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ECHOES: una discesa nel “bunker” della paura

In un clima che ricorda la tagliente tensione del Bicchiere della Staffa di Pinter, sta per compiersi un interrogatorio o un’intervista, in cui vittima e carnefice, in Echoes si scambiano i ruoli. La parola entra in scena dopo alcuni minuti di silenzio, dove erano ben distinti lo scricchiolare delle ossa e il morso di una mela. Due uomini, uno di fronte all’altro, il primo si prepara a fare un’intervista e il secondo non ha alcuna intenzione di rispondere a quelle domande ma ribatte con altri interrogativi.
In questa mancanza di corrispondenza tra domande e risposte, uno esige di sapere il perché ha ucciso un milione di uomini e l’altro ribatte chiedendo se ha una famiglia. Il duello verbale tra i due diventa sempre più serrato, dal lei si passa al tu, e si assottiglia la distinzione tra giusto e ingiusto.
Ecoh è il fautore di una strage, proprietario di armi di distruzione di massa e fautore di un sistema che si chiama Programma, che risponde ai suoi comandi come “dovere”, parola che ritorna spesso. De Bois è un giornalista, esperto di economia che ha studiato e indagato le cause di quelle stragi. È proprio la ricerca di un perché che lo conduce fino al bunker di Ecoh. Dal dialogo viene fuori una diversità di fondo, rispetto a tutti i temi che vengono trattati, dall’amore al potere, De Bois, come gli Apostoli, movimento rivoluzionario di cui è a capo, ha bisogno di un perché, di un fine per portare avanti i suoi ideali, mentre Ecoh, è alla ricerca del “come” accadono le cose, sembra un uomo spietato, “vive perché si deve vivere, ama perché si ama, uccide perché si deve uccidere”.
A questo punto il gioco delle parti tra buoni e cattivi sembra ribaltarsi, gli idealisti sembrano solo “passivi alla vita” e lo sterminatore appare come il capro espiatorio di una mancanza di soluzioni a quella che i primi chiamano crisi. La mela che all’inizio dello spettacolo è addentata da Ecoh, al pari del contesto biblico, è emblema di una colpa, non a caso viene divorata da De Bois. Ma esiste davvero la crisi? O è solo uno stato mentale in cui non si vendono più le possibilità, le potenzialità ma si spera nel ritorno a un equilibrio? Questi interrogativi si diramano in altre due domande: l’equilibrio è l’assenza di guerra o la minaccia sempre incombente di un attacco?
Il testo di Lorenzo de Liberato non è solo una discesa in un bunker in cui “finalmente” è chiaro chi prende delle decisioni sulle teste di tutti, ma è un principalmente una discesa nella più scura, irrazionale e inestricabile paura di ogni uomo,in quel buio dove dalla paura si genera vendetta e odio, anche legati da un legame di sangue, come i due protagonisti. Stefano Patti (De Bois) e Marco Quaglia (Ecoh) hanno mantenuto dall’inizio alla fine una grande tensione,ogni loro battuta è un fardello pericolo, che rimbalza sull’altro, nel rischio che esploda.
La paura è il filo che lega i due protagonisti, passando dalla mente di Ecoh a De Bois, ma anche il pubblico che risponde con sussulto al colpo della pistola (giocattolo) che i due maneggiano con estrema leggerezza, forse per ribadire ancora una volta che è più semplice ordinare di uccidere, come fa Ecoh, che premere il grilletto con il proprio dito. Come se uccidere un milione e settecento trenta persone è solo questione di ordine mondiale, per sopperire al sovraffollamento della popolazione, e che qualcuno pur deve occuparsene, quindi non importa se si colpisce l’est o l’ovest l’importante è scatenare una guerra tra sopravvissuti.

Primo Studio su ECHOES
scritto da LORENZO DE LIBERATO
regia STEFANO PATTI
con MARCO QUAGLIA e STEFANO PATTI
scene e costumi BARBARA BESSI | disegno luci MATTEO ZIGLIO | colonna sonora SAMUELE RAVENNA | voce di ‘Programma’ GIORDANA MORANDINI | assistente alla regia CRISTIANO DEMURTAS
Compagnia Marabutti

Gerarda Pinto 24/11/2015