Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 638

Per un pugno di token: luci e ombre della prima data italiana dei Radiohead

Giu 21

Come loro nessuno mai. I Radiohead sono tornati e hanno fatto tremare un pubblico di 50mila persone radunato all'ippodromo di Visarno, Firenze. Fan della prima, della seconda e della terza ora, famiglie con bambini al seguito, ventenni che quando è uscita “Creep” non erano ancora nati, chi c'è perché “i Radiohead sono i Radiohead” e fanno bene tutto quello che fanno. La prima data italiana, dopo cinque anni, comincia come un sogno lucido, con centinaia di pulviscoli di luce bianca fluttuanti sul palco sulle note di “Daydreaming”.

Dreamers, they never learn, i sognatori non imparano mai. Sfidano il caldo afoso della Toscana di metà giugno, i controlli all'ingresso più aspri del solito, la polvere che si alza ed entra in gola, la fiumana di gente scomposta e schiacciante, le ore in piedi mentre la schiena chiede pietà, le bottiglie d'acqua senza tappo che, se non si spandono a terra, si fanno sempre più calde. Ma un live dei Radiohead vale tutte le pene, e bisogna arrivarci preparati. Così Junun, progetto di Jonny Greenwood, del cantante israeliano Shye Ben Tzur e del collettivo indiano Rajasthan Express Band, apre le danze alle 18.30. Ritmi di tamburi e drum machine creano un suono inafferrabile, dionisiaco, energico, fra Oriente e Occidente, elettronica e world music. La voce delicata del londinese James Blake, poi, rallenta l'attività cerebrale. Prepara al sogno con atmosfere oniriche e ambient, arrangiate con pianoforte, sintetizzatori e campionamenti che fanno chiudere gli occhi. Il pubblico si perde con “Retrograde” e si ritrova quando i Radiohead salgono sul palco puntuali alle 21.30, scardinando i ritardi da rock star. Buonasera, dice Thom Yorke. Un boato, giochi di luci e tre megaschermi che interagiscono con la musica, avant-garde senza fronzoli, inducono all'immersione e allo spaesamento psichedelico. “A moon shaped pool” domina l'inizio del concerto, ma “Ok Computer” è il festeggiato protagonista, che quest'anno compie vent'anni. Suonano mossi dalla divina grazia che li contraddistingue, ripercorrono la loro evoluzione, i mutamenti camaleontici e imprevedibili dei Radiohead, da cui dobbiamo sempre aspettarci tutto e il contrario di tutto. L'indie-rock di “The Bends”, il minimalismo elettronico e ossessivo di “Kid A” e “Amnesiac”, il rock sperimentale e cupo di “Hail to the thief”, il suono decadente di “In Rainbows”, l'indefinibile mistero di “The king of limbs” (“Pablo Honey” ancora latita nella data fiotentina). Rientrano sul palco due volte per regalare brani inaspettati, quei grandi classici che hanno reso i Radiohead anche un fenomeno, oltre che una grande band: “Paranoid Android” e “Street Spirit (Fade Out)” dominano il primo dei due bis.

Si spengono le luci su quelle ultime note quasi fantasmatiche, ma il gruppo ritorna sul palco per aprire un secondo e intensissimo encore con una “Lotus Flower” in stato di grazia che recita: “I will shrink and I will disappear” – incunearsi nel buio, nel silenzio, nel tempo passato e smuovere qualcosa, proprio come fa Thom Yorke con la sua incredibile estensione vocale. “Fake Plastic Trees” (improvvisata all'ultimo, non era prevista nella scaletta) e “Karma Police” compongono il dittico da lacrime con cui si chiude il concerto, questa volta per davvero.
Non sono i brividi per la voce di Thom Yorke, la scaletta toccante, gli effetti speciali di polistrumentisti che riescono a incantare, Jonny Greenwood su tutti (lui sembra non fare caso a ciò che succede intorno, ma poi si mette al piano, alle percussioni o suona una chitarra elettrica come un contrabbasso tirando fuori equilibri inimmaginabili). Sicuramente è anche tutto questo, ma non solo. I Radiohead hanno, loro malgrado, una responsabilità educativa non indifferente: proprio come un bravo maestro di cui molti travisano gli insegnamenti. Nei Radiohead si ritrova l'evoluzione di almeno vent'anni di musica, cambiati radicalmente al di là di ogni facile retorica. E i Radiohead sono qualcosa di molto simile all’eterno fluire: qualcosa in grado di cambiare senza imporsi isterici stilemi di avanguardia. Erano lì prima che le cose succedessero, erano lì durante l’uragano. Anzi, forse sono proprio stati l’uragano. Tra polemiche e meme impietosi che hanno legato questa prima data italiana dei Radiohead a un cattivo modo di intendere la compravendita dei biglietti (già abbondantemente palesatosi negli ultimi tempi), assistere a un concerto come quello di Firenze significa anche macchiarsi dello spirito del tempo. Significa immergersi nel divenire, nel presente magmatico, ma essere sicuri di reggersi anche a qualcosa di solido. E poi, magari, quando le luci si spengono e 50mila persone iniziano a defluire verso le uscite, chiedersi – legittimamente – che cosa ne sarà della musica, dopo.

Letizia Dabramo e Chiara Bravo 22/06/2017

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM