“The Stone Roses” compie trent’anni: un omaggio all’opera musicale che incantò e rese grande la scena di Manchester
Ci sono album che resistono il tempo di qualche ascolto, altri che durano una stagione, altri ancora che sopravvivono per diversi anni. E ci sono poi quegli album che, persino dopo tre decenni, si mantengono freschi, compatti e pronti a trasmettere qualcosa a tutti coloro che sono disposti a fermarsi un attimo per ascoltare. È questo il caso di The Stone Roses, l’album d’esordio dell’omonima band inglese, uscito il 2 maggio 1989 sotto l’etichetta Silverstone e rimasto nel cuore di un’ampia schiera di appassionati.
Considerati tra gli alfieri della scena di Madchester e della cosiddetta “seconda summer of love” di fine anni Ottanta, gli Stone Roses non sono certo passati alla storia per la vastità della loro produzione: al contrario, non è esagerato affermare che, con questo lavoro, i quattro giovani mancuniani abbiano dato il meglio di sé confezionando un’opera che può essere definita come un importante anello di congiunzione tra la precedente new wave e il futuro britpop degli anni Novanta, un indiscusso manifesto del movimento baggy e, più semplicemente, un piccolo capolavoro della musica.
Il valore di questo album è innanzitutto basato sulla perfetta alchimia tra il cantante Ian Brown, il chitarrista John Squire, il bassista Gary “Mani” Mounfield e il batterista Alan “Reni” Wren: difficilmente, in assenza di uno di questi quattro elementi, l’opera avrebbe assunto l’aspetto con cui è conosciuta. La voce di Brown alterna passaggi eterei e sussurrati (I Wanna Be Adored, Elizabeth My Dear) con altri dove il suo timbro vocale si impone con deciso carisma (She Bangs the Drums, This Is the One) mentre la chitarra di Squire – a cui si deve anche la bellissima e pollockiana copertina dell’album – connota ogni pezzo con dei vivaci ed eleganti fraseggi dai chiari rimandi sixties, a cavallo tra Beatles, Byrds e Jimi Hendrix, lanciandosi pure in qualche brillante assolo (Waterfall); infine, vi è la strepitosa sezione ritmica di Mani e Reni, il cui contributo viene ritenuto all’unanimità come il vero tratto distintivo degli undici brani che compongono l’opera. Infatti, se la musica in voga negli anni Ottanta aveva abituato gli ascoltatori a delle basi ritmiche spesso banali e sacrificate sull’altare dell’orecchiabilità, gli Stone Roses mostrarono come la facile presa di un brano non implicasse la rinuncia a una ritmica caleidoscopica ed elaborata ma lontana da qualsiasi forma di sterile e pedante virtuosismo. Il recupero del gusto per la melodia tipico degli anni Sessanta unito a quelle nuove tendenze (dal funky alla dance passando per lo shoegaze) che, di brano in brano, spingono la band in direzioni differenti rappresenta la chiave di volta che permette a The Stone Roses di apparire classico e originale allo stesso tempo e di comunicare all’ascoltatore una leggiadra solarità impreziosita da slanci psichedelici e vaghe inquietudini giovanili. Non c’è brano che si possa considerare un mero riempitivo: ma è evidente come pezzi quali Made of Stone, This Is the One e Waterfall costituiscano le felicissime vette creative della band, senza poi dimenticare I Am the Resurrection, che si apre a mo’ di marcetta e che, intorno alla metà, si trasforma in una jam session di pura e sfrenata fantasia, andando a chiudersi in modo a dir poco spumeggiante.
Nel novembre 1989, in occasione dell’uscita della versione americana, l’album viene arricchito con altri due brani assai significativi: Elephant Stone e, soprattutto, Fools Gold, distribuito in Europa come singolo, una magistrale cavalcata di funk e rock psichedelico di quasi dieci minuti dove Mani e Reni ribadiscono il loro straordinario estro attraverso una ritmica incalzante e ipnotica, con la chitarra di Squire e i sussurri vocali di Brown a suggellare quello che, a detta di molti, rimane il pezzo più bello mai realizzato dal gruppo e di cui qualche tempo dopo si ricorderanno i Primal Scream. L’anno seguente, il 1990, conduce gli Stone Roses alla massima popolarità, complici alcuni concerti di enorme successo tra cui l’esibizione del 27 maggio a Spike Island, ma da lì in poi comincia un graduale declino dovuto in larga misura alle complicate vicissitudini che funestano la produzione del nuovo album, Second Coming, che viene pubblicato solo nel 1994, con una scena musicale ormai completamente mutata. Ma questa è già un’altra storia.
A distanza di trent’anni risulta palese la profonda influenza che The Stone Roses ha avuto su numerosi gruppi, dagli Oasis ai Charlatans fino ad arrivare a Kasabian e Arctic Monkeys, ma è altrettanto lampante come nessuno di questi celebri discepoli sia riuscito a replicare la formula di un album che ancora oggi merita di essere apprezzato e degustato in tutta la sua magnificenza.
Francesco Biselli 22/05/2019
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