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Il bello “impossibile”: un enigma raccontato da Massimo Cacciari

«La distanza è l’anima del bello». È questa l’affermazione di Simone Weil, scelta per rappresentare la lectio magistralis di Massimo Cacciari, che mercoledì 11 maggio 2016, presso la sala Sinopoli dell’Auditorium di Roma, ha presentato “L’enigma del bello”, una riflessione che ripercorre le principali tappe della storia dell’estetica. Uno sguardo, quindi, su uno dei punti fondamentali che ha da sempre stimolato non solo la produzione artistica, ma anche il pensiero in generale. Il bello discusso e raccontato durante l’incontro si afferma anche su un piano pratico, che allontana l’ascoltatore da una sua definizione astratta.
L’evento si inserisce nel progetto che promuove il turismo nella Regione Lazio, sottovalutato negli anni passati e che ora ritorna per affermare le potenzialità del territorio e farlo conoscere al mondo. In effetti molti dei presenti in sala rimangono enigmabellopiacevolmente stupiti dai luoghi, per molti sconosciuti e inesplorati, che compaiono sullo schermo; tra tutti spicca sicuramente il borgo di Civita di Bagnoregio, che aspira a diventare Patrimonio dell’Umanità. Le immagini scorrono riprendendo da dentro e dall’alto i paesaggi che si mostrano nella loro naturale, culturale e storica bellezza. Una suggestione che arriva in un colpo d’occhio, sullo sfondo di quella “finitezza” in cui l’uomo, secondo Aristotele, può cogliere il bello.
“Limite” e “non limite” sono i poli che definiscono in un primo momento il bello, inteso come insieme di elementi legati da un’armonia che li libera dal vincolo sensibile. Il bello non coincide con la cosa in se stessa, ma con le relazioni che la inseriscono in una totalità formata in modo perfetto. Il bello è quindi immediatamente percepibile e allo stesso tempo occasione per andare oltre la realtà: una presenza che è sempre anche suo “oltrepassamento”. Fino a quando si arriva alla distruzione di questa stessa presenza.
Il bello in Kierkegaard si trasforma nell’impossibilità di riprodurlo, di possederlo, così come in Dostoevskij il bello si traduce in un atto di fede sottoposto all’angoscia e alla sofferenza. Allora la distanza di cui parla Simone Weil ritorna in tutta la sua forza. Il vuoto, che il bello ha lasciato nella visione moderna, è comunque un richiamo, forse anche più forte di prima. Perché ciò che non può essere immediatamente afferrato, si rende più desiderabile. Ma è quasi impossibile negare che la scomposizione delle parti, la volgare disarmonia di pezzi messi insieme a caso suscitino oggi un fascino irresistibile. Il bello continua ad avere un valore effettivo oggi? Sì, accanto però a uno alternativo che andrebbe anch’esso indagato, quel disordine inteso come occasione di costruire opere d’arte secondo una nuova modalità.

Elisabetta Rizzo 14/05/2016

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