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Nella Magic Forest dei Satoyama la musica gioca con la natura per farsi etica dell'ambiente

Mag 26

Ascolta la natura e abbandonati alla sua sinfonia, dove gli elementi convivono nella loro unicità, senza ridursi l’un l’altro in una sintesi. L’uomo si sforza di imitarla, da sempre, è il suo istinto primordiale: dare un nome alle cose e riprodurle per dominare il mondo. Raramente ci riesce, ma non cede, non può, e si sforza di realizzare l’impossibile, proprio perché sa che è impossibile. Satoyama è questa tentativo: quattro strumenti, quattro musicisti con quattro poetiche differenti della musica che, come i quattro elementi della natura, cercano di unirsi e mantenersi nella loro distinzione in una sola idea, l’album “Magic Forest”.
Una foresta di simboli dove l’ascoltatore si avventura in un viaggio musicale evocativo, curioso di cogliere ogni particolarità, ma destinato a perdersi nella sua sinfonia. È questa la magia di cui parla il titolo: rendere indistinguibile la biodiversità che la compone, come nella musica fa un’orchestra sinfonica. Non è jazz e non potrebbe esserlo, perché qui non c’è nessun solista che spicchi rispetto al collettivo, né tracce di alcuna improvvisazione. “Ogni nostro brano è arrangiato in ogni singola nota”, dice il trombettista Luca Benedetto, “perché il nostro obiettivo è inserire la diversità all’interno di un sound riconoscibile e scomparire in esso”.
Una band nata nel 2012 ad Ivrea, passata attraverso palchi italiani ed europei, creatrice di numerose colonne sonore e giunta al terzo album in studio, in uscita per Auand Records e distribuito da Gooffellas. Una tromba, una chitarra elettrica, una batteria e un contrabbasso, strumenti accordati secondo una scala ideale comune, l’ecologia: “c’è un forte impegno politico nella nostra musica”, dichiara ancora Benedetto, “perché non si può più ignorare l’agonia del nostro pianeta”.
Una foresta magica che si fa grido di denuncia nel quale ogni brano richiama ad una questione ecologica, dando valore ad ogni melodia, ritmo e modulazione.
È così che nascono brani come “Plastic whale”, dove la tromba è il canto sinistro di una balena che arriva a stonare quando la batteria disegna il ritmo sincopato dell’incedere inesorabile di una nave minacciosa. O “Winter rise”, nella quale la spazzola jazz rimbalza sul rullante della batteria come grandine sul terreno coperto di foglie autunnali che solo la tromba interrompe, dilatandola in un vento invernale capace di addensare nubi oscure che suonano nella cupezza gelida di un contrabbasso, pizzicato per far gemere il metallo delle sue corde.
Ma forse è “Dry land” il brano che maggiormente riporta lo spirito dei Satoyama: l’accordo costante di una secca chitarra elettrica scatena un uragano post rock all’interno del quale, come all’interno dell’occhio di un ciclone, un’indignata voce femminile recita i dati drammatici della desertificazione globale, elencando tutti i deserti formati ed estesi nel corso del XX secolo, in un lungo epitaffio.
Suggestioni che i Satoyama decidono di raccontare anche oltre la musica, arricchendo il libretto di racconti brevi firmati dalla scrittrice e attivista Lucia Panzieri.
Magic Forest di Satoyama è la magia dell’arte che non simula la natura, ma si fa natura, facendo scomparire in essa ogni traccia umana, per poi farla riemergere con il vigore di una contestazione etica.
Non è il primo, né sarà l’ultimo di questi sforzi. Ma “Magic forest” sembra avere una forza determinante, un’esigenza impellente che lo fa nascere e lo spinge in ogni sua nota, quella dell’ecologia: come entrare in silenzio in una tenda Tuareg e ascoltare i Radiohead e Bill Frisell discutere del riscaldamento globale con il loro linguaggio preferito, la musica.

Alessio Tommasoli

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