (“Primavera dei Teatri”, Castrovillari), altra sua prova di maturità di scrittura, tutto giocato tra profondità di temi, senza dare niente per scontato né voler impartire nessuna verità o lezione, ma anche con ironia e leggerezza, che non guasta mai per far passare temi complessi.Chimentisanghenapule

Riuscire a trovare l'alternanza ideale e la sponda ad un campione della narrazione come Roberto Saviano non era facile ma in “Sanghenapule” (Piccolo Teatro, Milano) Mimmo Borrelli fa da contraltare perfetto con questa sua cifra classica che sempre si rinnova di sudore, corpo e parole che vengono da lontano, dal profondo, dal vulcano, dalle viscere per spiegare l'inspiegabilità di Napoli.
Da lontano arrivano anche le parole centenarie del “Minimacbeth” (Teatro di Buti, Pisa), la tragedia shakespeariana ma contratta, non accorciata né ridotta, ma ristretta come un caffè nerissimo e per questo ancora più potente. Marconcini e la ChimentiminimacbethDaddi, con la loro età, sulle spalle sono riusciti a dare ancora più umanità ai due regnanti usurpatori e più sostanza ai fantasmi che gli girano intorno.

C'è un qualcosa in più del teatrale, del metateatrale nel “Golem” (Teatro Vittorio Emanuele, Messina) della compagnia ingleseChimentiGolem 1927 dove convivono in un senso d'armonia, difficilmente trovata altrove, la musica dal vivo, le scene, i video, i filmati, come essere catapultati dentro un grande videogioco ed essere imbrigliati, come accade nella realtà con la grande illusione-paravento della libertà di scelta, nelle regole imposte da qualcun altro. Siamo noi i protagonisti passivi e rassegnati che si affidano al Golem per la risoluzione dei loro problemi, non capendo che delegare i propri diritti non ci rende più liberi ma più schiavi.
ChimentigiocatoriIn un interno napoletano, ma potremmo essere dovunque, quattro uomini (su tutti Enrico Ianniello e Tony Laudadio) attorno ad un tavolo, quattro “Giocatori” (Teatro Niccolini, Firenze) mettono sul piatto frustrazioni e fallimenti, scollamenti tra quello che avrebbero voluto essere e quello che sono diventati. Si sono giocati la vita e ora tentano l'ultimo colpo, gabbare la sorte, l'ultimo colpo di coda, meravigliosamente malinconico.ChimentiVania

Altra periferia, prima geografica e metropolitana poi dell'anima, per la trasposizione da Cechov all'hinterland milanese del “Vania” degli Oyes (Spazio Tertulliano, Milano) , una delle novità più illuminate dell'anno, un gruppo da tener d'occhio. Un impianto cupo, marginale dove l'insoddisfazione e la non realizzazione la fanno da padrona, con una cappa di melassa amara che tutto copre e avvolge, imprigionandoci.

ChimentiSantaEstasiIl progetto più complesso e articolato dell'anno è stato certamente “Santa Estasi” (Teatro delle Passioni, Modena) coordinato da Antonio Latella fresco neo direttore della Biennale Teatro di Venezia. Otto spettacoli (da vedere assolutamente in lunghissima maratona consecutivamente) di otto giovani drammaturghi, una ventina di attori under 30, alcuni veramente straordinari, per un impianto contemporaneo dal sapore antico, una grande maestria registica applicata al mestiere dell'attore in un connubio, in una miscela, in un tutto, finalmente, compiuto, essenziale, necessario.ChimentiOrfeo
Altro grande e impegnativo progetto è stato l'“Orfeo Rave” (Fiera, Genova) del Teatro della Tosse, che ha rappresentato una sorta di sollevazione e orgoglio genovese. Dieci repliche per cinquecento persone a sera, in uno spettacolo itinerante con oltre dieci location e spazi utilizzati all'interno dell'allora appena chiusa Fiera del Mare. Un viaggio tra i budelli della città, del Mito, di noi stessi, e una voce meravigliosa, quella di Michela Lucenti, da sentire, risentire e sentire ancora.

ChimentiScuolaNon può mancare uno spettacolo corale, e che, a prima vista, poteva sembrare sorpassato dagli eventi, triturato dall'acqua passata sotto i ponti in questi venti anni dalla sua prima uscita. E invece regge, e ancora molto bene, “La scuola” (Teatro Era, Pontedera), Silvio Orlando su tutti ma non solo, dove l'equilibrio tra un'ironia spassosa, e a volte irrefrenabile, e sentimenti e profondità e lezioni di cultura civile, è il nodo sottile che lega ogni scena in una calda atmosfera di vicinanza e umanità, di scontri e passioni, come sono quelle di vivere, di insegnare e di confrontarsi.ChimentiStraniero
Utile come non mai oggi rileggersi Camus, passando per i Cure. Ecco “Lo straniero” (Teatro Niccolini, Firenze) in forma di monologo con un gigantesco e strepitoso Fabrizio Gifuni che dà voce e corpo, fermo, impassibile, senza emozioni né reazioni al “nostro” antieroe con un'empatia, una sostanza, un'elettricità statica che tutto pervade e corrobora e frigge intorno.

ChimentiTennisUltime due segnalazioni per due piccoli, ma grandissimi, spettacoli: “Le regole del giuoco del tennis” (Teatro delle Spiagge, Firenze) nel quale Mario Gelardi del Teatro Sanità di Napoli ha saputo applicare allo sport, in questo caso a quello di racchette, palline e net, l'amicizia ma anche le convenzioni sociali legate sia alla sessualità che all'accettazione prima di sé e dopo da parte della società: messaggio semplice e potente.
Quante volte ci siamo ritrovati a pensare, la testa tra le mani oppure guardando un punto indefinito, lontano, nel nulla. Quante volte abbiamo letto Paperino che faceva ruminare i suoi pochi neuroni con il fumetto pannosoChimentiMumble sulla testa che diceva, silenziosamente, e mugugnava il suo “Mumble, mumble” (Teatro del Sale, Firenze). Le riflessioni di una vita, il mettersi a nudo e raccontarsi non è mai cosa da poco. Emanuele Salce si apre, con il suo fare sornione e sensibile, e ci porta dentro il suo rapporto con il padre naturale, il regista Luciano Salce, e il padre che lo aveva adottato, Vittorio Gassman. Nomi che mettono i brividi e che, in qualche modo, hanno “schiacciato” prima il bambino e poi il ragazzo divenuto attore per caso ma non per sbaglio. Perché dal palco alla platea riesce a far passare, con leggerezza e sobrietà e autoironia, tristezza e nostalgia, distacco e disincanto, ma anche bisogno d'affetto infinito. Mumble è più pensiero che ripensamento, è un momento necessario per andare avanti e voltare pagina, per vedere chiaramente il passato e potersi, liberandosi, immaginare il futuro. Come solo il teatro sa e può fare.

Tommaso Chimenti 23/12/2016

Nelle foto gli spettacoli nell'ordine in cui sono stati menzionati

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