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Tabucchi, Petit e Caparezza: “Acrobati” di Daniele Silvestri

Mar 19

“E intanto, dal finestrino, guardava sfilare lentamente la sua Lisbona, guardava l'Avenida da Liberdade, con i suoi bei palazzi, e poi la Praca do Rossio, di stile inglese; e al Terreiro do Paco scese e prese il tram che saliva fino al Castello. Discese all'altezza della Cattedrale, perché lui abitava lì vicino, in Rua da Saudade. Salì faticosamente la rampa di strada che portava fino a casa sua” (Antonio Tabucchi, “Sostiene Pereira”)

Come tenere alto il livello d’attenzione dell’ascoltatore per 74 minuti? Come tenere alto il livello di musica e testi per 18 tracce? Domande che trovano risposta in una sola parola, “Acrobati”. L’ottavo disco di Daniele Silvestri, uscito per la Sony lo scorso 26 febbraio, è un prodotto pregiato, a metà tra lo scanzonato e il serioso, tra il gipsy e la canzone d'autore, tra l’ironico e il polemico, tra la favola, la metafisica e la riflessione.
Il cantautore romano dà l’impressione di aver tratto benefici su tutti i fronti dall’esperienza irripetibile – purtroppo – con gli amici Fabi e Gazzè. Parentesi: di “Maximilian” si è già parlato con l’oro in bocca nei mesi passati, e se tre indizi fanno una prova attendiamo il 22 aprile per l’uscita di “Una somma di piccole cose”. “Acrobati” è un disco ponderato, parola per parola. Già, le parole, da sempre pallino creativo di Silvestri. Calembour, esercizi alla Ou.Li.Po, cortocircuiti, cadenze e suoni piazzati con precisione chirurgica dipingono la sua tela impressionista. Parola è anche lingua che colora la musica, come nel “Bio-boogie” con i Funky Pushertz, il cui flow partenope è – a dispetto di alcuni millantatori del funky napoletano – convincente, coinvolgente, divertente.
“Acrobati” è un disco ponderato, nota per nota. È un succulento calderone musicale, che annovera strumentisti pregiati – tra gli altri Rodrigo D'Erasmo al violino elettrico, Daniele Fiaschi alla chitarra, Enrico Gabrielli al sax, Fabio Rondanini alle percussioni – e intarsia al meglio le 18 perle pescate da viaggi estivi, appunti e giri di accordi nati e imbrigliati su smartphone di straforo. Dopo “S.C.O.T.C.H", anche “Acrobati” si caratterizza per il cospicuo e proficuo girovagare di amici all’interno delle canzoni. La melanconia di Diodato calza perfettamente al gipsy di “Pochi giorni” e all'aria onirica di “Alla fine”. Le chitarre di Dellera impreziosiscono la ballata alcolica “L'ultimo bicchiere”. E poi c’è Caparezza con “La guerra del sale”, dove i potenti fiati guidati da Roy Paci – a proposito di ospiti – ricordano non poco la colonna sonora di “Whiplash”. Incredibile il testo, faticoso a seguirsi ma geniale in quello spiritoso “salerò”: inutile suggerirvi l'accostamento immediato che viene fuori.
“La mia casa” è una traccia d’apertura memorabile, una delle più riuscite se non quella più affascinante del disco. Un inno cosmopolita ma anche un inno alla radice che il viaggiatore si porta appresso, un inno a Roma, che rimane eterna seppur piena zeppa di controversie. Dagli echi tabucchiani dei versi dedicati a Lisbona e al suo netto opporsi alla “furba ammaliazione del progresso”, Silvestri traccia una mappa che parte da Marrakech e Berlino – “casino organizzato” dove niente è più com’era stato, figlia di un passato “fatto a pezzi come un muro” – e corre sul tufo di Favignana, sul muro a secco gallurese fino al Bataclan.
Tra storie di confraternite fantiane che si perdono in un bicchiere e pronostici ribaltati c’è spazio per la canzone socio-politica. “Quali alibi” offre, con tutta l’ironia del caso e con una sferzante vena caricaturale, lo spaccato dei nostri Palazzi, in cui regna “un governo di terza mano”, in cui “neanche posso non votare perché non votiamo”. “Monolocale” somiglia un po’ all’”Autostrada” di questo disco: le scale elettriche fanno da sfondo a un oscuro parlato sul sacrificio, che non è più quello di settanta inverni fa, sul difficile rapporto con il circostante che ci consuma pezzo per pezzo, costringendoci a chiuderci dentro.
“Acrobati” è la botte piena e la moglie ubriaca, è un disco che sazia, anzi, che non sazia mai. È un'opera matura che racconta la diatriba tra uomo e natura, con il primo, che è niente e tutto, impegnato a cavalcarla e scavalcarla, a inquadrarla e strutturarla con “campi cesellati” e “specchi d’acqua poi, come diamanti”. Allora meglio stare su, in alto, come faceva Philippe Petit, a cui la copertina di Paolino De Francesco forse allude nella rappresentazione di un confine labile, di un equilibrio sottile tra realtà, quella vissuta in “squallidi monolocali” con una pistola accanto, e fantasia, l’immersione nella continua e coatta sfida al filo più pericoloso di tutti, la quotidianità. “Uomo dell’aria, tu colora col sangue le ore sontuose del tuo passaggio fra noi. I limiti esistono soltanto nell’anima di chi è a corto di sogni” (Philippe Petit).

Daniele Sidonio18/03/2016

Foto in alto: Josh Wool

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