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In questi 2 mesi di lockdown molti sono stati gli aspetti della nostra cosiddetta “normalità” che abbiamo dovuto mettere in discussione. Fra i più importanti, c’è sicuramente l’assunto stesso di “sentirsi parte di una comunità”, assieme a tutto il corollario di valori che eravamo soliti adoperare per distinguerci da un’etichetta, piuttosto che da un’altra. Ed è stato curioso osservare come il COVID-19 abbia in un certo senso coinvolto tutti allo stesso modo e, contemporaneamente, sottolineato tutte quelle caratteristiche che rientravano già in una visione esauriente di “distanziamento sociale”. Ricchi e poveri, privilegiati e dimenticati, lavoratori e disoccupati, patrioti e stranieri, fortunati e sfortunati. Se è vero che stiamo riaprendo gradualmente le porte per poter tornare insieme ad immergerci nel mondo, è vero anche che una certa idea di “società malata” ancora non ci abbandona. Malata di pregiudizi, soprattutto.

La musica, con la sua capacità di eludere ogni tipo di confine, è stata senza dubbio un elemento di estrema utilità in queste settimane, per molti di noi. Per colmare la distanza con le persone care, per dedicarsi al suo studio sotto molteplici aspetti, per riassaporare il religioso ascolto di vecchi brani e album, o fare nuove scoperte. Ma, soprattutto, per farci apprezzare veramente il valore della condivisione. Da quest’ultima voce nasce l’idea di voler mettere insieme le proposte musicali che troverete di seguito, ad opera di ragazzi che già prima dell’inizio della quarantena condividevano un percorso comune, fatto principalmente di studio e critica giornalistica delle arti (teatrali, cinematografiche e musicali).

Fino a diventare colleghi e, in qualche modo, anche compagni di viaggio.

18 brani, ciascuno consigliato da questi ragazzi con opportune argomentazioni e direttive, in cui si intrecciano emotività e raziocinio. Ogni canzone è stata, infatti, mossa da esigenze diverse: quella di regalare una carezza per sorridere, uno schiaffo di quelli propedeutici e formativi, o semplicemente, una parte di sé.

Un’avventura collettiva questa, se preferite, che siamo certi potrà tornare utile in ogni momento, perché la forza della musica sta proprio, come sempre, nell’andare oltre qualsiasi tipo di ostacolo, concreto o astratto che sia. Ed è anche un modo per continuare a viaggiare insieme e trasmetterci messaggi importanti (come si è cercato di fare con questa rubrica), mentre ci prepariamo a ripartire!

BUON ASCOLTO A TUTTI!  

(e un “GRAZIE” speciale ai miei colleghi del Master di Critica Giornalistica 2019/2020 presso l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico che lo hanno reso possibile).

  

“Acqua e sale” – Mina e Celentano (2003)

Un paio di birre nel locale, in mezzo alla gente nei tavoli pieni, e due tipi cantano al karaoke quella canzone dal groove attraente, ma in una orribile base MIDI: quella che cantano sempre tutti. Era il 1998 e “Acqua e sale” ci mise pochissimo a divenire un cult delle voci amatoriali e allo sbaraglio che, molte volte, tentavano di imitare i timbri inarrivabili di Mina e Celentano. Ed è strano riascoltarlo, oggi, chiuso in una stanza, luogo di isolamento sociale, con le voci originali del molleggiato e della tigre di Cremona, nell’arrangiamento originale di Massimiliano Pani e con quell’assolo di chitarra elettrica che scivola come fosse sull’acqua, creato ed eseguito da un giovanissimo Max Varini. Accordi semplici, un po’banali, ma “Acqua e sale” è, per noi italiani, la canzone per antonomasia dello stare insieme, della socialità: ormai un dogma. E quanto sarebbe bello, oggi, ritrovarsi in uno di quei locali, sentir partire quell’intro nel borbottìo generale e pensare: “Ancora? ma quanti soldi avranno fatto, con i diritti d’autore, quelli che hanno composto ‘sta canzone?”

(“…per berci di nuovo una birra insieme”)

Giuseppe Cambria

 

“Fiore mio” - Andrea Laszlo De Simone (2017)

Come una filastrocca che ritorna, si ripete e si fissa nella testa: “Fiore Mio” è semplicemente fine e replay continuo. Una serie di suggestioni visive richiamano i colori, i rumori e i profumi che avvolgono un legame stretto, passato o immaginato tra due amanti. Le sonorità anni 60/70 si mescolano a una contemporaneità ancora psichedelica, trascinata dalla voce morbida di Andrea Laszlo De Simone. Fiore mio è sospesa come i sentimenti che racconta, è candida come il biancore protagonista delle strofe. Onirica e traslucida, e ancora, edulcorata dai facili accostamenti lessicali, il suo ascolto conduce verso una seducente malinconia di cui sentiamo aver bisogno. Il brano è la cornice più familiare di un album -“Uomo Donna”- pregno di rimandi a quel progressive rock che non ha paura di esprimere un fenomeno, e i successivi epifenomeni, cantando frasi come «Fiore mio, fiore della mia anima». Il ricordo del cantautorato italiano di Battisti e Battiato arriva sino a noi, ora autentico e attuale. De Simone è in grado di abitare perfettamente il nostro tempo esprimendo l’universo-sentimento in modo pacato e naturale, senza tralasciare la sperimentazione di nuovi orizzonti.

Arianna Sacchinelli

 

“Mio fratello è figlio unico” – Rino Gaetano (1976)

Graffia e sorride la title track di un album epocale che esce nel 1976 col nome Mio fratello è figlio unico, opera di un menestrello poco eccelso per quelli del suo tempo che oggi chiameremmo semplicemente Rino Gaetano. Un paradosso ma senza voglia di demagogia sin dal titolo, acuto e fustigatore come i maestri dell’assurdo Beckett e Ionesco che aveva sposato quando animava le cantine off di Trastevere. È impossibile dire di lui e del suo “fratello figlio unico” al passato perché i geni nascono una volta ma parlano per sempre. “Perché è convinto che esistono ancora gli sfruttati malpagati e frustrati”, diceva Rino parlando a quell’outsider Mario a cui è dedicato l’amore del suo grido rotto, in una ballata di pianoforte, cori, e squarci di lirismo ad intermittenza. Oggi, in tempi di quarantena, ripenso all’ essere figli unici come ad una libertà irrevocabile. Significa scegliere di camminare da soli, al di sopra dei legami di sangue, al di sopra di cosa e chi il tuo tempo ti impone di essere. Soli, ma nel senso liberatorio che dà l’unicità.

Che poi, chissà chi era Mario (o Mariù?). Di certo uno che non “filava dritto”.

Gabriella Longo

  

“Strada facendo” – Claudio Baglioni (1981)

Quando mi è stato proposto questo progetto, la prima canzone che mi è venuta in mente è stata "Strada facendo" di Claudio Baglioni. Il suo testo e la sua musica mi sono state accanto nei momenti difficili e mi hanno fatto credere, come scrive l'autore, che ci sia qualcosa in noi di inspiegabile, che ci fa andare avanti e dire che non è finita. E' una di quelle canzoni che mi fa piangere ma anche sorridere, proprio come accade nella vita, e soprattutto pensare a quanto siamo forti quando, nonostante le mille difficoltà, ci aggrappiamo a quel gancio in mezzo al cielo. Percorrendo la mia strada ho capito di non essere sola, come ci dice la canzone, e per questo dedico la mia scelta a tutti i miei cari amici, che mi sono stati vicini nei periodi bui senza fare domande, e a me stessa per non aver mai mollato.

Silvia Cannistrà

  

“Should Have Know Better” – Sufjan Stevens (2015)

Should Have Known Better (dall’album Carrie & Lowell) ha lo stesso effetto della carezza di una madre, che con occhi buoni e pieni del mondo ci chiede di sollevare il viso, di staccarci dal nero sudario («black shroud / captain of my feelings») con cui abbiamo a lungo insistito ad avvolgerci il capo. Reprimere non serve a niente: le lettere vanno scritte e i pianti vanno sfogati. Con associazioni linguistiche che scorrono come acqua sorgiva, sonorità che sembrano provenire da vaporosi orizzonti onirici e accensioni capaci di risvegliarci dall’oscurità più spietata, Sufjan Stevens ricuce le ferite del cuore e prepara il terreno per la rinascita: il passato rimane passato («the bridge to nowhere»), ma a volte basta posare lo sguardo su qualcosa o qualcuno («My brother had a daughter / the beauty that she brings») per venire travolti dalla bellezza di un mondo che, tenero e ostinato, si rinnova sempre e comunque.

Maria Giulia Petrini

  

“A modo tuo” – Luciano Ligabue (2015)

Ero un’adolescente “alternativa”, o di quelle che vengono etichettate così, con la passione per il grunge e per i Green Day, con un padre appassionato di rock, musica classica e cantautorato italiano. E lì in mezzo c’era lui, Liga. Ha permesso ai nostri due mondi di incontrarsi, dando inizio ad una passione comune che è ancora lì, nel mezzo. Mi capita spesso di ripensare a questa storia, ultimamente. Mi ricorda che dall’altra parte, oltre la distanza forzata, c’è qualcuno ad aspettarti. Non so cosa succederà dopo questo enorme caos che stiamo vivendo, se saremo più uniti, più lontani, più desiderosi di stare soli o al contrario di immergerci nella vita con ancora più forza e tenacia. Se saremo capaci di riprenderci la nostra normalità. L’unico augurio che posso farci è di tornare a “camminare, cadere, rialzarci, cambiare” a modo nostro.

Claudia Silvestri

 

“The King Of Carrot Flowers, Pt. 1” - Neutral Milk Hotel (1998)

Neutral Milk Hotel, King of Carrot Flowers, Pt. 1. Un ascolto di due minuti soltanto, una ballata per chitarra acustica che sembra condensare in poche immagini l’intima mescolanza di spiritualità ed erotismo che verrà a dispiegarsi attraverso le altre tracce di In the Aeroplane Over the Sea (1998). L’urgenza che accompagna il cantare di Jeff Mangum e le note storte della cornamusa impregnano di malinconia un testo estremamente poetico, che evoca con delicatezza un’infanzia giocata tra i fiori di carota e «sacri» serpenti a sonagli. Gli angoli di casa, che in questi giorni sembrano riflettere soltanto il nostro isolamento, diventano i silenziosi testimoni di un mistero che si scopre sui corpi e a fior di pelle («As we would lay and learn what each other's bodies were for»), custodendo il segreto di un amore così liquido e denso da poterci affondare («And this is the room/ One afternoon I knew I could love you /And from above you how I sank into your soul»). Un brano per riempire di ricordo e di attesa questa stanza oggi così vuota, mentre fuori la primavera imperversa priva dei nostri battiti e delle nostre carezze.

Chiara Molinari

 

“That's Life” - Frank Sinatra (1966)

Sarà per lo stile inimitabile dell'autore, o perché il film “Joker” ha dato nuova linfa vitale a uno dei suoi migliori brani, ma “That's Life” di Frank Sinatra rappresenta la mia colonna sonora personale in questa quarantena. Perché? Semplice, contiene uno dei messaggi principali del cantante newyorkese. La vita è dura, può metterti a tappeto con dei potenti calci (o un virus!), calpestando i tuoi sogni, ma in ogni caso non bisogna mai arrendersi, bisogna sempre rialzarsi e tornare in gara. Dopotutto il mondo continua a girare e a giugno tutto potrebbe cambiare!

Matthieu Silvani

 

“Salirò” - Daniele Silvestri (2002)

Una canzone che quest'anno diventa maggiorenne. Corre l'anno 2002 infatti quando il cantautore romano porta la canzone al Festival di Sanremo. Nonostante si piazzi quattordicesimo, il brano è un successo e ancora oggi è consuetudine ascoltarne il caldo ritmo alla radio. Salirò è una irriverente scossa di energia positiva, è un messaggio scherzoso e speranzoso di ripartenza dopo una ferita d'amore. Metafore semplici e paradossali disegnano il percorso di Silvestri che "scotto come il tagliolino al pesto" è deciso prima o poi a rimettersi in gioco, alzandosi dal letto sfatto dove è stato lasciato. Inevitabilmente, è una canzone che mette di buonumore, fa sorridere, divertire ed entra nella testa, per poi non uscirne più, anche dopo anni.

Camilla Giordano

 

“Astronomy” – Blue Oyster Cult (1974)

Senza i Blue Oyster Cult la storia dell’hard rock così come la conosciamo sarebbe di gran lunga più povera. Una band caduta ingiustamente nell’oblio, ma non è mai tardi per riscoprirla. Con Secret Treaties hanno consegnato al mondo il loro capolavoro, e Astronomy, la canzone che chiude questo album, è tra le più celebrate. Una ballata rock malinconica dal testo metaforico soggetto a varie interpretazioni, composta in un crescendo musicale dai toni mistici. Dalle iniziali note dolcissime del pianoforte si conclude con un’esplosione musicale liberatoria sul finale. Se ascoltata ad occhi chiusi il senso di evasione dalla realtà è totale, si vola tra le stelle del firmamento insieme a Susy, dopodiché anche l’ascoltatore più ostico diventerà seguace del Culto dell’Ostrica Blu.

Tiziana Panettieri

 

“Concerto in sol” - Maurice Ravel (1931)

Il Concerto in sol fu presentato a Parigi il 14 gennaio 1932 e diretto dallo stesso Maurice Ravel che lo definì «un concerto nel senso più autentico del termine […] scritto nello spirito di quelli di Mozart e Saint-Saëns». La peculiarità del Concerto in sol sta nel suo essere poliedrico e visionario, capace di rendere in immagini i passaggi sonori letteralmente spettacolari, per cui si passa dalle atmosfere circensi a quelle dei jazz club, dai salotti reali ai moti interiori fino alla pura metafisica. Il secondo movimento, l’Adagio Assai, è forse il più dolorosamente nostalgico: si apre con il pianoforte solo che intona una lenta melodia come scandita da passi che ci portano intimamente e con fatica indietro nel tempo; l’entrata candida del flauto pare schiudere una porta attraversata, poco a poco, dagli altri elementi dell’orchestra come spiragli di luce nella penombra. Si delinea un’atmosfera che rimanda al sogno e all’immaginario, in un crescendo sempre più intenso, agitato e perturbante che sembra finire con un quiete risveglio in cui il tocco leggero e brillante del pianoforte copre di pioviggine l’aurora generata dall’oboe insieme con gli archi.

[Esecuzione consigliata (The Royal Stockholm Philharmonic Orchestra diretta da Yuri Temirkanov, con al piano Martha Argerich): https://www.youtube.com/watch?v=cJOW5mlhH_Y]

Martina Cancellieri

 

“Highway Patrolman” - Bruce Springsteen (1982)

Bruce Springsteen scrive, suona e interpreta canzoni con dolente empatia e uno sguardo sempre comprensivo, mai giudicante, su sogni infranti, chimere che battono nel petto, fuorilegge per necessità o per una psiche infranta, uomini e donne posti davanti a scelte e dilemmi morali che non contemplano vie di mezzo. Sono storie in musica di fallimenti a cui ci si rassegna e di speranze che ci fanno ancora correre mano nella mano con una persona, ridendo di una felicità esplosiva e incomprensibile, sotto il diluvio – vero ma anche simbolico. Frammenti di esistenze che toccano corde profonde, risvegliando ricordi personali per chissà quale associazione di immagini o sensazioni, e ci fanno provare tutto il vissuto di qualcuno o lo fanno risuonare come se fosse il nostro. Uno struggimento agrodolce. Provate per credere dando un ascolto a “Highway  Patrolman”, in origine scritta per Johnny Cash, e inserita nel disco del 1982 “Nebraska”. Polpastrelli sulle corde della chitarra, un microfono e l’amore gonfio di dolore di un uomo per un suo fratello.

Lorenzo Cipolla

 

“At the door” - The Strokes (2020)

I puristi diranno che la mancanza della batteria e delle chitarre stravolge il canonico sound della band. Il massiccio utilizzo dei synth dal retrogusto anni ottanta cyberpunk (quasi vapor) sovrasta sovrano lungo tutta la canzone, senza grandi variazioni. Eppure il singolo è forse la track più bella del nuovo disco dei The Strokes, decadente e malinconica arriva dritta senza troppi orpelli grazie anche alle semplici ma incisive parole di Casablancas: Strike me like a chord//I’m an ugly boy//Holdin’ on the night//Lonely after Light…

Sara Moscagiuri

 

“Centro di gravità permanente” – Franco Battiato (1981)

Cerco un centro di gravità permanente… che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente. Il ritornello che racchiude tutto il messaggio della canzone. Il centro di gravità permanente è il nostro Io osservatore e lo si può formare attraverso l’essere attivi, svegli e osservatori del mondo. La forzata reclusione ha travolto tutti e ha completamente stravolto le sedimentate abitudini quotidiane, ponendoci davanti ad un, molto spesso, rinnegato confronto con noi stessi. Adesso più che mai, in un momento in cui tutto è precario e da “rivedere”, si rende necessario trovare il proprio equilibrio per riscoprire o scoprire il proprio centro nella realtà. Complice un ascolto a tutto volume nell’unica uscita in macchina in due mesi, questa canzone ha potenziato la voglia spasmodica di ritrovare la libertà di poter scegliere.

Miriam Raccosta

 

“Il cielo di Roma” – Aiello (2019)

«Tutte le volte che sono in volo mi torna in mente la maestra Gianna. Suo figlio è molto intelligente, ma sta sempre con la testa tra le nuvole». Il periodo della scuola è finito da un pezzo, ma forse conviene ancora avere la testa fra le nuvole per non pensare, lasciarsi andare nell'incertezza delle giornate che restano immobili. Aiello racconta sentimenti sbiaditi sotto "Il cielo di Roma" dove tutto cambia o forse tutto rimane così com'è. Sentirsi in trappola sotto o sopra lo stesso cielo accorcia le distanze e ci rende meno soli. Dovremmo essere in grado di toglierci la nostalgia come una maglietta che non sta più bene, farla svanire come il sapore di un bacio che si dissolve e invece lei resta lì, ci osserva e non se ne va. «Certe cose non cambiano. Molte di queste rimangono. Come tutte le volte che ti incontro per strada e la strada si alza e a me pare di stare sopra il cielo di Roma. A fissare la notte, a toccare le stelle con te». Abbracciarsi sotto lo stesso cielo sarà ancora possibile, per adesso ci basta la musica a far scorrere i pensieri come nuvole.

Laura Rondinella

 

"Moth Into Flame” - Metallica (2016)

 Il brano suona come una sorta di cavalcata, che denota una buona potenza esecutiva, dettata anche dal suono martellante del basso, per dare profondità al brano. Il concetto espresso nella canzone è come la ricerca del successo porti molte persone a fare di tutto, pur di ottenerlo. Nel caso specifico ci si concentra sul fattore fama, che spesso prende il sopravvento sul nostro essere rendendoci inconsapevoli di aver iniziato un processo che non farà altro che portarci alla pazzia ed al fallimento. Nel ritornello viene rivelato l'atto estremo che una persona è disposta a compiere pur avere un briciolo di fama, quello di arrivare a vendere l'anima al diavolo. La canzone ci parla quindi delle persone che cercano ad ogni costo di cambiare la propria vita, scendendo a compromessi che porteranno solo al fallimento ed allo sconforto. Ecco spiegato il simbolismo delle falene: presi dall'euforia, non capiamo che stiamo gettando via la nostra vita. Il monito della band, dunque, è che se non si seguono determinati criteri, ma si accettano stratagemmi per arrivare a traguardi altrimenti difficili da raggiungere, il crollo è inevitabile.

Alessandro Perri

 

“Across the universe” – The Beatles (1969)

Un classico da ascoltare, soprattutto ora che siamo in piena emergenza covid-19, è Across the Universe. Un brano del 1969, ma che tutt’oggi gode di una straordinaria modernità: basti pensare al testo che nel ritornello grida “Nothing’s gonna change my world”. L’originale versione dei Beatles, minimale e intima, viene ripresa, nel corso degli anni, da grandi nomi della scena musicale: è il caso di David Bowie, che nel 1975 rende questa canzone più graffiante. Una provocazione e una ribellione nei confronti del sistema. Più recentemente, invece, è stata rivisitata dal gruppo rock sudafricano Seether , che regala al pubblico una versione apparentemente più fresca, ma che lascia trasparire tanta malinconia e intensità.

Micaela Aouizerate

 

"Imagine" - A Perfect Circle (2013)

Se la perla originale di John Lennon riesce ancora, a suo modo, ad evocare quella sorta di desiderio trasognato o affascinante prospettiva, mossi dalle spinte rivoluzionarie dell’amore fraterno sessantottino, la rivisitazione (in chiave minore) di Maynard James Keenan & Co è da considerarsi, altresì, un’istantanea parodistica di questo nostro presente così sottovalutato, vissuto in maniera distratta e troppo spesso artificialmente edulcorato. Pianoforte martellante, violini stridenti, cadenzati e quasi spaventosi alla Bernard Herrmann, dissonanze dal sapore schönberghiano. Un crescendo sempre più graduale, quasi al punto di riempire l’aria di angoscia, come la nenia vocale dello stesso Keenan. Badate bene: questa Imagine non va intesa secondo un’accezione di pessimismo gratuito, ma piuttosto come una sana, quanto scomoda, presa di coscienza alla quale concedere la libertà di piegarci in due come farebbe un pugno nello stomaco ben assestato. Servono orecchie e animi consapevoli, per questo ascolto. Perché se è vero che, una volta tornati in quel mondo che si trova oltre la soglia di casa nostra, avremo tra le mani una certa idea di futuro, è bene tenere a mente quello intendiamo lasciarci alle spalle. Specialmente se abbiamo promesso a noi stessi di essere migliori, più passionali, attenti, onesti e comprensivi. Quello per commettere ancora vecchi errori è ormai una scusa passata di moda, come il lusso di essere vigliacchi.

Jacopo Ventura

Nell'era dei biopic a tutti i costi, sfavillante ma anche drammaticamente oscuro, sorge una domanda, dai fan come dagli stessi protagonisti in questione: qual è il modo giusto di raccontare una vita fuori dal comune? Se qualche anno fa, nei primi 2000, l'attenzione si posava sulla sofferenza introspettiva delle esistenze più controverse del mondo della musica, oggi la psicologia dei personaggi non costituisce più un elemento di fascinazione, e per questo si ricorre ad escamotage estetici che fanno rumore ma non hanno un'anima. Bohemian RhapsodyGli ultimi usciti, Bohemian Rhapsody (2018) e Rocketman (2019) (per cui anche la questione della regia ha un qualcosa di poco chiaro: nel primo l'unico regista accreditato è Bryan Singer, mentre a finirlo è stato Dexter Fletcher, che si é rifatto poco dopo firmando il film su Elton John) confermano una linea attuale comune che preferisce far brillare la realtà ricreando grandi scenografie e live indimenticabili e trascurando l'anima inquieta sotto ai lustrini, minimizzata in un percorso biografico di cui ci si accontenta ma che non emoziona. La chiave di lettura spettacolare, e concentrata sul fattore meraviglia, lascia perplesso lo spettatore affezionato ad un biopic più intimista in cui il dramma è parte stessa dei contenuti; è vero che la vita di Elton John non è paragonabile a quella di Edith Piaf in quanto a lustrini, ma andando a vedere il biopic di Olivier Dahan (La vie en rose, 2007) con il premio Oscar Marion Cotillard la differenza di sguardo è lampante e non riguarda la specifica scelta registica, bensì una modalità che accomuna una generazione precedente e codificata di biopic. Basti pensare a Walk the Line diretto da James Mangold (2005) o a Ray di Taylor Hackford (2004): altri protagonisti combattuti tra arte e dipendenze, con un vissuto colmo di buchi neri ma trattati senza ostentata grandiosità. Lontana da entrambi gli stili è una terza possibilità, quella documentaristica-autoriale, che appartiene più alle atmosfere dei festival internazionali che ai multisala pieni del weekend: sono i biopic sussurrati, poetici, sospesi tra realtà e interpretazione, che spesso vengono adorati dalla critica e demoliti dagli spettatori. Sono storie a più voci come in I'm not there (Io non sono qui di Todd Haynes, 2007), in cui Bob Dylan è interpretato da più attori, tra cui una donna e un bambino, o ritratti collage, senza approfondimenti descrittivi, come Last Days di Gus Van Sant (2005).
La vie en roseUna codificazione particolare è riscontrabile anche nelle produzioni italiane e appartiene ad uno sguardo che è abituato a confrontarsi con i linguaggi della fiction: in Italia il biopic è un genere che va forte anche, e soprattutto, sul piccolo schermo, come testimonia il successo dei film Fabrizio De André – Principe Libero di Luca Facchini (2018) e Io sono Mia di Riccardo Donna (2019), entrambi trasmessi su Rai 1 poco dopo la distribuzione in sala. Tenendo presente il target dell’ultima destinazione, ossia il pubblico generalista del principale canale Rai, i due film presentano un taglio televisivo e una serie di elementi propri della fiction italiana. Ad alzare il livello sono le interpretazioni di Luca Marinelli e Serena Rossi, ma a mantenerli ben lontani da una fruizione internazionale è un gusto moderato che ha paura di strafare e che quindi punta solo sull’interpretazione (sulla stessa linea si colloca la miniserie Rino Gaetano – Ma il cielo è sempre più blu di Marco Turco del 2007).
Non è facile raccontare l’incostanza, la sofferenza, e farne uscire un quadro che riveli anche la chiave del successo di un’esistenza fuori dal comune. È certo che se si vuole comunicare a più spettatori possibili anche una sola emozione, che però faccia tremare, la chiave non è la centralità dello spettacolo, ma neanche l’introspezione straziante e, a volte, incomprensibile. Non è difficile immaginare perché il figlio di David Bowie, Duncan Jones, ha espresso il suo disappunto per un biopic di prossima lavorazione in cui il cast è già deciso ma non gli strumenti per rendere memorabile l’ennesimo film biografico.

Silvia Mozzachiodi, Silvia Pezzopane 02/06/2019

Photo Credits:
Rocketman © 2018 Paramount Pictures
Bohemian Rhapsody © 2017 20th Century Fox
La vie en rose © TFM Distribution

Si sono concluse ieri al Teatro Studio Uno le repliche de Il Barbiere di Siviglia, spettacolo portato in scena dal 14 al 17 febbraio, ispirato alla lirica di Gioacchino Rossini e Cesare Sterbini, seconda parte dell’interessante progetto de “I Tre Barba”: Lorenzo De Liberato, Alessio Esposito e Lorenzo Garufo, dedicato alla rilettura in prosa dei libretti delle più celebri opere liriche del settecento. Dopo un Così fan tutte caratterizzato dalla contaminazione di trap, new melodico e trap, realizzano una versione satirica e meta-teatrale dell’opera buffa più celebre di Rossini. Il barbiere di Siviglia 1

Il loro percorso all’interno del mondo della lirica vuole travalicare la veste ufficiale attribuita al genere rendendo l’intrattenimento fresco e divertente, alla portata di un pubblico vasto e non elitario, abbattendo l’aura antica che da sempre la contraddistingue. Scegliendo una forma ludica di analisi svolgono un lavoro che esprime un altro aspetto dell’opera lirica, che è proprio del gioco.
Il loro obiettivo è avvicinare le persone ai grandi capolavori operistici, lavorandone i contenuti e trasformando le versione originale in una riduzione efficace, caratterizzata da un grande ritmo e soprattutto da un’immensa ironia. I Tre Barba si cimentano nel riarrangiamento delle arie più famose, tutte eseguite a cappella e senza l’uso di strumenti musicali, tra cui le celebri Largo al factotum e La calunnia, mescolando la loro esibizione ad intermezzi propri della musica pop e a citazioni nostalgiche dello swing; passano dai Queen a Fred Buscaglione.

Soli sul palco interpretano tutti i ruoli, pochi oggetti di scena e nessun cambio di costume, uno sfondamento continuo della barriera che coinvolge il pubblico e trascina in una comicità semplice ma esilarante. Le gesta del Conte d’Almaviva, aiutato dal barbiere Figaro per conquistare la bella Rosina, non si trasformano solo in un classico gioco degli equivoci, ma diventano un concentrato di auto-ironia in cui i tre attori sono i primi ad ammettere che nessuno di loro è all’altezza del testo originale evitando di prendersi troppo sul serio, quando in realtà regalano una performance eccezionale. Il Barbiere di Siviglia 2

Grazie ad una sede come il Teatro Studio Uno, nel cuore del quartiere di Torpignattara a Roma e “casa del teatro indipendente”, nonché grande luogo di incontro per esperienze diverse e pubblici variegati, i Tre Barba riescono ad arrivare a tutti (lo testimonia una prima fila piena di bambini che non smettono di ridere) attualizzando un’opera lirica rappresentata per la prima volta nel 1816 e permettendo a tutti di entrare in contatto con la musica e la storia, lasciando la perfezione interpretativa e il rigore di un certo teatro alle messe in scena ufficiali.

 

Silvia Pezzopane

18/02/2019

Photo credits: Luisa Fabriziani

L’evocativo “Lingue” di Tommaso Di Giulio, prodotto da Leave Music, è un album pieno di parole e di storie, ma comincia con una semplice immagine sonora, emblematica della stagione estiva: frinire di cicale. Immediata è l’associazione al caldo, al mare, ai nostri ricordi in spiaggia. Si apre così (e si chiuderà, pure) un’amplissima serie di nostalgiche polaroid musicali, canzoni che, spesso e volentieri, ci distraggono da loro stesse per farci viaggiare con la mente.
Non è un caso, affatto, che l’operato di Tommaso Di Giulio sia stato definito appartenente al genere del “pop cinematografico”. In effetti, non sarebbe difficile accostare "A chi la sa più lunga" o "Prendiamo esempio", tanto per fare due titoli, ai vecchi e gloriosi film di Aldo, Giovanni e Giacomo o a altri modelli positivi del cinema italiano. tommaso 2Ma la ragione autentica di tale meccanismo è, a pieno titolo, ben più profonda.
Il cantautore combina spesso e volentieri un accompagnamento strumentale ricco, un ritmo morbido e frammenti di testo volti a dipingere non una trama precisa, ma a suggerirne tante, diverse e composite. Per questo la nostra memoria, che funziona allo stesso modo, trova in “Lingue” note perfette per reagire, agitarsi e ascoltarlo insieme a noi. Il disco diventa un caleidoscopio rotante e colorato attraverso cui rivivere tanto del nostro passato, sbirciando forse qualcosa di quello di Tommaso Di Giulio.
La voce, a metà tra Silvestri e Grignani, accarezza storie quel tanto che basta per lasciarcele immaginare. È la potenza visiva di questo tipo di musica che fa pensare al cinema, ma quello dell’autore, più che cinematografico, è “pop audiovisivo”. Un qualcosa che precede, e ora va oltre, l’attuale categoria onnivora dell’indie, anche se ne subisce inevitabilmente la pesante influenza. "Le notti difficili", a esempio, somiglia all’ultimo Calcutta, "L'umidità" (che azzarda, peraltro, una spruzzata di autotune) invece ricorda vagamente i primi The Giornalisti.
Tommaso Di Giulio, classe 1986, non è tuttavia elemento passivo di un fenomeno musicale come quello odierno. Al contrario, ne è parte integrante, e dopo nove tracce spese a delineare il suo preciso ego musicale, premia l’ascolto con un’ultima gemma: la lenta ballata di pianoforte "Quello nello specchio", dalle sonorità blues e il canto quasi recitato, a sigillare anche la dedica del disco intero, a suo padre. Un intimo arrivederci, suonato poco e sottovoce, che più di altre canzoni rivela il carattere dell’uomo dietro l’autore. Un’occhiata sfuggente, per l’appunto, all’uomo nello specchio, prima di tornare alle cicale.

Andrea Giovalè 25/07/2018

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