Da quando Baggio non gioca più, non è più domenica. Da quando Senna non corre più, idem. E da quando Enrico Berlinguer non è più alla TV, come cantano in Robespierre (2005) gli Offlaga Disco Pax, non c’è più un politico a cui poter dire: ti voglio bene. Esiste un mondo prima dell’11 giugno 1984 e un mondo dopo. La scomparsa dell’ex segretario del PCI, di cui quest’anno ricorre il quarantennale, segna la fine di un’illusione collettiva, un punto di rottura di cui si accorge la società e di cui si accorge anche l’arte. Intanto Paolo VI non c’è più / è morto Berlinguer, è la constatazione sommessa che nel 1989 i CCCP fanno nel refrain di Svegliami. Diventare il simbolo di una stagione storica e sociale significa, in fin dei conti, anche questo: assurgere a riferimento. Un concetto che in tempi più recenti ritorna, quando, nelle prime barre di 1984 (2015), Salmo sceglie tre immagini per introdurre ai suoi contemporanei l’anno di orwelliana memoria: Craxi mangia coi tentacoli / muore Berlinguer / Maradona al Napoli.
Berlinguer il visionario ce lo racconta ancora bene Gaber, quando ci dice che qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. C’è un applauso, sincero e commosso, che accompagna questa frase nella versione live di Qualcuno era comunista confluita poi nell’album Il Teatro Canzone (1992) e che diventa una parte integrante del brano, chiarendo meglio di qualsiasi nota a margine il senso di quel passaggio. Ci prova anche Appino, a spiegare a degli americani l’importanza che ha avuto Berlinguer, prima che arrivi il caviale, prima che la cena di Tropico del Cancro (2015) degeneri in una ridda di incomprensioni e derive nichiliste. Che, alla fine, è la stessa impasse in cui si ritrova invischiato il protagonista che Walter Veltroni cuce su Neri Marcorè in Quando (2023), risvegliato dal coma in cui era caduto il giorno dei funerali a Roma. È possibile convincere una generazione che vede la politica come un corpo estraneo che è esistita un’epoca in cui un uomo di partito poteva essere soprannominato il più amato? Enrico, se tu ci fossi ancora sarebbe di sicuro più semplice: ci basterebbe un sorriso / per un abbraccio di un’ora, o così pensa Venditti, tra le righe di Dolce Enrico (1991).
Si potrebbe ripartire da San Giovanni, dalle immagini delle strade gremite quel 13 giugno 1984, più eloquenti di molte parole. È la via che hanno scelto di percorrere Michele Mellara e Alessandro Rossi, che in questi giorni riportano nelle sale italiane le potenti sequenze de L’addio a Enrico Berlinguer, il documentario corale girato proprio nell’84 grazie ai contributi di numerosi registi italiani, tra cui Benigni, Bertolucci e Scola. I due cineasti bolognesi regalano una nuova veste alla testimonianza storica, che, anche grazie alla suggestiva colonna sonora di Massimo Zamboni (CCCP), si trasforma in Arrivederci Berlinguer!, un lavoro al confine tra l’omaggio e la riattualizzazione, che segue cronologicamente altri due tentativi di ricomporre sullo schermo – in modo più o meno formale – il Berlinguer uomo e il Berlinguer politico: Berlinguer, la sua stagione (1988) di Ansano Giannarelli e Quando c’era Berlinguer (2014) del già citato Veltroni. Il segretario torna in città, dopo essere rimasto troppo a lungo fermo nel campo di grano in cui il Mario Cioni di Berlinguer ti voglio bene (1977) gli faceva visita alla periferia della civiltà. Anche, e soprattutto, per chi tra il ’72 e l’84 non c’era. Per chi ancora non gli vuole bene, ma forse, un giorno, gliene vorrà.
Andrea De Luca Italia - 16.06.2024