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“Schwarz auf Weiß” apre il FFF: le paure di Goebbels bianco su nero

Giu 01

Nel saggio del 1981, “Danse Macabre”, Stephen King spiegava che la paura è fatta di strati: al vertice, sta l’emozione più sottile e tutta mentale, ovvero il terrore; un gradino più sotto c’è l’orrore e, ancora più sotto, la repulsione. E, fra le storie più terrificanti di sempre, un posto d’onore lo occupano i “Racconti del terroredi Edgar Allan Poe. Storie di piaghe e deliri che prendono alla gola, sentieri dell’introspezione smarriti nella nebbia sepolcrale, apparizioni di spettri e altre creature dell’oltretomba nati da procurati aborti della mente. Non è stato Poe a immaginare per primo la morte, l’orrore, il sangue, l’occulto. Tutta la letteratura gotica di inizio Ottocento ne è invasa. Ma è stato lui a colpirci per primo, con un terrore che non ci aspettavamo. Perché i suoi protagonisti, come tutti noi, mentre si affrettano a dichiararsi sani di mente, lucidi, di buon senso, sperimentano incubi, allucinazioni, fantasie, che tradiscono un’attrazione inconscia per gli abissi della fffmalinconia, della perversità e dell’autodistruzione. Si lasciano corrompere volontariamente dalle piccole anomalie della realtà, commettono errori sapendo benissimo di averli commessi, indulgono nella colpa e nel piacere della macerazione, precipitando nelle oscurità della pazzia. Poe non ha vissuto oltre la metà dell’Ottocento, ma ha saputo guardare dentro agli orrori del nostro tempo: ha visto la febbre di vivere, la vergogna di fronte all’indicibile, l’incertezza del mondo che distorce gli ideali, la crudeltà, la paura. Ha anticipato l’inconscio nella scrittura e gettato un ponte verso tutta una tradizione di autori tormentati del Novecento che, come Thomas Stearns Eliot e Maurice Blanchot, nel tentativo di liberarsi dagli spiriti, ne hanno provocato l’assalto.
Il riferimento non è casuale. Perché, arrivato il 27 maggio al Teatro Argentina, in apertura della prima edizione del Fast Forward Festival (FFF), rassegna di teatro musicale contemporaneo ideata dal Teatro dell’Opera di Roma, con la direzione artistica di Giorgio Battistelli e la collaborazione di altre istituzioni culturali della capitale – l’Accademia di Santa Cecilia, il Teatro di Roma, Musica per Roma, l’Accademia di Francia Villa Medici – da vent’anni, “Schwarz auf Weiß” (Bianco su Nero) del compositore tedesco Heiner Goebbels gira i teatri di tutto il mondo avvalendosi dei testi di Poe (“L’Ombra. Una Parabola”), Eliot (“La terra desolata, I”) e Blanchot (“L’attesa, l’oblio”). Concepito già in origine per l’Ensemble Modern di Francoforte, lo spettacolo – una coproduzione col Teatro di Roma e il sostegno del Goethe-Institut Rom – prende vita dalla performance teatrale dello stesso organico che lo interpreta. Diciotto abilissimi musicisti (più un regista del suono) pronti a tutto, che agiscono sulla scena da attori/esecutori, suonando, cantando, recitando, danzando, secondo un’idea di fusione delle arti («no borderline between arts», da non confondersi col Gesamtkunstwerk wagneriano che predilige la totalità dei sensi, anziché il contrasto fra di essi), di assenza di confini di genere, di estraneità alle convenzioni del teatro tradizionale, su cui Goebbels lavora dalla fine degli anni Ottanta. In questa composizione sonora e gestuale (la definizione varia a seconda dell’accento riposto in ogni pezzo, da “teatro musicale” a “concerto scenico” fino a “installazione-performance”), dove lo spettatore è invitato a immergersi con la verginità percettiva dell’ascolto e della vista, la partitura stessa si presta a un gioco di commistioni che abbraccia tanto le ibridazioni “sperimentali” di John Cage (mediante la “transetnicità” di strumenti come il basso elettrico, il kodo giapponese, il didgeridoo aborigeno, il cimbalom ungherese, il campionatore e altre percussioni) quanto le incursioni free-jazz e progressive rock che destrutturano il suono fino all’estremo della sporcatura e del rumorismo. Da una fanfara di ottoni a una sinusoide elettronica, da un quintetto d’archi straniante (gli archetti “battuti” fff2contro le corde) al vocalizzo di una voce tenorile sinistra, dai suoni casuali procurati dal rotolio di sfere o da sfregamenti oscillatori involontari, la musica si asciuga man mano ampliando il senso di vuoto, alienazione, ossessione, che le paure e le debolezze generano in ognuno. Sulle scelte particolari del lavoro apprendiamo dallo stesso Goebbels: «giunse alla forma definitiva dopo una serie d’incontri fra me il gruppo che, all’epoca, furono spalmati lungo un anno intero»; chi assiste vede e sente «palle da tennis rimbalzanti su una grancassa, dolci suoni di kodo giapponesi, il sibilo di un bollitore tradotto in melodia per flauto, fiati uniti in una specie di banda all’italiana e avvenimenti fluttuanti in un potente disegno drammaturgico delle luci firmato da Jean Kalman». E, potremmo aggiungere, il tutto con l’effetto inverso di trasformare il declamato in qualcosa che si avvicina al canto senza mai diventarlo.
Del resto, per Goebbels, la lingua non è mai portatrice di un messaggio, anzi, più che il significato di ciò che viene detto, lo interessano il modo di parlare, il ritmo, il fraseggio e il suono della voce che esprime il concetto. Ma l’intreccio con i testi sopraccitati in varie lingue, letti soprattutto dalla voce registrata di Heiner Müller (drammaturgo tedesco cui “Schwarz auf Weiß” è dedicato), corrobora inevitabilmente il potenziale sensoriale della musica. Nel raccontino di Poe, per esempio, si narra come, ad un funereo banchetto fra amici spaventati e ammalati di peste, appaia un’ombra senza forma, che viene dal nero delle rive dell’Acheronte e parla con la voce di mille persone conosciute e ormai morte. L’idea di un dialogo con entità spirituali appartenenti a un altro mondo è, insomma, quanto mai adeguata a restituire l’atmosfera tesa e allucinata messa in scena dall’Ensemble. Ma c’è di più. Goebbels ha parlato di “Schwarz auf Weiß” come di un omaggio alla memoria di Müller, «una sorta di Requiem, ma realizzato con vitalità, humour e passione». L’umorismo al quale accenna è lo stesso che animava Poe, certamente triste e perennemente sgomento, ma anche capace di ridere, perlomeno di un riso sinistro e beffardo. L’ironia che solleva dalla pesantezza dell’evocazione mortifera dell’ombra fa infatti capolino più di una volta: quando alla fine di un infiammato assolo del sax parte della gigantesca cornice che sovrasta la scena crolla rischiando di finire sulla testa dei musicisti; quando l’allarme antincendio azionato a manovella innesca un’improbabile gag da cinema muto con impalcature di panche e scale; quando l’ottavino improvvisa un improbabile duetto col fischio del bollitore. C’è un momento, che scatena l’ilarità generale, in cui la voce narrante interrompe il suo monologo desolato («Voi che mi state leggendo siete ancora vivi, ma io che scrivo sarò da molto e molto tempo partito per la regione delle ombre») per abbassarsi all’imprecazione («Merda, non riesco a leggere senza occhiali!»): forse è la morte che si prende gioco di noi o forse siamo noi che tentiamo di gestirla, di esorcizzarla, di metterla “bianco su nero”, convinti di poter celebrare sempre la vita come unico valore.

Valentina Crosetto 01/06/2016

Il programma completo del Fast Forward Festival, in programma dal 27 maggio al 9 giugno, è consultabile al seguente link: http://www.teatrodiroma.net/doc/4269/fff-fast-forward-festival 

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