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NAPOLI – Non dare mai per scontata Napoli. Non credere di averla capita, non pensare di averla compresa fino in fondo. Se lo fai è la volta che ti sorprende, che ti sfugge, che ti frega, che ti fotte. Napoli è il mulino donchisciottesco arrugginito come la sua intrinseca utopia che lo muove. Infatti le sue pale sono ferme, immobili, incrostate. Napoli ti spiazza, ti spezza, ribalta le tue certezze, non annoia mai, ti scombussola, ti scuote. Intanto nello stesso giorno si può spaziare dal trovarsi davanti al Teatro Bellini Mario Martone che gira alcune scene della sua nuova pellicola, Erri De Luca che presenta un libro in Galleria, Giuseppe Conte che fa un comizio, e poi la mostra sui “Gladiatori” al Museo Archeologico che si mischia con quella blasfema al Museo Pan, mentre il Napoli è primo in classifica in Serie A. Un frullatore estatico.

Già il concetto labile ed effimero di noia, quel lieve misto tra insofferenza e leggera irritazione è la sensazione predominante all'uscita del lavoro del Maestro Christoph Marthaler (a proposito il 17 ottobre compirà 70 anni, 40 di attività), “Aucune idee”, dove, se proprio vogliamo parlare di idee, se c'erano (nessuna, come ci dice il titolo), erano offuscate, annebbiate eaucune-idee-ph-julie-masson.jpeg nascoste, quantomeno criptiche, e quando si palesavano diventavano subito ridondanti e stucchevoli. In una sorta di condominio-ufficio va in scena un teatro dell'assurdo e del non-sense lontano però dall'ironia che sempre contraddistingue le piece del regista svizzero. Manca la profondità, l'emozione, la linfa, il sangue, il brivido, senza gioia, e tutto ci lascia indifferenti, scorre senza toccarci. Sei porte che si aprono e si chiudono in maniera circense. Un uomo entra da una apertura e esce da un'altra come se fossero comunicanti anche se, nella narrazione, sono appartamenti separati. Un uomo, al quale cadono perennemente le chiavi dalle mani (per vecchiaia? per malattia?), mentre l'altro suona il violoncello (Martin Zeller). Ma c'è un terzo elemento così fondante e centrale che diventa a pieno titolo un terzo personaggio, anzi proprio perché invisibile, o almeno incorporeo e impersonale, funge da fulcro attorno al quale ruotano i due ruoli come lancette di un orologio alla ricerca del tempo perduto. E' la cassetta della posta dalla quale spuntano, anzi vengono proprio sputate con violenza quasi fosse un vomito, bibbie a getto continuo, a cascata, a valanga o pubblicità e depliant e volantini di prodotti commerciali della grande distribuzione a chili. La recitazione è fatta di vocalismi e virtuosismi fini a se stessi, tecnicismi freddi che non scaldano, non abbracciano, non aiutano la comprensione. Sta di fatto che si scoprirà soltanto alla fine che i due sono gemelli e che il rapporto con il Padre non è stato dei più facili. Ma è il mantra di tutto lo spettacolo che spinge la platea a chiedersi il perché di certe dinamiche, di alcuni movimenti e scelte quando, forse, una spiegazione logica non ce l'hanno. E ci troviamo nella scomoda posizione di cercare di mettere insieme i pezzi del puzzle e tentare di dare un ordine faticoso alle cose, alle scene viste. Il teatro dovrebbe porre interrogativi e dubbi non andare con il lanternino alla caccia disperata di dettagli e particolari per capire “chi è l'assassino” che, francamente, non interessa a nessuno.

Dicevamo duechristophe.jpg gemelli chiusi claustrofobicamente dentro questo palazzo, che potrebbe essere un labirinto dal quale, le porte che danno la sensazione e l'illusione di aprirsi su nuovi mondi invece riportano sempre come in un Gioco dell'Oca guasto allo stesso punto iniziale, non si può uscire. E se questo è un labirinto, il Padre-cassetta delle lettere potrebbe essere il Minotauro-deus ex machina che ordina senza palesarsi mai, che impartisce dettami senza concretizzarsi davanti loro fino a metterne in dubbio la sua vera esistenza. Il tutto è concettuale e rarefatto puntando più su un'estetica dalle linee nette e pulite che su una reale comprensione. L'attore (l'estroso, eccentrico e istrionico Graham F. Valentine), dai grandi mezzi espressivi e tecnicamente inappuntabile ma dagli scioglilingua estenuanti al limite della parodia stressante e provocatoria, sciorina il suo esperanto con parti in inglese altre in francese o tedesco. Nei suoi dialoghi surreali prima è un ladro che vuole rubare in un appartamento intrattenendosi amabilmente con il proprietario di casa da defraudare, poi riceve una lettera (sputata dalla solita cassetta, unico contatto con il mondo esterno) da una figlia che non sa di avere, oppure tira il guinzaglio a un cane immaginario che non ne vuol sapere di uscire di casa. Pare che quel loro piccolo mondo, fondato su minute e microscopiche certezze, si autodetermini tra il desiderio di uscirne e la paura di varcare la soglia che li lega e li separa dall'esterno, da tutto quello che si muove al di là dei loro movimento stereotipati e quotidianamente identici a ieri. 79351f24d611ff534b400736a11aa6847be737ffac555d17cd5054790e572749-rimg-w525-h350-gmir.jpg

Siamo sotto le feste natalizie e la solitudine si taglia a fette, l'isolamento, non sappiamo quanto volontario, è tangibile, palpabile: addirittura, come in una via crucis contemporanea, il nostro trascina una poltrona con sofferenza e fatica e peso, e non sappiamo se la seduta sia per la venuta dell'anziano Padre. Un teatro operistico gelido, una recitazione affettata lirica e glaciale che ha lasciato la platea non partecipativa, non coinvolta, non appagata.

Parlando di Padre e di claustrofobia spendiamo due parole anche sul “Paradiso” di Virgilio Sieni dove vediamo un Eden rigoglioso, debordante e che sembra “mangiarsi” l'uomo sulla Terra (tutti Adamo, nessuna Eva), green, bio, giunglesco, traboccante, esondante. Ma il tutto è tenue, incolore e timido, fumoso e pallido come la nebbia primordiale che nasce e cresce con un tappeto sonoro languido e ripetitivo, un groove senza grinta, piatto e monotono. Un teatro botanico e floreale. Anche il Paradiso è senza gioia e privo di felicità. “Where is the love?”, cantavano i Black Eyed Peas.

Tommaso Chimenti 26/09/2021

Foto: Renato Esposito

NAPOLI – Nelle città fragili, che si dibattono storicamente su un equilibrio precario (ricordiamo la leggenda di Napoli sospesa su un uovo, metafora perfetta) gli effetti di tragedie sociali come la pandemia hanno fatto ancora più danni che altrove, hanno trovato terreno fertile smontando quella socialità, quella parvenza di normalità fatta di lavori alla giornata, di “fatica” da inventarsi e conquistarsi a morsi un pezzo alla volta, giorno per giorno. E si incontrano sempre più ragazzi che ti vogliono vendere, all'ingresso di Via Chiaia o in Piazza del Plebiscito o salendo su per Toledo, calzini o penne per scrivere e le brande sotto i portici e davanti alla chiese non si contano più, sono decuplicate dal pre-Covid. La povertà la puoi conteggiare con gli occhi, ferisce. Ma Napoli si sta riprendendo.Ruggero Cappuccio.jpg Lentamente. Il turismo sta tornando. Ma si sente che è una città ferita, che ancora sanguina dolore e privazioni, dal sorriso tirato, dalle costole in fuori, che ha trattenuto il fiato per troppo tempo e questa apnea forzata, questa attesa sfibrante l'ha consumata da dentro, come un brutto male che non ha diagnosi ma batte cassa. Se l'arrangiarsi qui era considerato un valore, un sistema di vita collaudato, la costrizione del lockdown ha interrotto il percorso di generazioni, di manovalanza che sfangava la giornata. E nei bassi e nei quartieri fare distanziamento sociale era praticamente impossibile.

Il cielo questo metà luglio non è né blu né azzurro. Di nuvole non se ne vedono ma sopra il Vesuvio una caligine biancastra di foschia s'affolla e quasi lo nasconde. Vorrebbe piovere (forse vuole piangere questo cielo) ma non ce la fa. Si impegna ma riesce soltanto ad aumentare l'umidità, arrivata a livelli di foresta amazzonica. Le uniche gocce che cadono dall'alto, in questa estate da bollino hot, sono quelle che spillano e sprizzano dai condizionatori posti sulle terrazze e che fanno chiazze a terra che si asciugano velocemente. In questi giorni Napoli esplode di bellezza, nello stesso momento c'erano la mostra fotografica su Massimo Troisi, e quella su Frida Kahlo, e Klimt e Monet. Il caldo tutto tende a scolorire, è per questo che qui i toni sono più vivaci, i contrasti più aspri.

La sera però ci accoglie il fresco della Reggia di Capodimonte, nel verde torniamo a respirare. Dall'alto Napoli è bianca. Tutti gli spettacoli (la grande maggioranza campani se non proprio partenopei) concentrati su più palchi (grosso sforzo produttivo) all'interno del polmone verde della città sul golfo. E peccato che si possa vedere soltanto uno spettacolo per sera. E peccato ancora che, come in passato quando era possibile vedere e scoprire tutta Napoli attraverso i suoi palcoscenici naturali, prima il festival era dislocato in ogni angolo, dal Vomero al Real Albergo dei Poveri, dalla Galleria Toledo alla Darsena, dal Maschio Angioino al San Carlo, dal Mercadante al Sannazzaro, dal Teatro Nuovo alla Sala Assoli. Il teatro come pretesto e il contesto per esaltare la città attraverso la scena in un gioco di specchi. Stavolta il festival ha cambiato la denominazione, passando da “Napoli” a “Campania Teatro Festival” (direzione artistica di Ruggero Cappuccio, vicedirezione Nadia Baldi) per poche puntate fuori: a Benevento, ad Avellino, a Salerno, a Caserta, a Pompei (quest'ultima location gestita dal Teatro Nazionale di Napoli). Ma perché fare solo una o al massimo due repliche per spettacolo?

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Siamo riusciti a vederne tre: “La rosa del mio giardino” per la regia di Mario Gelardi ci ha lasciato dubbiosi, “Museo del popolo estinto” di Enzo Moscato ci ha sorpreso, per fortuna che alla fine è arrivato il Nest con la prima nazionale “Bufale e Liune” a firma del catalano Pau Mirò, che ci ha risollevato lo spirito. Intanto, mentre gli spettacoli a Capodimonte andavano in scena, dai vari quartieri della città scoppiavano ogni sera fuochi d'artificio e la leggenda metropolitana vuole che, se non siamo in giorni di patrono, significa che è arrivato un carico di qualcosa di illegale, come gli antichi segnali di fumo per attirare la clientela. Partiamo da “La rosa del mio giardino”; nel libretto del festival la dicitura indica “Debutto”, invece scopriamo che lo spettacolo è andato in scena a gennaio 2020. E' la presunta storia d'amore tra Salvador Dalì e Garcia Lorca. Basandosi sulle quaranta lettere che i due si scambiarono, ma la parola scritta è molto diversa da quella orale e infatti il tutto diventa difficilmente ascoltabile, non fluisce, non scorre, crea troppa distanza la poesia su carta, risulta letterario e ci appare lontano. Purtroppo assistiamo ad un'ora di scenate di gelosia, ad avvicinamenti e conseguenti allontanamenti. Sembrano due adolescenti sull'orlo di una crisi di nervi, e le due figure vengono se non proprio banalizzate quanto meno semplificate, riducendo il tutto a insignificanti screzi tra innamorati isterici e infantili, litigi da bassifondi, scambi acidi, recriminazioni, sgarbi, rimorsi, sberleffi, unghie stizzite, veleno ispido sputatosi addosso in un ballo dell'impossibilità tra battibecchi insipidi. In alcuni momenti sembra ricordare “Nella solitudine dei campi di cotone” di Koltes, dove un personaggio vuole vendere qualcosa all'altro senza che questo sappia di volerlo avere. Purtroppo qui non ci sono nemmeno Genet né Fassbinder né Testori per raccontare questo amore interrotto. La dimensione onirica e questa prolungata dinamica di attrazione e repulsione è una battaglia faticosa per lo spettatore (durata di un'ora). I due attori sono troppo sottolineanti, molto “teatrali”, in perenne posa, un'interpretazione forzata e sovraesposta.

Dall'incontro mancato tra Dalì-Lorca a Enzo Moscato la situazione non cambia. Anzi. “Museo del popolo estinto” è quasi un testamento artistico però Moscato (legge e non recita) che è in scena ma in disparte, senza entusiasmo né verve, distaccato mentre alle sue spalle una tavola da post Ultima Cena accoglie il resto della compagnia, figure tratteggiate con toni grotteschi. Sono apparizioni, fantasmi che si affollano; ognuno entra sulla scena, fa il suo “numero” e se ne va, oppure mettono in atto piccole scomposte coreografie o canzoncine per rimpolpare la drammaturgia già non-sense. E più che va avanti più che se ne perde la coerenza, si sfilaccia in una sequenza infinita (1h40') di monologhi con una recitazione affettata e artefatta, aulica e antica di un'epoca andata. Siamo in una sorta di parodia di un teatro da teca con frasi lanciate nell'agorà del palco tanto per vedere l'effetto che fa. Passano i minuti e altre chiose si affollano, non si trova il bandolo della matassa, tutto è nebuloso mentre le interpretazioni diventano, se possibile, ancora più esagerate, esagitate, caricaturali, eccessive, iperboliche. Un testo compiaciuto, ricco di battute e di citazioni, un assemblaggio di parole e perifrasi che risultano uno zibaldone composito. Un'operazione senza troppo coinvolgimento del pubblico.

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Passando dal Teatro Sanità alla Casa del Contemporaneo finalmente arriviamo al Nest e torniamo ad essere ottimisti sul teatro di domani. Respiriamo perché c'è un signor testo, una grande scenografia, attori all'altezza, una regia limpida, un'aderenza all'oggi (chiamalo contemporaneo se vuoi) che è quello che cerchiamo dal teatro al di là delle belle statuine e di un passato che spesso non è proprio da riesumare. Non soltanto a risultare centrale è la traduzione (di Enrico Ianniello) ma anche l'adattamento e la trasposizione. “Bufale e liune” infatti sono due delle tre piece che compongono una trilogia di Pau Mirò che Giuseppe Miale Di Mauro, Adriano Pantaleo e Francesco Di Leva hanno, e con loro il Nest, portato nella realtà che meglio conoscono, Nest.jpgil quartiere, il rione, il sottobosco periferico napoletano. Non solo quindi le parole trasformate ma anche l'ambientazione, il luogo, l'atmosfera (anche se in questo Barcellona molto somiglia a Napoli). La storia è misteriosa e pinteriana, a tratti carveriana in questo spaccato di umanità in chiaroscuro dove ognuno è doppio così come la morale che può essere ribaltata a proprio tornaconto. Lo spazio claustrofobico che vediamo è una lavanderia con gli abiti a raggiera (si entra e se ne esce come tanti sipari), a semicerchio tanto che sembra un anfiteatro greco. Al centro un totem, un pilastro, quasi un fusto di un albero millenario piantato nel mezzo e tanti neon ad intermittenza come in una discoteca in disuso da archeologia post-industriale, da umanità sconfitta. In questa lavanderia vive (sopravvive?) chiusa (al riparo dal fuori?) una famiglia: la figlia in sedia a rotelle, la madre che la vuole sistemare, il padre carrozziere mentre aleggia il ricordo di un altro figlio, scomparso, sparito da piccolo non si sa se rapito o ucciso. L'armonia, se così si può chiamare, è rotta dall'arrivo di un ragazzo con la camicia insanguinata che vuole farla lavare anche se siamo fuori l'orario di lavoro. La madre vede in lui un futuro possibile per la figlia e non vuole farlo andare via (come in “Misery non deve morire”), il padre vuole aiutarlo, stringendo un accordo, perché pensano che abbia commesso un omicidio che il ragazzo comunque nega. Ma la verità non è mai certa. L'aria è quella di “Dogman” di rapporti incancreniti, di vite al limite, zone di frontiera, fisiche ed esistenziali. Le menzogne si accavallano e gli enigmi, l'oscurità e i segreti, aumentano e si alimentano. Sembra di stare dentro al “Calapranzi” e il cupo ammanta ogni azione e lentamente la notte scivola in un incubo kafkiano. Nella vita devi sapere se sei bufalo o se sei leone anche se, come dice il proverbio africano, comunque dovrai correre appena sorge il sole. Da ricordare Giuseppe Gaudino, il commissario, Alessandra Borgia, la madre (ci ha ricordato Beatrice Schiros di Carrozzeria Orfeo), Angela Fontana (vista nella miracolosa pellicola “Indivisibili”), la ragazza in carrozzina (canta divinamente). Menomale che il Nest c'è. A Napoli, purtroppo o per fortuna, si perdona sempre tutto.

Tommaso Chimenti 06/07/2021

RAVENNA – Tutto nasce dalla Famiglia, diventa, si sfa, si sbriciola, si ricompone, si organizza, si dipana, si scioglie, si argomenta, si secca. La Famiglia come fusto d'albero, i figli come foglie che splendono al sole o marciscono come frutti infetti non troppo lontano dalle radici avariate e corrotte. La famiglia è sempre un cortocircuito con il quale dover sempre fare i conti. E' all'interno di questa analisi, frutto di esigenze autobiografiche e sentimenti alla ricerca di spiegazioni che diano una linearità al passato, che sboccia questo “Adam Mazur e le intolleranze sentimentali” a cura del neonato Collettivo LaCorsa, scritto tutto attaccato come se avesse avuto talmente tanta fretta, appunto correndo e sprintando e sudando, da dimenticarsi di staccare articolo e sostantivo. Lacorsa perché costola di Punta Corsara, la compagnia di Scampia che così bene ha fatto in questi ultimi dieci anni. Di questa nuova formazione fanno parte Gianni Vastarella, qui autore e regista, Giusy Cervizzi, Valeria Pollice, tutti ex corsari, ai quali si sono aggiunti Pasquale Palma, volto noto della trasmissione “Made in Sud”, Vincenzo Salzano e Gabriele Guerra.Adam Mazur 3.jpeg Il secondo dei tre step in programma, dopo la menzione all'ultimo Premio Dante Cappelletti, nella fucina del Teatro Vulkano (dove abbiamo potuto assistere alle prove) è nato grazie alla collaborazione con il Teatro delle Albe, legame forgiato una quindicina d'anni fa con l'esperienza di Marco Martinelli e dei suoi tre “Arrevuoto”.

E' cupo questo “Adam Mazur” a tinte fosche, tra cadute e slanci, fallimenti e scoperte, sempre in bilico tra il grottesco colorato e un interiore dramma tutto da derubricare, sezionare e digerire. Uno strano albergo come fondale di una tragedia in un interno, abitabile e dell'anima, un hotel che ci ha ricordato l'Overlook di “Shining” come il “Million Dollar Hotel” di Wim Wenders, con quel quid che potrebbe essere uscito dal “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson. Dalla pece, delle stanze e interiore, spunta e sbuca, come fiore psichedelico, raggiante e raggelante, un rosso rosaceo sparato erotico pruriginoso in quel vedo e non-vedo che lascia spazio, che socchiude come occhiolino, che cela e tracima.

Uno scrittore torna a casa spinto a ricostruire i passi della sua autobiografia ma, attratto come mosca dagli escrementi, si imbatte in questa strana casa abitata- boudoir voluttuoso e carnale quanto miserevole da un manipolo variegato che sembra uscito dalla “Famiglia Addams” come dal “Rocky Horror Picture Show” dove il desiderio si mescola al senso di colpa, la lussuria al macerato sfilacciato, il godimento al trasandato impiastricciato, impuro e immondo. Come un elastico che attrae e allontana, avvicina e separa inesorabilmente nella continua frattura tra ciò che si è per dna e imprinting, che non ci toglieremo mai da sotto la scorza, e quello che, faticosamente, siamo voluti diventare. Adam Mazur 2.jpegLe atmosfere, che oscillano tra Lynch e Cronenberg, accolgono zuccherine e melliflue così come sono urticanti come un massaggio che friziona togliendo le impurità con unguenti putridi. Sembra di percepire la decadenza, il disfacimento, la caduta, la disfatta. Sono proprio le sabbie mobili del passato che, appena ha rimesso piede sul suolo dell'infanzia, lo riavvolgono e lo tirano verso lo sfacelo, verso il fondo. Quel posto chiamato “casa” lo affossa e fa emergere in lui gli istinti più biechi azzerando tutto il buono, l'arte, che aveva costruito in questi anni lontano da quel vortice di delirio e perdizione. A volte bisogna ricordarsi da dove si viene per non tornarci più.

Tutto è giocato sul filo del rasoio del vero e del fake, del plausibile e dell'impossibile: lo scrittore destabilizzato (Roberto Magnani), piagato dagli eventi, che sferraglia sulla sua macchina da scrivere (pare Snoopy piegato sulla cuccia) sembra creare il mondo che lo circonda di ruffiani smancerosi (Pasquale Palma) e peripatetiche consunte, lise e laide che appaiono materializzandosi con il suo premere sui tasti metallici, tutti gli avventori della casa chiusa si fanno chiamare con il nome del celebre romanziere (chi sarà quello vero), la sgualdrina anziana (Valeria Pollice “giapponese”) si rivelerà essere tutt'altro così come l'impellicciata (Gabriele Guerra en travestì) svelerà la sua natura scioccante e sconvolgente. In questo continuo gioco di specchi e di rimandi, dove niente è ciò che sembra e tutto pare prendere tangenti e sfumature, sfaccettature da Tunnel degli Orrori distorto di una realtà frastornata e frantumata, trasmigrata e traslucida, Adam Mazur 4.jpeglo scrittore, arrivato per trovarsi, per ricomporre i pezzi del suo puzzle esistenziale, si perde definitivamente, sciogliendosi a poco a poco dentro le dinamiche e i meccanismi illogici del postribolo. Odore di morte e voglia di cambiamento.

Ma questo sembra un buco dove tutto viene decongestionato e digerito, frullato e sfibrato fino a perderne i contorni originali. Sembra l'anticamera dell'Inferno dove personaggi smodati, sguaiati, deformi e squallidi, quasi animaleschi (gorgogliano come scimmie, belano come ovini) trascinano nell'incubo l'autore omonimo del titolo che si ritrova rapito da risate isteriche inquietanti all'interno di una patina sdolcinata e melensa. Così come il sonoro scelto per i vari quadri che, in maniera ossimorica, ad una melodia scanzonata e dolce abbina scene tremende e devastanti creando quel mash-up che fa tentennare, quello squilibrio che sposta. La scrittura di Vastarella, che si rifà ai “Fantasmi” di Eduardo come a quelli ibseniani, punge e scalfisce ma deve controllare e bilanciare lo stravagante, lo strambo e il ridicolo sul piatto Adam Mazur 5.jpegdella bilancia con la riflessione più intimista, non cedere e non concedere al riso, tentare, senza forzature, di non cadere nel facile mantenendo la crudezza come parametro, trasformando ogni possibile abbraccio in una stilettata, i baci in schiaffi, i perdoni in derisione insistendo maggiormente sulla parte acida e ustionante. Meno Fratelli Coen e spingere più su Bergman, scandagliare più il fango di Jon Fosse e meno le assurdità di “Fargo”. L'oggetto iconico è senz'altro il paravento fatto di ombre, che nasconde e abbellisce nelle sue forme nere anche i corpi meno apprezzabili. Come asprezza ricorda quel meraviglioso “Sterminio” delle Albe da Werner Schwab con queste terrificanti e spaventose figure che popolano questo sottobosco fatto di aghi, spigoli, punture e bruciature. Se Edipo ed Elettra dormono nello stesso letto il trauma (e non traum che in tedesco significa sogno) è la logica conseguenza.

Tommaso Chimenti 18/02/2021

Dopo il recente premio come "Critico teatrale dell'anno" nell'ambito dei Premiesseci, conferiti da Scenacritica.it per omaggiare coloro che si sono distinti nel 2020 con le proprie perfomance e il proprio sguardo nell'ambito del teatro, Tommaso Chimenti, giornalista e critico teatrale, firma di riferimento della nostra testata, vince il Premio Giornalistico "Campania Terra Felix" nella sezione "Stampa specializzata web"

Chimenti ha saputo distinguersi ancora una volta, confermando così la profondità della propria visione e l'estrema aderenza alla contemporaneità, grazie al suo articolo sull'ultima edizione del Napoli Teatro Festival, una edizione che, nonostante i forti disagi e il contingentamento dovuto al diffondersi del Corona virus, ha mantenuto uno standard elevato e un'alta qualità degli spettacoli: https://www.recensito.net/teatro/napoli-teatro-festival-nella-solitudine-in-minore,-settimo-senso-up.html,-settimo-senso-up.htmltomm1.jpg

Il "Campania Terra Felix" è un prestigioso riconoscimento agli operatori della comunicazione - che neppure in tempo di pandemia si sono fermati - organizzato dall’associazione della Stampa campana “Giornalisti Flegrei” con l’intento di premiare i giornalisti che promuovono i Campi Flegrei e gli studenti, attraverso una sezione a loro dedicata; il premio, giunto alla quarta edizione, con le categorie speciali, vuole valorizzare anche le personalità che a vario titolo si sono distinte sul territorio. Il giornalista fiorentino verrà premiato nella mattinata di venerdì 18 dicembre, presso la Multicenter School di Pozzuoli, nel corso di una cerimonia di premiazione nel pieno rispetto delle normative anticovid. 

Le attività di promozione della cultura giornalistica e di sensibilizzazione e informazione del pubblico in collaborazione con gli organi istituzionali portate avanti dall’associazione, sono valse l’alto patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri; dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti; della Regione Campania; del Rotary Club Afragola Frattamaggiore Porte di Napoli; del Lions Club Napoli Floridiana Felix; nonché il patrocinio dei Comuni di Napoli, e della sua IX Municipalità, Città di Bacoli, Giugliano in Campania, Monte di Procida, Pozzuoli, Qualiano, Quarto Flegreo e Villaricca.

A ricevere il riconoscimento quest’anno saranno, per la Carta Stampata, Patrizia Capuano, Angelo Covino, Giuseppe Delle Cave, Marco Molino, Anna Russolillo e Dario Sautto; per la Televisione, Maria Rosaria Bacchetta, Mattia Iovane, e Vincenzo Scillia; per la Radio, Roberta Luppino; per la categoria Periodici, Antonio Cangiano, Immacolata Castronuovo, Oscar De Simone, Domenico Rubio; per il Web, Antonio Imparato, Teresa Lucianelli, Gaetano Scotto di Rinaldi, e Tommaso Chimenti, sezione Stampa Specializzata; “Il rossetto di Denise” è valso il premio sezione Libro a Luigi Panico; infine, premiato per la Fotografia, Luigi Borrone, il suo scatto, elaborato in una stampa ad hoc, è l’omaggio per i vincitori di questa edizione. I premi alla carriera giornalistica, destinati a colleghi che per anni si sono distinti nella professione, andranno ad Alberto Acquaviva, per la Stampa Subalpina; Ciro Avallone per la comunicazione dell’INPS sul territorio flegreo; Rosario Bianco per l’impegno profuso con la Rogiosi Editore; Francesca Coppola, prestigiosa figura del TGR Campania; Pasquale Esposito, storica firma de Il Mattino; Antonio Pascotto giornalista del Tg4 Mediaset, in uscita con “Il mondo senza Internet”; e Giuseppe Petrucciani per l’Unione della Stampa Sportiva Italiana.

Oltre alle scuole saranno assegnati anche i premi speciali, conferiti per i seguenti settori: sanità, religione, forze dell'ordine, giustizia e legalità, ambiente, enogastronomia, musica, eccellenza nel Made in Italy, politica.

La redazione

NAPOLI – Il mare ti dà sempre una possibilità, un'opportunità di apertura, di cambiamento. Napoli ha una finestra sul mare e sullo sfondo c'è disegnato un vulcano. La cartolina perfetta, quella che disegnerebbe un bambino delle elementari. Napoli però non è una cartolina, che sarebbe noioso, è molto di più, è tutte quelle ombre che fanno sì che la luce sia abbagliante, deflagrante, punga gli occhi e riempia lo sterno. Napoli è totalizzante, è empatica, è sotterranea, o meglio sottocutanea, se ti entra sotto pelle non se ne va più, non ti abbandona più. Il Mal di Napoli al posto del Mal d'Africa. Quella euforia dell'arrivo, quella Saudade alla partenza. Gli scogli scintillano, il sudore è di quello buono perché finalmente possiamo respirare purificandoci dai 106597660_10213335565462015_7298196058042351379_o.jpglunghi mesi infami che ci siamo lasciati alle spalle. Il lungomare fino a Mergellina è una fortuna che se ci sei nato non consideri mai fino in fondo, la dai per scontata, ma è bellezza allo stato puro, tocca l'estasi, sfiora lo stadio del Nirvana. Decine di barchette, attaccate l'una all'altra, attraccate e agganciate, formano una sorta di isolotto di canotti e materassini e piccoli natanti. Qua i chioschetti di bibite e gelati, di birre e panini con le sedie bianche di plastica all'esterno, li chiamano “Chalet” e già ti immagini le piste da sci e la neve: cortocircuito. Ecco Napoli è un cortocircuito e non una contraddizione come da molte parti viene descritta. Cortocircuito perché ti inchioda, ti mette con le spalle al muro e ti fa pensare. La vita pullula, tutto è tanto, e santo, sovrabbondante, eccessivo.

Napoli che, dice l'uomo della strada, è un teatro a cielo aperto e infatti in questo stesso periodo, oltre al Napoli Teatro Festival, in concomitanza affiorano anche l'“AltoFest” dei TeatriInGestAzione e l'interessante rassegna “Racconti per ricominciare”, curata da Giulio Baffi e Claudio Di Palma, con percorsi di teatro dal vivo sparsi negli spazi verdi lontano dal capoluogo campano: Benevento, Casamarciano, Castellammare, Ercolano, Portici, Sorrento, Torre del Greco. Come numerosi e carichi, soprattutto numericamente, sono gli eventi di questa edizione del “Napoli Teatro Festival”, a luglio tutta italiana mentre a settembre con la sua coda internazionale: oltre 130 appuntamenti con la maggior parte delle piece con una data secca o al massimo due. Tanta quantità non sempre fa di qualità. Abbiamo lasciato Napoli e i suoi luoghi magici dove il festival è spalmato (soprattutto Palazzo Reale e la Reggia di Capodimonte) con i nostri appunti e il bilancio è stato un'attesa confermata e un'altra disillusa a fare da giusto contraltare.

Molte ANDREA-DE-ROSA.jpgaspettative erano riversate, sulla carta, da “Nella solitudine dei campi di cotone” di Koltes, testo che sprizza materia e letteratura, sentimenti e crudezza nell'ascolto, per la regia di Andrea De Rosa. Nel testo si fa riferimento a due uomini che si incontrano ad un orario imprecisato della notte in un luogo-non luogo tra il periferico e il metaforico. E le messe in scena che in questi trentacinque anni (è del 1986) presentavano sempre due attori uomini sul palco (abbiamo ricordato più volte sulle nostre pagine del memorabile cult con Fulvio Cauteruccio e Michele Di Mauro) a dividersi i bocconi sanguinosi delle parole del drammaturgo francese. La novità stavolta era che i due protagonisti, le due facce della stessa medaglia, erano una attrice, Federica Rosellini, e un attore, Lino Musella. Sulla bravura e sul valore dei due, visti i curriculum e avendoli apprezzati più volte dalla platea, non aggiungiamo niente dandoli, giustamente, per scontati. Qui, però, purtroppo, entrambi fuori parte non aiutati da una regia che li ha lasciati, abbandonati e naufraghi e travolti dall'ammasso potente e pesante del testo.

Perché mettere un'attrice nel ruolo di un uomo senza modificare leggermente il testo che in più parti continua a suonare: “Due uomini”? Perché il costume dell'attrice è un vestito ampio con gonna gonfia “ottocentesca”? Se la regia ci è sembrata poco curata e al limite dello sciatto (sicuramente anche per colpa della pandemia che certamente non ha aiutato le prove), è proprio questa scelta iniziale, peraltro curiosa, che a catena e a valanga, si è portata dietro altri punti dolenti. In primo luogo l'ascolto del testo che trasuda carne e sangue e che qui è divenuto esercizio edulcorato, testo che è tensione continua, coitus interruptus tra ciò che vorrei e quello che non posso o non mi permetto o concedo di fare, testo che è guerra e guerriglia di denti e unghie, che è aggressione e morsi, che è viscere, cNella solitudine.pnghe è marcio e sporco, lurido, fangoso e che invece è risultato spompato e arido, senza vena, senza verve, svuotato, prosciugato. Il senso, e l'immaginario, cambia radicalmente se nel bosco ci sono due uomini, un Compratore e un Venditore, oppure se vediamo una donna e un uomo. Un testo che è violenza, che è strappi e predominanza, che è foga, possesso e ansia, che è asma e fame, voglia e distruzione, desiderio lancinante e tortura interiore, smembramento senza pace alcuna, paure indicibili, timori inconfessabili. Diventa invece un bell'esercizio, una “operazione” troppo candida, si perde l'arroganza e tutto il gioco, sublime e devastante, della soddisfazione e dell'insoddisfazione che si cercano, si rincorrono e tentano di afferrarsi, si sfa, si liquefà, diventa acqua di montagna e non fiele velenoso, è balsamo e non bile. Anche la provocazione fa un passo indietro così come l'eccitazione proprio perché manca l'acido, il contraddittorio, la frattura, il fremito, il bruciore, il fuoco dell'illecito e del proibito che si scontrano con il pungolo e lo stimolo della morale consentita e condivisa. Non si percepisce la febbre né l'istigazione, l'ansimo di perdersi in un territorio sconosciuto, la vergogna. Il testo più che passione è pelle e polpastrelli ed è riduttivo parlarne a riguardo soltanto in termini di seduzione o sensualità. Ma qui risulta formale, preciso, oseremo dire borghese senza che emerga la disperazione e la putrefazione delle quali è intrisa ogni virgola. E', dovrebbe essere, avrebbe dovuto essere, uno sprofondare continuo in sabbie mobili sporche, un annegare in un limbo dove le regole non hanno più un reale senso. Un testo che disarma, violenta, azzera e scarnifica. Le tenebre e l'oscurità che emergono dalle parole concatenate di Koltes s'impigliano in una parentesi nella quale non si percepisce la ferita né la sofferenza. Manca la polpa e la crudeltà, l'impotenza della colpevolezza, i pugni alternati alle carezze ma soprattutto non abbiamo riscontrato quell'invisibile filo sottile che cuce piacere e dolore, sadismo e masochismo, l'usare e l'abusare.

E' il piacere, l'edonismo fuso con il voyeurismo, il fil rouge che ci porta all'icona Moana Pozzi, pornostar che ha travalicato il suo settore diventando oggetto di studio, fenomeno d'analisi socio-politico e non meramente corpo da giornaletti appiccicati e pellicole d'ansimi. Ci siamo fidati della regista Nadia Baldi che abbiamo conosciuto artisticamente con “Ferdinando” e che non ci ha certo delusi. Il testo, del direttore del festival Ruggero Cappuccio, si muove sul doppio binario della realtà, ma anche terrenità e ancora materialità, e quello onirico, filosofico, trasognante. Siamo in uno spazio a metà strada tra uno studio televisivo, un talk show (Moana era spesso ospite di Maurizio Costanzo e non certo per parlare di kamasutra), e il Paradiso, una confessione o un'intervista. E gli intervistatori siamo noi pubblico aspSettimo 2.pngiranti guardoni dal buco della serratura delle vite degli altri per compensare le mancanze frustranti nelle nostre. “Settimo Senso”, oltre il sesto senso e puntando al settimo cielo, ci mostra una Moana in rosso (come la Signora del celebre film) e ci ha fatto apprezzare la sofisticata e partecipe Euridice Axen (tante fiction e serie tv nel suo curriculum, da “Centovetrine” a “Vivere”, da “Carabinieri” a “Coliandro” fino a “The Young Pope”) vera forza catalizzatrice, ago della bilancia che attira a sé tutta la potenza delle parole della drammaturgia per trasformarle e, imbevendole di charme e cinismo e crudeltà o soltanto semplici verità mai patinate, rilanciarle con ancora più fragore. Axen-Moana è imprendibile, fagocita come buco nero tutto l'intorno, ti costringe a non staccarle gli occhi di dosso: “Se ero più morta da viva o più viva da morta?”.

Ogni frase è una stilettata e la risata successiva, suadente ed erotica, sarcastica ed autoironica, senza farci sconti, non fa altro che aumentare l'imbarazzo del pudore del senso comune, quella morale che da una parte la condannava e nel chiuso delle case la osannava inneggiandola. Non si può scindere la figura di Moana da quella di Marylin e qui le due star a tratti si assomigliano, si sovrappongono, Settimo senso.jpgentrambe incomprese, a volte volontariamente: “Recitare la parte della cretina paga bene”, ci dice. Oscilla tra bambolina di carillon e consapevole presa di coscienza che mette a nudo i nostri desideri e pulsioni: “Che cos'è osceno?”, ci chiede, “Che cos'è realmente pornografico?”. Stella tra le stelle e i luccichini che si animano e si agitano sul fondale dove a volte sembra abbandonata, sola in questo auto-necrologio, una bambina nel suo eremo a protezione, come a dirci: “Se in me vedete solamente il corpo è un vostro problema di miopia”. C'è quella desolazione che ci lascia senza punti di riferimento. Ma Moana non chiede né perdono né scusa, non ne ha bisogno, la sua è più una lotta contro il perbenismo, crociata contro l'ipocrisia dilagante e la Axen è equilibrata nel non farne un'agiografia ma neanche un'imitazione o una parodia, la sua versione è personalissima e carica e riuscita. Ne esce fuori una seduta spiritica dove Moana a tratti si trasforma in una Sarah Kane, prima di richiudersi a bozzolo dopo essere stata farfalla per tutta la vita: “Noi siamo solo ciò che ci manca”, ci congeda, quasi con una carezza.

Anche con i vari distanziamenti il Teatro non perde la sua magia che rimane intatta, inalterata appena si spengono le luci della platea. Se uno scoglio non può fermare il mare non vedo perché un virus possa fermare il Teatro.

Tommaso Chimenti 09/07/2020

In superficie tutto sembra tranquillo, gli italiani chiusi in casa dal 9 marzo per contenere la diffusione del coronavirus non mostrano particolari segni di insofferenza alla quarantena chiesta dal governo tra conferenze stampa e decreti presidenziali, mentre si discute se riaprire o meno cosa quando e come. Solo l’eco mediatica delle inchieste sulle morti di diversi anziani in alcune case di riposo del Nord Italia scuote una generale calma che è frutto di rassegnazione o di buona volontà in attesa di un domani nuovamente normale. Ma solo il pelo dell’epidermide, tra i nervi, i tessuti muscolari, nel cuore e nella mente, si agitano stati d’animo e sensazioni di un animale ingabbiato o di chi prova una gran pena per un futuro – incombente – stravolto e leggermente distopico. Sui giornali, alla radio e o al notiziario quotidianamente c’è sempre qualche esperto che scrive o ripete che niente sarà più come prima e dovremo adattarci a stare al mondo con la mascherina, distanziati, pronti a rinchiuderci nei rifugi a causa delle prossime pandemie, mentre il mondo del lavoro andrà sempre di più verso l’isolamento e la contrazione. L’angosciante sospensione e le profezie spaventano, ma non sembrano insegnare a non i ripetere i vecchi errori. L’attore teatrale, regista e drammaturgo napoletano Mimmo Borrelli con il suo componimento poetico inedito “Covido” estrae da sottopelle, con spietata severità e fermo impegno civile, quello che vi scorre. Apprensione, rabbia, sfiducia, insofferenza, paura ed egoismo. Lo fa nella clip caricata giovedì 16 aprile sul sito e sul canale Youtube del Teatro Stabile di Napoli, nell’ambito dell’iniziativa “Diario della quarantena”. Una serie di contributi video settimanali di attori e registi che va a unirsi a quelli di “Reclusi”, realizzati dagli allievi della Scuola di Teatro partenopea, e alla selezione di spettacoli delle precedenti stagioni – tra cui “Le sorelle Macaluso” diretto da Emma Dante e “Mal’Essere” di Davide Iodice – in “Memorie d’archivio”. Un’idea per addolcire la clausura agli appassionati e mantenere vivo il senso di comunità grazie alla comunione culturale. Tra chi ha già aderito ci sono Roberto Andò, Carlo Cerciello, Cristina Donadio, Imma Villa e Marino Niola.Mimmo Borrelli

Sostenuto dal tappeto sonoro creato dal polistrumentista e compositore Antonio Della Ragione, in virtù di un legame artistico nato oltre un decennio fa, Borrelli recita in uno stretto e viscerale pastiche di dialetti della sua regione, sottotitolato per garantire la comprensione delle parole. La malattia infettiva muta in un mare d’ossigeno che è “farabutto” perché non si agita con onde e cavalloni ma uccide rapido, a differenza del mare d’acqua dove resta una residua speranza di salvarsi a nuoto. Curate e montate sempre da Dalla Ragione, scorrono immagini in negativo (l’inversione di colori chiari e scuri in un contrasto fluorescente quasi accecante). Ambulanze, operatori sanitari in tute di protezione lunari, mezzi militari che trasportano le bare, bocche e nasi in debito d’ossigeno, file di persone passate ai raggi infrarossi, caschi Cpap per la respirazione, il pianeta Terra che galleggia nell’universo passano e si ripetono mentre il suono delle parole di Borrelli si fa non più lettura né recitazione ma canto ritmato che resta parola senza mutare in onomatopea. Quasi fosse un rapper in una competizione freestyle, l’attore sprona le sue rime di rivelazione a briglia sciolta, insufflandole di collera e disgusto, salvo poi placarle e dilatarle come un battito cardiaco morente.

Diversi registri s’inseguono e si sostituiscono l’un l’altro nello stesso verso. La narrazione e la descrizione per metafore del contagio – il mare, la guerra – sono ieratiche e venate di sofferenza. Il ritmo sale, una singola voce dà corpo a tante altre, assumendo l’arroganza di chi pensa “me ne frego” o il minaccioso avvertimento all’umana specie di rispettare la Terra sua madre. Borrelli ci attacca frontalmente, ci svela cosa temiamo e pensiamo al di sotto della maschera da animali sociali, con parole che bruciano caustiche e irate. Il sibilato sospetto verso l’altro, potenziale untore. Il volgare disinteresse, carico di sollievo, per gli ultimi della terra abbandonati alla morte. Lo sputo ingrassato di disgusto per la scoperta che la lotta per la sopravvivenza è diventata lotta di classe generazionale. Non meno corrosiva e bagnata di disprezzo è l’accusa lanciata al cinico ed entusiasta appetito degli operatori dell’informazione a caccia della notizia tragica che si e nascondono dietro il diritto di cronaca. L’esatto opposto di quei soldati che, come tanti giovani Caronte - infero psicagogo sulle sponde dello Stige - in divisa, portano via i cadaveri dei morti in solitudine. Morti, caduti in questa guerra, separati da ogni affetto e calore, isolati e intubati, che respiravano soli “ogni parola omessa, con ogni idea dimessa”. Borrelli ci maledice per il nostro egoismo, la nostra miopia e la nostra paranoia. Impulsi e comportamenti che ci hanno portato ad accumulare e consumare, a inquinare senza freni e a delegittimare la competenza e il sapere salutando come un nuovo culto il qualunquismo. A intervalli, (simulate) crisi respiratorie segnano pausa cariche d’angoscia e presentimento. “L’uomo s’è fatto vecchio, decrepito e demente […]: ‘nu rimani senza corona, né trono discendente”.
Non c’è ermetismo in questo testo, quello che pensiamo di non capire è ciò che in realtà conosciamo – perché lo viviamo – ma a cui non sappiamo dare nome. Erede di Albert Camus e di José Saramago nel racconto di una microbica sciagura, Borrelli, come uno Zaratustra nicciano furente, ci inchioda alle nostre azioni che sono virtuose solo di facciata, alle nostre contraddizioni fatali. Uno scuotimento appassionato che ci desta da un torpore nervoso.

Lorenzo Cipolla

NAPOLI - La lingua di Annibale Ruccello è materica, attuale, viva. È un napoletano essenziale che affonda un piede nella tradizione di Scarpetta e di Eduardo per poi superarla, spiccare il volo in avanti verso una contemporaneità vivida e pulsante e farsi presente, il nostro presente, quartiere, basso e popolo. È una lingua che gratta, aspra e ruvida, ma che, al tempo stesso, accarezza e addomestica, ci alliscia e ci prepara all’inevitabile turbamento e alla riflessione. È una lingua che va a creare immagini sulla scena, così come ci ha dato dimostrazione la regista Nadia Baldi che ha raccolto l’opera più celebre di Ruccello, “Ferdinando”, rispettandone questo fermento, linguistico e fisico, e rendendone una personale visione onirica, mferdinando1.jpgetaforica e dal grande ritmo (prod. Teatro Segreto; è stato in scena al Ridotto del Teatro Bellini fino al 5 gennaio).
Quattro attori, quattro personaggi, quattro quadri, quattro precisi momenti temporali scandiscono la messa in scena che si svolge tutta nell’arco del 1870, dentro le mura di una villa in cui vivono la baronessa Donna Clotilde e sua cugina Donna Gesualda. Due donne chiuse tra le mura di una casa e tra le mura della propria condizione esistenziale: la prima è ipocondriaca, bloccata in una infermità più d’animo che fisica, riluttante la modernità che avanza dopo la deposizione dei Borboni, la nuova situazione politica, il re sabaudo e la lingua italiana; la seconda è zitella, costretta a accudire e sorvegliare la nobile allettata per sentirsi riconosciuto un minimo spazio nel mondo, dipendente da una relazione torbida con l’unico uomo che frequenta la casa, il parroco Don Catellino. A destabilizzare gli statici equilibri interiori ed esterni dei tre sarà l’improvviso arrivo di Ferdinando, presunto lontano nipote della baronessa, rimasto orfano e solo.

L’opera di Ruccello è un inno all’ambivalenza, al senso di smarrimento proprio di un’epoca di passaggio com’era quella in cui viene ambientata la storia, dove il Regno delleferdinando3.jpg Due Sicilie lascia il posto al regno di un’Italia ancora sconosciuta, che spaventa e a una classe sociale ancora silente ma in crescita, la borghesia (una borghesia arrampicatrice che Ferdinando impersona perfettamente). C’è un fermento che ribolle ed è pronto ad esplodere e a sotterrare le ceneri di una società passata, arroccata sulla nobiltà e su un dialetto chiuso, arcaico, quasi gutturale e caricaturale.
Nadia Baldi dipinge un affresco dal ritmo incalzante e crescente che, se nel primo atto, gode di un clima comico, quasi grottesco, e di un tempo circolare come la nenia silenziosa delle preghiere di Gesualda, nel secondo atto muta in maniera netta verso il drammatico destino dei quattro, l’atmosfera si fa aspra, dolorosa e, nonostante l’apparente apertura e il cambiamento emotivo dei personaggi, diventa ancora più claustrofobica. Le figure si trasformano, nei pensieri, nei sentimenti ma anche nelle stesse sembianze, grazie a un meticoloso lavoro degli attori sui corpi (possiamo parlare di drammaturgia dei corpi) e sulle anime dei protagonisti. Quest’ultimi ricalcano la natura del momento ferdinando4.jpgstorico e la enfatizzano con un gioco di contrasti evidente sia nella dinamica delle coppie che all’interno dei singoli. Cambiano i ritmi che regolano i ruoli e i pesi di potere tra di essi, e contemporaneamente il peso interiore che ognuno di loro è costretto a portare. È una vera e propria metamorfosi innescata dall’arrivo di Ferdinando e impossibile da controllare che porterà al ribaltamento di tutti gli equilibri incancreniti.

La baronessa da vittima del suo stesso immobilismo, quasi Gattopardesca, bianca e pallida, come la grande veste che la ancora al letto, diventerà una “zia” seducente e passionale, incantata dall’energia di una vita nuova, mentre Donna Gesualda, la bizzocca repressa, vestita di nero, dimessa, apparentemente virginale e vittima diventerà la carnefice dei suoi stessi approfittatori (Gea Martire e Chiara Baffi, esplosive e catartiche, danno vita a un botta e risposta sulfureo e frizzante); Don Catello (un Fulvio Cauteruccio intenso e di polso, fa valere tutta la sua esperienza sul palscoscenico) dapprima servizievole e attento curato, si dimostrerà vizioso, ipocrita e libertino, vittima alla fine dei suoi stessi peccati capitali. A generare questi mutamenti sarà proprio il protagonista Ferdinando (fresco e dinamico Francesco Roccasecca), personaggio ambiguo, angelico e diabolico allo stesso tempo, portatore di energia e di nuova linfa vitale ma, contempornaemtne, di morte e dolore.
A rendere perfetto ferdinando5.jpge di immediata comprensione questo meccanismo fatto di contrasti e di elementi complementari risultano essenziali anche la complessa scenografia di Luigi Ferrigno, in cui tutto si muove e tutto si trasforma e niente è ciò che sembra, come il letto sulla scena che diventa letto-alcova, letto-casa, letto-tabù, letto-prigione e letto-patologia e la invade totalizzandola o le numerose sedie che come pezzi di lego vanno a creare nuovi scarti semantici, divenendo trono, giaciglio, patibolo; e i costumi di Carlo Poggioli, abile a riportare il ritmo di luci ed ombre, di bagliori e tenebre, con il bianco e il nero delle vesti a dividersi scena e personaggi. Gli opposti si attraggono, è vero, ma spesso, come in questo caso, si distruggono.
“Ferdinando” è un testo dalla forma classica ma che prende le distanze dal teatro tradizionale grazie alla struttura moderna dei suoi personaggi nei quali riusciamo comunque a trovare delle somiglianze con le nostre esistenze composte da “opposti sentimentali”. La versione della Baldi ne mantiene intatto il cuore drammaturgico e ce la rende come un’opera sull’essere ciclico dell’umanità, comica e tragica al tempo stesso, malinconica e brillante, costellata da una moltitudine di solitudini affette tutte dalla medesima malattia: la vita.

Giulia Focardi  19/01/2020

È il trionfo della romanità quello che viene rappresentato sul palcoscenico del teatro Bellini, quadretti di vita della Roma degli anni Cinquanta tra Pasolini e la commedia all’italiana. “Ragazzi di vita”, primo romanzo pasoliniano pubblicato nel 1955, viene adattato per la scena da Emanuele Trevi con la regia di Massimo Popolizio. Quella vita violenta, disperata, a tratti allegra, che caratterizza le borgate romane del Dopoguerra viene raccontata da Lino Guanciale, che in qualità di narratore unisce i vari racconti, e dai personaggi stessi che parlano di sé in terza persona e consentono così l’avanzamento della storia. Il Riccetto, Agnolo, il Begalone, Alvaro, Amerigo, sono i ragazzi di borgata che raccontano le proprie storie: tanta vita, troppa, quella che si esprime furiosa e senza sosta tra le strade del centro e poi giù fino alle periferie, in quei quartieri oggi inglobati nella città, e tra le campagne, il Tevere e i suoi affluenti. «Per noi la marana era come il Mississippi» avrebbe avuto modo di scrivere Pasolini a proposito di quell’affluente del Tevere, fiume che dà vita e morte, come nel caso di Genesio affogato nelle sue acque nell’ultimo episodio in scena. 

La drammaticità degli episodi narrati risulta sempre alleggerita dagli intervalli musicali: le musiche di Claudio Villa, intonate in coro dai giovani, rievocano l’allegria mista a disperazione del Dopoguerra, che tanto cinema neorealista andava raccontando in quegli anni – non stupisce, in questo senso, la proiezione cinematografica sul palcoscenico – e che si traduce nella vitalità mai spensierata di chi è costretto a procurarsi quotidianamente da vivere. I diciannove ragazzi pasoliniani si esprimono in un romanesco carnale e lirico, in quella invenzione verbale di gusto espressionista che Pasolini stesso definiva «una lingua inventata», che è la lingua delle borgate così come percepita dal narratore. Lino Guanciale, infatti, non si fonde con i ragazzi di cui racconta le storie, i suoi abiti sono borghesi, è osservatore e talvolta mediatore tra chi è in scena e chi ascolta. Proprio come Pasolini, che si era immerso totalmente in quelle borgate che non gli appartenevano, da spettatore, mantenendo quel distacco che gli ha permesso di raccontarle come pochi altri. A Roma Pasolini era giunto nel 1950, dopo l’allontanamento forzato dal Friuli della sua infanzia, insieme a sua madre. Emanuele Trevi ne ha saputo cogliere lo spirito e commenta: «questo straniero che li spia, che vede tutto, parla di Roma come se la sorvolasse. Ma non si accontenta di rimanere lassù, è attratto dal basso, dove brulicano le storie».

Di quella «periferia tagliata in lotti tutti uguali, assorbiti dal sole troppo caldo, tra cave abbandonate, rotti argini, tuguri, fabbrichette» – come avrebbe più tardi scritto Pasolini – Trevi sceglie alcuni episodi emblematici, che riconsegnino al pubblico la ferocia mista a tenerezza dei suoi protagonisti. Tra le buone prestazioni dell’intero cast spicca quella di Lorenzo Grilli, Er Riccetto, trait d’union tra i vari episodi, ben diretti da Massimo Popolizio. Lo spettacolo, già vincitore del Premio Ubu nel 2017, tra gli altri, convince nella sua coralità che fa rivivere una Roma che non esiste più, ma che continua ad affascinare, turbare e divertire quando rievocata.

Pasquale Pota 01-04-2019

Torna al Teatro Bellini di Napoli la rilettura di Tito Andronico e Giulio Cesare di Shakespeare operata da Michele Santeramo con regia di Gabriele Russo, nel primo caso, e da Fabrizio Sinisi con regia di Andrea De Rosa nel secondo. Due tragedie, o meglio un tentativo di tragedia e un’opera compiuta del Bardo, riportate in scena con l’intento di dimostrare la sua genialità e attualità quando si parla di potere, anche a distanza di cinque secoli. Il Tito Andronico è il primo tentativo di tragedia di Shakespeare, di gran lunga superato dalle opere successive. Il forte influsso senecano che caratterizza l’opera fa sì che l’orrore sovrasti irrimediabilmente il terrore in una catena di delitti raccapriccianti ed eccessivi, vera e propria rappresentazione splatter ante litteram, particolarmente apprezzata dagli spettatori del tempo. Non basta l’assassinio da parte di Tito del figlio minore della regina dei Goti Tamora: la donna, infatti, attua la sua vendetta tramite i suoi due figli, che uccidono il primogenito del generale e abusano di sua figlia Lavinia, lasciandola morente senza lingua e con le mani amputate. Con quegli stessi moncherini sanguinanti, poi, Lavinia traccerà nella sabbia i nomi dei suoi aggressori, che saranno a loro volta uccisi. Una catena di delitti infernale, che la riscrittura di Santeramo non manca di sottolineare con una certa ironia. La brama di potere, simboleggiata da una corona sospesa al centro del palco, è il motore trainante dell’opera, che si sofferma piuttosto sulle conseguenza del suo raggiungimento spesso brutale. Tito Giulio Cesare 1


Ed è proprio questo il tema di fondo che unisce la prima riscrittura shakespeariana a quella di Sinisi e De Rosa: il raggiungimento del potere, tema di fondo di tutte le histories del Bardo, è eviscerato attraverso le riflessioni di Bruto, Cassio e Casca, tre cospiratori dell’assassinio di Cesare. Il corpo del tiranno è posto al centro del palcoscenico, in attesa di essere sepolto da Antonio, che intanto si domanda cosa possa venire dopo Cesare. L’impianto scenico, ideato da Francesco Esposito, accomuna le due rappresentazioni con piccole modifiche. Le prime file della platea del Teatro Bellini risultano smantellate per far spazio ad un lungo palcoscenico che sembra voler inglobare il pubblico secondo quell’idea partecipativa del teatro elisabettiano, in cui gli spettatori più ricchi potevano occupare persino il palcoscenico. Un sistema di botole consente agli attori di sfruttare lo spazio sottostante il palco, mentre le quinte risultano quasi inutilizzate nel Tito Andronico, i cui attori occupano i lati dello spazio scenico in una sorta di coro che assiste e commenta ciò che vede. Assai discutibile appare invece la soluzione di Sinisi e De Rosa di mettere in musica la battaglia di Filippi nel finale del Giulio Cesare, una guerra che si immagina combattuta a colpi di bombe e gas letali per i nemici. Tito Giulio Cesare 2


Tito/Giulio Cesare nasce nell’ambito del progetto “Glob(e)al Shakespeare” presentato al Teatro Bellini nel giugno 2017 durante la decima edizione del Napoli Teatro Festival. In scena nel primo atto Roberto Caccioppoli, Antimo Casertano, Fabrizio Ferracane, Martina Galletta; nel secondo, invece, Nicola Ciaffoni, Daniele Russo, Rosario Tedesco, Isacco Venturini.

Pasquale Pota 26/03/2019

È stata presentata giovedì 14 marzo presso il Teatrino di corte del Palazzo Reale di Napoli la dodicesima edizione del Napoli Teatro Festival Italia, la terza diretta da Roberto Cappuccio, organizzata dalla Fondazione Campania dei Festival e realizzata con il sostegno della Regione Campania. La rassegna prevede, a partire dall’8 giugno e fino a 14 luglio, oltre 150 eventi distribuiti in 40 luoghi tra Napoli e altre città della Campania, 29 eventi internazionali di cui 19 prime in Italia e 44 prime di spettacoli italiani. Le sezioni del Festival, poi, diventano 12: alle 11 già consolidate si aggiunge quest’anno il Teatro ragazzi, vetrina di spettacoli e momenti di approfondimento rivolta alla migliore produzione per ragazzi. Il direttore Ruggero Cappuccio conferma grande interesse verso tutte le arti e le scritture di scena con grande attenzione al panorama contemporaneo. Molte le sedi della regione valorizzate da eventi, tra queste il Real sito di Carditello in provincia di Caserta, che ha versato per anni in stato di abbandono, il teatro naturale di Pietrelcina, in provincia di Benevento, la Reggia di Caserta, il Duomo di Amalfi e il Teatro Grande di Pompei, attivo a partire dal 20 giugno con la rassegna Pompeii Theatrum Mundi, organizzata dal Teatro Stabile di Napoli diretto da Luca De Fusco. NTFI 1

Centrale resta poi, per il terzo anno consecutivo, il Palazzo Reale di Napoli, sede principale del Festival che, oltre a biglietteria ed info-point, ospiterà concerti, proiezioni, spettacoli e mostre. Il suo Giardino Romantico ospiterà il Dopofestival nonché la proiezione delle pellicole previste per la sezione Cinema. La rete creata con Festival internazionali – tra cui il Festival di Spoleto, il Festival di Ravenna, il Shubbak Festival of London e il Weimar Art Festival – e con Istituti di cultura come l’Institut français di Napoli e il Goethe Institut, consentirà alla rassegna del Napoli Teatro Festival di indagare i temi della multiculturalità e della pluridentità. Connesse anche le varie università del territorio, l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa”, l’ Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e l’ Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, al fine di sostenere un dialogo basato su un nuovo concetto di Europa e sulla molteplicità delle visioni artistiche. Tra i progetti in anteprima al Festival, il Progetto Pina Bausch presente il prossimo autunno al Museo Madre di Napoli, presentato a giugno con Moving with Pina, una conferenza danzata sulla poetica e sulla creatività della danzatrice e coreografa tedesca. NTFI 2

Numerosi i teatri della città che saranno coinvolti nella manifestazione: Teatro San Ferdinando, Teatro Trianon-Viviani, Teatro Sannazaro, Galleria Toledo, Teatro Bellini, Teatro Mercadante, Nest ed altri. Il debutto previsto presso il Teatro Mercadante già il 4 giugno con “Orgoglio e Pregiudizio” di Jane Austen adattato da Antonio Piccolo e con la regia di Arturo Cirillo per la Sezione Italiani. Previsti per la stessa sezione, tra i numerosi altri, “Il silenzio grande” di Maurizio De Giovanni con regia di Alessandro Gassman, “Erodiade” di Giovanni Testori presso il Teatro Elicantropo, e “4.48 Psychosis” di Sarah Kane con Mariateresa Pascale. Presso il Duomo di Salerno, invece, “Storie dal Decamerone” con Anna Foglietta. La Sezione Internazionali prevede, tra gli altri, “Eins Zwei Drei” creazione di Martin Zimmermann, in prima nazionale al Festival, “Sous Un Ciel Bas”, testo e regia di Waël Ali, in prima assoluta presso la Sala Assoli, e “Zinc” di Eimuntas Nekrošius in prima nazionale presso il Teatro Politeama. Tra i Progetti speciali si segnalano “Bellini Teatro Factory - Il Tempo orizzontale” per la regia di Gabriele Russo, “Essere Dylan Dog”, primo spettacolo teatrale, immersivo ed esperienziale, sul personaggio creato da Tiziano Sclavi, presso Palazzo Venezia, e “Antologia del Teatro greco contemporaneo”, un progetto di ETP Books, composto da otto testi scritti da altrettanti autori riconosciuti come rappresentativi della produzione teatrale greca contemporanea. La sezione Cinema, poi, prevede la proiezione di 13 pellicole presso il Giardino Romantico della Reggia di Napoli. Tra queste: “Otello” di Orson Welles il 19 giugno, “Macbeth” di Roman Polanski il 21 giugno, “Riccardo III” di Richard Loncraine il 25 giugno, “Shakespeare in love” di John Madden il 26 giugno e “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani il 28 giugno. A corollario degli spettacoli, infine, una serie di Laboratori e Mostre, tra cui “Dietro le quinte, Federico Fellini negli scatti di Patrizia Mannajuolo”, fino al 12 luglio, “Adda passà ‘a nuttata, a cura di Museo delle Arti Sanitarie, presso la Farmacia degli Incurabili e “Mario Francese 40 anni dopo: una vita in cronaca” presso il Palazzo Fondi fino al 14 luglio.

Pasquale Pota 16-03-2019

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