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Con "La commedia della vanità" prosegue la stagione del Teatro di Roma: specchi di vita e frammenti di società

«Specchio, specchio delle mie brame. Chi è la più bella del reame?». In fondo la regina cattiva non era poi così egocentrica, anzi, aveva proprio ragione: tutti abbiamo bisogno della nostra immagine. Non si tratta di un’esigenza dichiarata, ma c’è davvero un’affezione quasi morbosa nei confronti del nostro io, alter ego spropositato e invadente dell’essere che si nutre di adulazioni e false promesse. Nell’esaltazione di tale consapevolezza appare complicato concepire un mondo senza specchi, un universo in cui non è possibile ricordarsi della propria identità, annientata da un editto vincolante ed estremo.

Eppure Elias Canetti aveva immaginato tutto questo nel 1934. Non è una questione di date, l’uomo sa essere tremendamente noioso e ridondante, ma ciò che viene proposto ne "La commedia della vanità" è essenziale, vero e paradossale. Sembra plausibile che lo scrittore avesse un reale disagio e che la sua immagine riflessa gli procurasse notevole tormento, ma la sua scrittura racchiude molto più di un semplice disturbo. L’elogio del superfluo, che diventa necessario, viene messo in scena da Claudio Longhi al Teatro Argentina con una rappresentazione allegorica e grottesca del totalitarismo in cui fotografie, specchi e ritratti sono categoricamente banditi dalla società, circo caricaturale con bambole di porcellana che intonano un coro dimesso e saltimbanchi sopra le righe che coinvolgono lo spettatore. L’opera nasce dalla penna di Canetti durante tempi bui, nei quali Berlino si rende protagonista delle Bücherverbrennungen, i roghi di libri considerati immorali dalle autorità naziste. Tra bandi e divieti sempre più minacciosi, Canetti immagina un contesto sociale dove si decreta di bandire la vanità e, con lei, tutti gli strumenti di autocelebrazione del Sé. Tutto ciò che può alimentare la pratica narcisistica viene destinato ad un grande falò applaudito da una massa ben fomentata.

“Saremo tutti d’accordo nell’affermare che sulla faccia della terra gli imbecilli costituiscono la maggioranza. Allora perché dovremmo farci comandare dalla maggioranza?” sentenziava il Dr. Stockmann in "Nemico del popolo", interpretato e diretto da Massimo Popolizio sempre sul palco dell’Argentina. E a Ibsen è seguita, in una piena continuità di temi, la messa in scena di Longhi, che offre proprio uno specchio al mondo contemporaneo, che del narcisismo ha fatto la sua bandiera, provocandosi, tra selfie e personal branding, una considerevole ubriacatura.

Al teatro “politico” di Popolizio e Longhi, verrà ad aggregarsi nel resto di questa stagione una grande varietà di produzioni: un Arlecchino goldoniano (11 - 23 febbraio), Il giardino dei ciliegi di Čechov (25 febbraio - 8 marzo), per la regia di Alessandro Serra; Imitation of life di Kornél Mundruczó e il suo Proton Theatre (11 - 14 marzo), opera multimediale che approfondisce le contraddizioni di una società violenta e discriminante; When the Rain Stops Falling (17 - 22 marzo), saga familiare dove la grande storia si incrocia alle vicende individuali; il dittico di Eduardo De Filippo, Dolore sotto chiave e Sik-sik, l’artefice magico (25 marzo - 9 aprile), con la regia di Carlo Cecchi; Misericordia di Emma Dante (17 aprile - 3 maggio); il classico pirandelliano Così è (se vi pare), diretto da Filippo Dini (19 - 31 maggio); La valle dell’Eden, infine, il capolavoro di Steinbeck riproposto da Antonio Latella e previsto in autunno. Nel programma compare anche la coreografia di Michele di Stefano, Parete Nord, dove i danzatori si confrontano con lo spazio della montagna. A rendere più ricca la rassegna, una serie di conferenze e approfondimenti, come la VI edizione di Luce sull’archeologia, otto appuntamenti sul tema delle origini di Roma, e il Festival Contemporaneo futuro nuove generazioni, teso alla valorizzazione della produzione teatrale per l’infanzia; non manca infine una serata con protagonista Massimo Recalcati, con una lezione speciale sul nuovo lessico amoroso. La rassegna del Teatro India mira invece principalmente allo scoperchiamento del contenitore delle emozioni umane. Poesia, danza, cinema e riflessioni sociali si intrecciano nei vari spettacoli inseriti nel programma, da L’après-midi d’un foehn di Phia Ménard (31 gennaio - 2 febbraio), accompagnato dalle musiche di Debussy, al dittico firmato da Tamara Bartolini e Michele Baronio, Tutt’intera (18 - 20 febbraio) e Dove tutto è stato preso (21 - 23 febbraio), fino all’adattamento della plurirappresentata Antigone di Eschilo a cura di Massimiliano Civica (18 - 30 aprile).

Giuseppe Cambria
Maria Giulia Petrini
Laura Rondinella

30/01/2020