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La delicata sensualità dei Nouvelle Vague al Teatro Parioli tra new wave e bossa nova

Ott 10

Dimenticate gli sferzanti accordi di chitarre taglienti, quei colpi di batteria forsennati, i ritmi “fuori” di sonore atmosfere cupe e depresse come rivelazioni esistenziali di una generazione che grida il proprio disagio virando totalmente dall’unica via seguita, fino a quel momento, da tutti gli altri. Era la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, epoca che forse, più di tutte, ha dato voce al tormento di anime sensibili che vedevano come unico mezzo di sfogo la musica. E così, tra degrado, pessimismo e non-futuro, il mondo veniva sconvolto dai vagiti punk che – con i Sex Pistols da apripista – come una fiamma bruciata troppo velocemente, si ripiegheranno su loro stessi, quasi in una naturale prosecuzione, verso l’inno new wave, dal linguaggio più stratificato, per guardare oltre un approccio musicale dominato da un senso di semplificazione. Precipitiamo in una voragine atroce alimentata da forze sonore molteplici, dalle sensazioni spettrali e angoscianti di quel “pallore” allucinato di Robert Smith, fin giù, in fondo, nell’angolo più dark dell’anima di Ian Curtis, nella sua fragilità e sofferenza, per un viaggio senza ritorno.
Immaginate, adesso, invece, un’oasi musicale dove tutte quelle contraddizioni trovano un’ideale e perfetta risoluzione, un nucleo di sensazioni malinconiche e profonde che vengono rivestite da una diversa sensibilità, nuovi andamenti armonici e stilistici che non già rivitalizzano quei “classici” – non ce ne sarebbe bisogno – ma li regalano al nostro orecchio in una forma inconsueta. È quello che dal 2004 fanno i Nouvelle Vague, gruppo francese che travalica i confini per vocazione: “nouvelle vague” come sovvertimento delle regole; “nouvelle vague” come tributo a una fetta di storia della musica declinata nel matrimonio con la bossa nova. Chi oserebbe, infatti, stravolgere alcune pietre miliari come “Just can’t get enough” dei Depeche Mode, “I wanna be sedated” dei Ramones, “Blue monday” dei New Order, o ancora “All cats are grey” dei Cure, per non dimenticare “In a manner of speaking” di Tuxedomoon, arrivando a “Love will tear us apart” di Joy Division e, addirittura, Brian Eno con “No one is receiving”? Capitanati dai due fondatori Marc Collin (tastiere) e Olivier Libaux (chitarre), i Nostri ne hanno dato sincera eNouvelle2 riuscita prova lo scorso 7 ottobre al Teatro Parioli di Roma all’interno del festival “Parioli Sounds”. E non importa se non siamo sulle spiagge di Rio, o tra i vicoli bagnati dalla pioggia di Manchester o nei dintorni del Sussex: è il momento che conta, un tempo che, fermandosi, scalda il cuore di quanti sono accorsi in un teatro che, per l’occasione, riesce a trasformarsi in ottima location stile club, intimo quel tanto che basta per farci sentire parte di qualcosa.
Sono suoni e visioni differenti quelli che ci avvolgono, già a partire dalla notevole opening act Sarah Jane Ceccarelli, italo-canadese, accompagnata dalla chitarra di Lorenzo De Angelis. Festeggia qui, a un anno di distanza, il suo primo album da solista “Colors”, ricamando una performance decisa, tenera e delicata in un misto di sfumature british imbevute dell’aroma di un’anima folk. E il passo è breve per l’entrata in scena dei Nouvelle Vague che aprono con “I could be happy” come un augurio per la serata. I brani si susseguono immersi tanto nei caleidoscopici giochi di luci quanto negli intrecci timbrici limpidi e languidi degli strumenti che ben si amalgamano alla voce “melliflua” e delicata di Mélanie Pain e a quella più corposa e sensuale di Julia Jean-Baptiste. Sono perfetti, lì, sopra quel palcoscenico; seducono, con divertita malizia, il pubblico che si lascia contagiare fisicamente da quello charme irresistibile. Re-inventando il concetto stesso di “cover band” – che qui non può assumere quel senso degradante di quanti si trincerano dietro un easy listening da domenica pomeriggio – tirano fuori la seconda anima, in tutti questi anni rimasta in ombra, di brani che, se da una parte, in un gioco di risonanze, fanno affiorare la voglia di andare a riscoprire gli “originali”, dall’altra determinano un inaspettato unkonwn pleasure di un brivido che corre lungo tutta la schiena. È percepibile un particolare legame tra palcoscenico e platea, un’intesa di quelle da vecchi amici che si ritrovano dopo diversi anni di assenza e arricchiti di esperienze che vengono riversate in alcuni brani originali, come “Maladroit” e “La pluie et le beau temps”, dalle tipiche sonorità melanconiche e disincantate da chanson francese.
Nouvelle3La cover è sempre qualcosa di rischioso, ma per fortuna qui c’è molto di più: il desiderio non certo di sostituirsi ma affiancarsi al modello originario, con amore, rispetto e umiltà per dare corpo a una metamorfosi musicale – un po’ com’era avvenuto quasi quarant’anni orsono con il punk – per mantenere vivo un impianto energico e passionale di fare musica alla propria maniera. Chapeau ai Nouvelle Vague per un live fantasioso, pulsante e autentico. Ci consegnano un’esperienza preziosa suggellata da un ultimo abbraccio, proprio letterale, tra noi e loro, uno “sciogliersi” l’uno negli altri sulle note di “I melt with you” che consola e che, come in un “fermo-immagine” tra i più belli della musica – alla Truffaut ne “Les 400 coups” – diventa ricordo da portare per sempre con sé.

Marco La Placa 10/10/2017