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Un artista cinico non è un vero artista”: nella sensibilità dei musicisti Robert McDuffie riconosce una solida certezza e, nell’affermare che “la bellezza e la ricerca della verità sono l’unica soluzione”, offre la sua personale ed aggiornata versione dell’adagio, già di Dostoevskij, “la bellezza salverà il mondo”. Violinista e pedagogo newyorkese, con queste parole McDuffie introduce la 15° stagione del Rome Chamber Music Festival (Rcmf), di cui è fondatore e cuore pulsante. Dal 3 al 7 giugno, musicisti di varia provenienza geografica e generazionale si alternano sulla scena della sala al pian terreno di Palazzo Barberini. Il Festival si propone di offrire una panoramica del repertorio cameristico e di fare il punto dei talenti della scena internazionale, grandi e piccini. Accanto a interpreti di consolidata fama, come McDuffie stesso, infatti, si cimentano le 23 eccellenze dei giovani della De Simone & Partners da America, Asia e Europa. “Questo – scherza McDuffie – è un festival romano con un piccolo accento americano”.

Rcmf 1 McDuffie impugna il suo prezioso Guarneri del Gesù e inizia a suonare il primo dei brani in programmi per il concerto del 4 giugno. Con lui Evan Hjort (violino), Tristan Feichtner (violoncello) e Diego Procoli (armonium) per le “Bagatelle” op. 47 di Antonin Dvořák (1878). Con i loro cinque movimenti dalla forte impronta folk, condividono la medesima vivacità e ballabilità delle più celebri “Danze slave”, partorite quello stesso anno. È la joie de vivre di un tempo di festa. Nel primo, terzo e quinto si ripete lo stesso tema che acquisisce solidità facendosi ora spigliato, ora vigoroso, ora scherzoso, e con il crescere dell’intensità aumentano gli abbellimenti e i saltellati. La melodia presenta, invece, respiri ampi e rilassati, caldi e avvolgenti (nel tempo di minuetto del secondo movimento) fino all’atmosfera intima e raccolta (nel canon del quarto).

Segue la “Sonata a quattro n. 6 in Re maggiore” di Gioachino Rossini (1804). Anche in questo caso l’organico strumentale subisce variazioni dettate dalle effettive disponibilità dei committenti: Josef Srb-Debrnov, l’amico violoncellista per il quale Dvořák idea le “Bagatelle”, possedeva un armonium, non un pianoforte; Agostino Triossi, il giovane membro della famiglia che ospitava l’adolescente Rossini a Ravenna, era contrabbassista, non violista. Nelle parole di Rossini “sei sonate orrende”, per tutti gli altri semplicemente un diamante grezzo del genio e dell’estro del cigno di Pesaro. Così come le interpreti, Hikaru Yonezki e Charissa Leung (violini), Julie Albers (violoncello), Valentina Ciardelli (contrabbasso): tutte virtuose. Tutte abilissime nell’adoperare ogni sfumatura che la tecnica consente loro e nell’aggiungere un quid di espressività e freschezza alle fresche intuizioni musicali del compositore dodicenne. Si imita, si ripete, si varia sospendendo e sorprendendo la struttura, pur tradizionale, senza permettere all’ascoltatore di rilassarsi. Rcmf 2 rossini facebookL’effetto del primo movimento, un “Allegro spiritoso”, è quasi mozartiano. Nel secondo, un “Andante assai”, è la quiete prima della tempesta che predomina: le nuvole si addensano (il contrabbasso), i raggi di sole (gli acuti dei violini) si diradano. La tempesta arriva e dà il nome al terzo movimento, un “Allegro” giocato sul susseguirsi di scale vertiginose di primo e secondo violino, trilli, martellato, bruschi cambi dal crescendo al diminuendo, accelerando vertiginosi negli acuti. Sono i lampi e i tuoni che si dissolvono alla fine in note lunghe e tenute. La soluzione anticipa i celebri intermezzi sinfonici, detti appunto ‘temporali’, che il Rossini compositore di opere inserirà, ad esempio, nella “Cenerentola” e nel “Barbiere di Siviglia”.

Si abbandona la musica prettamente da camera e si passa ad un organico più ampio: Lorenzo Morrocchi (flauto), Matthew Chin Lok-man (oboe), Alessandro Carbonare (clarinetto), Sarah Carbonare (fagotto), Guglielmo Pellarin (corno), Steve Moretti (percussioni), Diego Procoli (pianoforte), Evan Hjort (violino), Bronwyn James (violino), Daniele Valabrega (viola), Riana Anthony (violoncello), Dušan Kostić (contrabbasso) si predispongono a raccontare la favola, musicale, di “Pierino e il lupo”, su testo e musica di Sergei Prokofiev, diretti da Ward Stare e accompagnati dalla voce narrante di Enrico Stinchelli. Sulla professionalità e sulla bravura dei musicisti nulla da eccepire: esecuzione cristallina, come la nitidezza dell’ideazione, quasi un puzzle scomposto in cui ogni personaggio è associato ad uno o più strumenti. C’è poi la riproposizione dell’atmosfera e del climax narrativo ed emotivo: sempre efficace il contrasto tra la gaia spensieratezza dell’andantino di Pierino (archi), la flemma del gatto (un clarinetto a tratti jazz) e i cromatismi inquietanti del tema del lupo (corni). A voce narrante e parte strumentale si sovrappongono la proiezione di video e immagini e un gioco di luci per un effetto immersivo. La proposta registica, però, rischia quando gli innesti di attualità sociopolitica nostrana disturbano il racconto. Rcmf 3 pierino con il lupo facebookDopo un lungo soggiorno all’estero, nel 1936 Prokofiev rientra in patria, una Russia assoggettata in tutto alla causa socialista. Musica inclusa, che deve essere semplice e godibile. E certo una musica per bambini ben si prestava al rispetto di simili dettami. Più volte si è tentato, invano, di leggere questa favola come foresta di simboli a sfondo politico: da una parte la velocità con la quale partitura e testo vennero composti, dall’altra il riconoscimento di una sincera, e alquanto naïve, adesione all’ideologia socialista da parte del Prokofiev deluso dall’Europa che rientra in patria. Eppure, nella versione del Rcmf, il nonno, disegnato nell’originale come severo e pedante (non a caso lo ‘impersona’ il fagotto), ha le fattezze del Presidente della Repubblica, il bosco è pericoloso per via dello spread e l’art. 90 della Costituzione diventa argomentazione dirimente del nonno sul nipote. La barzelletta dei due italiani, del tedesco e del francese in cui i primi due appaiono corruttori e corrompibili e gli altri lavoratori onesti senza macchia e senza paura non riesce, infatti, a far scattare l’applauso. La risata si smorza sul nascere. È un umorismo troppo amaro, vero lusso di questi tempi. Estraniandosi dalla satira politica (in fondo non tutto il pubblico in sala parlava italiano), resta l’incanto della costruzione drammaturgica di Prokofiev. Riuscirà la musica a salvare il mondo? Di sicuro lo renderà un posto migliore.

Alessandra Pratesi
06/06/2018

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