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Un disco urgente, ruggente, grondante, rock: "Lunga attesa" dei Marlene Kuntz

Feb 10

"Forse la cosa più preziosa è stare qua a riflettere un po' sulla fecondità di una quiete immobile, stare qua ad avvantaggiarsi un po' di una quiete immobile. Fammi ascoltare il tuo silenzio. Prova a scoprire che puoi farlo parlare" (Marlene Kuntz, Fecondità)

"Quanto è importante la narrazione per farci cogliere da una vera emozione". Parte tutto da questo verso, in cui si racchiude non solo il senso di un disco ma di 25 anni di sala prove, vita di palco e retropalco. È l'incipit di "Lunga attesa", decimo album dei Marlene Kuntz uscito il 29 gennaio scorso per la Sony e presentato in un mini-tour Feltrinelli che è approdato in via Appia Nuova a Roma il 5 febbraio.
Se in "Bianco sporco" la narrazione e la scrittura diventavano mezzi di espiazione, MK presenta un album che narra la realtà a partire dalla realtà. Quella "che ci disintegra", come recita la traccia d'apertura. È dal contemporaneo che prende corpo l'urgenza compositiva dei Marlene, tradotta in un disco omogeneo, costante, coerente, di quelli da ascoltare dall'inizio alla fine. Non un canzoniere ma un'opera dalla struttura definita, una cattedrale le cui volte sono le chitarre distorte, sul cui altare si consuma l'impetuosa e ordinata composizione di Godano, Bergia e Tesio. "Lunga attesa" forse spiazza quanti si erano ormai abituati – o forse convinti – a una band avviata sul crocicchio del cantautorato più meditabondo, ma rincuora – senza volerlo di proposito, "non siamo una band utilitaristica" – i nostalgici del sound anni Novanta. I Marlene si lamentano di un tempo in cui regna "La noia", "sola cosa orribile al mondo, solo peccato imperdonabile" come diceva "Il genio" Oscar Wilde. Qui in piazza le novità sono ben poche. E allora ci si mette MK sullo scaffale, se non delle cose nuove – dopo un quarto di secolo di carriera più che onorata sei una conferma, semmai – in quello delle sorprese. Perché probabilmente in pochi si aspettavano un disco così ruggente, in cui l'anelito più tipicamente godaniano torna nel brano che dà il titolo all'album – qui l'uomo è l'"accidente casuale" in una realtà meravigliosa quanto vertiginosa – e in "Un po' di requie", ballate dolci e intermezzi melodici di un percorso narrativo e musicale più grintoso e sfrontato.
È quasi musica strumentale con uso di voce: le divagazioni di basso e chitarra vengono preferite alle peregrinazioni letterarie degli ultimi dischi. Se "La città dormitorio" e "Sulla strada dei ricordi" sono chiari esempi del primo insieme, al secondo appartiene sicuramente "Leda", ritratto conturbante di donna dannunziana – spiega Godano ai fan in libreria – il cui nome arriva direttamente dall'alcova del Vate al Vittoriale e dalle suggestioni di "L'innocente". La forma canzone viene coperta da una coltre sonica raschiante e da una struttura vocale libera e a tratti rabbiosa – capovilliana, se vogliamo – ma pur sempre ricercata ("inebetito", "subitanei", "miserevole", "fulgida bellezza nobile"), che si diletta a sfruttare tutta la bellezza delle possibili forme in cui si può declinare un testo rock in italiano.
A quasi tre anni di distanza da "Nella tua luce" – in mezzo il tour celebrativo di "Catartica", "Pansonica" e "Il vestito di Marlene" – Godano e soci tornano con un disco che sfida l'ascoltatore con dodici tracce – un'ora scarsa di musica – poco radiofoniche e non inclini a rimanere appiccicate all'orecchio – fatta eccezione per "Narrazione", "Formidabile" e "Fecondità", quanto mai azzeccato come primo singolo – ma comunque restie ad andarsene. Un disco di personalità, grondante – si suda solo ad ascoltarlo, figuriamoci dal vivo – un disco rock.

Daniele Sidonio 10/02/2016

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