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“Pulviscolo”: l’esordio di Colombre che profuma di… teen spirit

Apr 05

Ascoltare “Pulviscolo” è come trovare una porta socchiusa e introdursi in una casa sconosciuta: verrebbe da togliersi le scarpe per non calpestare un universo così delicato. L’album in questione è quello d’esordio, uscito lo scorso 17 marzo per Bravo Dischi, del cantautore Colombre, nome d’arte di Giovanni Imparato che alle sue spalle ha l’esperienza con i ChewingumColombre5 e con la cantautrice Maria Antonietta. Otto brani dai titoli laconici, che seguono ciascuno una linea narrativa propria e fluida e sembrano parlare davanti a uno specchio, ma non in maniera autoreferenziale.
Limpido e onesto, “Pulviscolo” non divaga: parla di ciò che conosce e conosce ciò di cui parla. L’originalità di quest’album non è tanto formale, dal momento che affiorano con disinvoltura i riferimenti musicali del cantautore: dai Beatles a Caetano Veloso, per arrivare ai Talking Heads (“co-destinatari”, insieme alla compagna del cantautore, di “Dimmi tu”). “Pulviscolo” sembra parlare una lingua nuova ma non misteriosa: appare fresco e lineare, tra sonorità funky e strumenti al limite del ludico; persino l’artwork della copertina ha un’estetica lo-fi che ricorda le esercitazioni su Paint durante i laboratori di informatica delle medie. Solletica i ricordi adolescenziali – granitici e volatili al tempo stesso –, rasenta il naïf, ma senza cascarci dentro.
“Pulviscolo” si apre con il brano omonimo, in cui un rapporto fallimentare è raccontato con la serenità di chi accetta il casuale volteggiare e aggregarsi di atomi, che a volte si combinano in modo piacevole, a volte un po’ meno. In “Fuoritempo” la linea melodica pop dominante si apre verso accenni lisergici, soprattutto nel finale, e si palesa la paura di affrontare il futuro, in un tentativo di sfuggire al mostro che insegue, un po’ come il terrificante Colombre del racconto di Buzzati.
Ed è il turno di “Blatte”, il secondo singolo trainato da un videoclip in bianco e nero diretto da Alberto Gottardo e impreziosito dalla partecipazione di Iosonouncane. Uno che non ha bisogno di presentazioni e che “adorna” con i cori un brano già elegantissimo: il risultato è una strana commistione tra l’apparato melodico di una canzone leggera e le parole affilate, impregnate di delusione.

Anticipata da un intro arabeggiante e un po’ inquieto, "TSO" è come una “Killing An Arab” dei Cure suonata a tempo quasi scaduto. L’urgenza, infatti, è quella di raccontare la storia di un amico trascinato nel vortice degli psicofarmaci e invitarlo a tornare quello di un tempo: "E anche se non vuoi ricordare/ quello che sei stato e intorno a te/ è tutto cambiato:/ fregatene". Si varca la metà del disco con “Dimmi tu”, una dichiarazione Colombre1d’amore impalpabile e ironica che ipotizza gli scenari catastrofici in assenza della persona amata, richiamando alla memoria "Protobodhisattva" de I Cani.
Bugiardo” parla, in quello stile agrodolce che si inizia a delineare come proprio di Colombre, di ossa spezzate “per l’ennesima volta” e delusioni strettamente imparentate con i versi di “Deserto”. L’ultimo brano dell’album recita: "Se hai sbagliato mille volte/ fino a farti schifo/ arriva a un milione" e sembra prendere per mano l’ascoltatore per ricondurlo alla prima traccia e a quella strenua volontà di reiterare l’errore per dare coerenza alle cose.
Forse la canzone più emblematica è “Sveglia”, una sorta di soliloquio che si consuma tra le lenzuola, mentre fuori “il sole è già alto ed è ansiogeno”. Sferzate di tropicalismo colorano di vivide tinte carioca un brano in cui Colombre stuzzica l’ascoltatore e il suo retroterra musicale, rievoca i CCCP del trittico produci-consuma-crepa ma si interrompe proprio un attimo prima di cadere in una vacua nostalgia. E così, il verso si trasforma in “crepa, produci una crepa” che tramuta la militanza salmodiata da Giovanni Lindo Ferretti in pigrizia, ma non per questo senza peso. Colombre ritaglia profili, fotografa le ombre degli altri, parla di ipocrisia e amore e, alla fine, con un sorriso beffardo ammazza i suoi padri (per fortuna). A dimostrazione che con il passato bisogna dialogare, ma senza farsi sovrastare, rivendicando una legittima autonomia stilistica, lontano da briglie o megafoni che rischiano di incepparsi.

Letizia Dabramo 05/04/2017

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