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"Una somma di piccole cose", la "Walden" di Niccolò Fabi

Apr 22

“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici” (Henry David Thoreau, “Walden ovvero La vita nei boschi”)

L’intimità con la natura, l'isolamento da un circostante in cui regnano l'utile e lo spreco, il capitale e il degrado. Il soggiorno a due passi da un lago, in aperta campagna. La dipendenza dalle proprie sensazioni, il riappropriarsi della propria intimità e della propria umanità. “La vita nei boschi” di Henry David Thoreau trova oggi un corrispettivo musicale in “Una somma di piccole cose” di Niccolò Fabi.
Dal lago Walden a Bracciano, dal Massachussetts a Campagnano di Roma conta l'immaginario, contano le cose che si decide di apprezzare, a cui si sceglie di dare importanza. E all'ottavo disco Fabi ha scelto di stampare un manifesto poetico, ripartendo dagli ultimi passi che aveva percorso: “Ambiente non è solo un’atmosfera (...) è il padrone della festa”. Forse parte tutto dagli ultimi versi del progetto a sei mani con Silvestri e Gazzè. Un'onda lunga due anni che lo ha portato a isolarsi per potenziare la propria capacità introspettiva, collezionando un trattatello d’amore ed ecologia musical-letteraria.
“Una somma di piccole cose” non è un disco, è un'esigenza, umana prima che artistica. E lo si comprende da come è stato prodotto e confezionato, dal lirismo e dal fiume immaginifico che propone una soggettiva sul recupero di qualcosa che è mancato, simboleggiato da quella prima persona buttata lì, in modo apparentemente casuale, a pochi secondi dall’inizio della title track: “di scelte sbagliate che ho capito col tempo”.
Il richiamo all'America di Thoreau c'è nella musica, nelle pizzicate alle corde e nell'atmosfera folk che portano la mente un po’ a Eddie Vedder un po’ a Bon Iver, chiusa in pacchetto testuale raffinato, in onde armoniche e ballate languide che creano una carezza uniforme e muovono l’anima in un subbuglio pastellato.
“Una somma di piccole cose” è una prospettiva. È un'alternativa all'inurbazione che trova riscontro mai così urgente nella realtà delle ultime settimane. È la fissazione di uno stile, che si ritrova nel cantato esile e nel coro etereo, nei versi essenziali e nella delicatezza con cui i particolari, “le piccole cose” appunto, vengono intarsiati alle note. “Le qualità migliori della natura umana, come i fiori in boccio, si possono conservare solo avendone la massima cura. Eppure noi non trattiamo né noi stessi né gli altri con tanta tenerezza”: è sempre Thoreau, ma è anche Fabi nel tema di “Ha perso la città”, in cui il mondo è solo verticale, è omologato e omologante, è motorizzato, è inquinato, è un alveare umano in cui non ci si rapporta se non con la perdita di un sogno. Ma è proprio dalla perdita che bisognerebbe imporsi di capire “l'infinita ampiezza delle nostre relazioni”.
“Una somma di piccole cose” è una filosofia. “Essere filosofi non significa soltanto avere pensieri acuti, o fondare una scuola, ma amare la saggezza tanto da vivere secondo i suoi dettami: cioè condurre una vita semplice, indipendente, magnanima e fiduciosa”. Ecco allora che da Thoreau, in “Filosofia agricola” si ode un'eco bucolica, magnificamente rappresentata dalle immagini che accompagnano il disco, dove Fabi è Pan che si aggira nei boschi e calpesta le foglie in compagnia del suo strumento, dialoga con la natura e pratica una sorta di apollineo ritorno alle origini che cozza prepotentemente con la realtà-relitto in cui viviamo. È una natura quasi leopardiana, bellissima e austera, madre e matrigna “che ci ospita” ed è “l'ultima a decidere”. E non è un caso, forse, che il disco esca nella Giornata Mondiale della Terra.
Se è vero che chi fa da sé fa per tre – l’album è stato scritto e suonato in solitaria dal cantautore romano – qui di Niccolò Fabi ce ne sono almeno tre. C'è il poeta bucolico, c'è lo spirito etereo che si cela dietro tutti i cori come una sorta di pastore errante e c'è il bardo che canta d'amore – quello folle o quello finito – nei brani centrali del disco: “Facciamo finta”, “Non vale più”, “Una mano sugli occhi”, “Le chiavi di casa”. In tutti e nove i pezzi – compreso “Le cose non si mettono bene”, cover degli Hellosocrate – si percepisce la dimensione artigianale e intimistica della fabbricazione. I controcanti quasi col plettro tra le labbra, lo sfondo en plein air che trapela tra un accordo e l'altro: immaginatelo d’inverno, al crepuscolo, quando fuori la terra di campagna è umida e fresca, scrivere ai piedi di un camino acceso i versi “tu insegni il silenzio in tutte le lingue del mondo”, o “una mano sugli occhi, questo tu sei per me”, o ancora “la tua risata è vita, è luce tra le persiane, regalo di genetica e domenica di sole”.
“Una somma di piccole cose” è un marmo estremamente lavorato, levigato, liscio: quaranta minuti scarsi ma densi di musica e parole, il tempo di gustarsi un liquore dolce e rimanere incantati. È “una storia per far vivere un incanto, una chiave per aprirsi dall'interno” – eccola, l'introspezione – in cui lo xilofono tinge passi astrali, chiazze oniriche. “Vince chi molla” è la chiosa sussurrata, quando una forte sbandata ti lascia col fiatone e allora prendi tempo al pianoforte. “L'aria dal naso arriva ai polmoni, le palpitazioni tornano battiti, la testa torna al suo peso normale”. Il liquore è finito, rimane solo qualche macchia sul fondo del bicchiere, senza rumore. Il fuoco si è spento e dal camino arriva un abbraccio tiepido. “La salvezza non si controlla”, la poesia nemmeno: “Il poeta non deve avere, non ha, altro fine (...) che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo” (Giovanni Pascoli, “Il fanciullino”).

Daniele Sidonio 22/04/2016

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