Il motivo per cui la gente compone poesie liriche e canzoni blues sta nel fatto che la vita è breve, dolce e sfuggente. Il blues dà prova della stranezza del di ogni destino individuale
(Charles Simic)
Sommiamo le riflessioni, le distrazioni, i desideri, insieme alle promesse che abbiamo gradualmente seminato dalle nostre finestre e che speriamo di veder sbocciare come la primavera, potente e indisturbata, che c’è lì fuori. Quelle di essere migliori, per qualcuno. E quelle di riabbracciare una normalità che, nonostante non fosse la migliore mentre l’attraversavamo già da prima con onesta inconsapevolezza, adesso ci appare come la più fulgida delle luci in fondo al tunnel. Per qualcun altro.
Ai secondi va concesso uno slancio di compassione e comprensione. Ai primi, invece, un certo grado di ammirazione, perché probabilmente hanno saputo in questo tempo forgiare degli strumenti capaci di farli lavorare con maggiore fantasia e coraggio, in virtù di una presunta tela bianca sulla quale finalmente abbozzare, un domani, una nuova combinazione di colori. Qualcosa di simile, insomma, a quel mondo che hanno, probabilmente, sempre covato dentro di loro, ma che ancora non aveva saputo farsi strada attraverso le paure e le incertezze. Abbastanza da aprirsi uno spiraglio di luce, fermandosi sempre un attimo prima delle proprie orbite oculari. Anche lì dietro gli occhi, insomma, un intero mondo in quarantena.
Forgiare nuovi strumenti, è la soluzione, quindi. E per farlo occorre il tempo giusto, la cadenza giusta, il passo giusto. Un po’ come insegna il ciclo naturale delle stagioni, che è un po’ quello ambito dalle nostre emozioni e dai nostri pensieri. Occorre, pertanto, una certa primordialità si suoni.
Il blues, in questo senso, è qualcosa di più che una pura e semplice etichetta schiaffata per identificare un certo periodo storico, una certa condizione umana, un certo colore della pelle, un certo tipo di catene. Il blues è espressione stessa dell’anima nella sua costante ricerca di una “redenzione” che possa elevarla, porla al di sopra del tangibile, dove tutto improvvisamente risulta più chiaro. Un piccolo libretto d’istruzioni, se vogliamo, per imparare a muoverci all’interno del nostro piccolo/grade universo personale, dove le emozioni hanno la capacità un attimo prima di elevarci e quello dopo di affossarci. Ma sono sempre, in qualche modo, rivelatrici. Come i demoni con i quali sentiamo costantemente di dover combattere, quando invece basterebbe ascoltarli: in fondo, sono semplicemente lì a regalarci un’opportunità in più, ogni volta, per abbracciare una nuova consapevolezza.
Quella che, presto, ci servirà lì fuori, se non vorremo più commettere certi vecchi errori.
REDEMPTION (2018) – Joe Bonamassa
La tradizione più classica, dolce e poetica insegna: 12 misure su pentagramma, ritmica shuffle (letteralmente, trascinato). Un ciclo costante e ridondante come un treno che non smette mai di andare sulle rotaie, per dove non si sa. E nemmeno ai grandi maestri del genere deve essere importato granché: dai Robert Johnson ai BB King, a fare rumore fin dentro le ossa era ben altro, e il bisogno di redimere se stessi dall’oppressione era più di una necessità. Uno spirito che, tramandato di volta in volta, ha imparato anche a fare i conti con il mercato e a giungere sino a noi nell’espressione più moderna del blues. Joe Bonamassa, fra tutti in questa nostra epoca, è sicuramente colui che ha saputo sublimare al meglio, nel corso della sua prestigiosa carriera, quelle armonie e melodie figlie della musica afroamericana, condite di blue note (trasmessagli probabilmente dallo stesso BB King, con il quale ebbe la fortuna di condividere il palco già all’età di 12 anni!), e l’hard rock più genuino, non avulso all’occorrenza da sfumature pop. Redemption (J&R records) si configura cronologicamente come il tredicesimo album in studio da parte del virtuoso chitarrista e cantante statunitense, e nasce con una chiara e netta dichiarazione di intenti da parte dello stesso Joe: «Tutti abbiamo bisogno di essere redenti a un certo punto della nostra vita. Rendere questo album, inconsapevole per me, mi ha fatto iniziare questo percorso di redenzione. Si può obiettare che sia andato avanti a calci e urla, piuttosto che volontariamente. Musicalmente spero che soddisfi le vostre aspettative, emotivamente spero che ti incoraggi ad affrontare i tuoi difetti e ad uscire dall'altra parte più felice e più sano».
Il tiro di Evil Mama (traccia di apertura dell’LP), detta il passo pesante, quello con il quale si è soliti fare i conti all’inizio del viaggio, quando ci si carica in spalla non solo lo zaino, ma anche tutta la determinazione possibile. Chitarre a volte “grasse” e a volte più pulite (saltando da una Gibson a una Fender), riff incalzanti, linee melodiche sostenute da un’altrettanto massiccia sezione ritmica, sono il biglietto da visita anche di brani come King Bee Shackdown e Molly O, ai quali si aggiunge la cadenza old school di altri come Pick Up The Pieces, I've Got Some Mind Over What Matters, Love Is A Gamble, e le suggestioni di una ben più aperta Deep In The Blues Again, una cavalcante The Ghost Of Macon Jones e tutta l’intimità acustica di Stronger Now In Broken Places.La voce di Bonamassa si accompagna, per tutto il disco, in maniera solida ai messaggi racchiusi nei suoi testi, dove il “tempo” viene presentato come disconosciuto custode della chiave per la redenzione finale. Una volta raccolti i propri pezzi e lasciato il passato alle spalle.
Self-Inflicted Wounds e la title track sono le due perle di questo pregevole prodotto rock blues, racchiudendo di fatto tutta la sintesi del viaggio che siamo chiamati a compiere, secondo il bluesman di Utica. Insieme al tappeto dei cori, le voci di tutti gli altri strumenti si fanno grezze ed essenziali, accompagnando tutto il significato dell’accettazione e della voglia di rinascita a cavallo di sonorità che, come onde del mare, riempiono e svuotano l’aria. Quasi un rito solenne tipico del blues, come una preghiera silenziosa prima dell’ “Allejua” liberatorio finale.
E’ il miglior Bonamassa di sempre a fornire con Redemption un briciolo di segnali, di indicazioni lungo il percorso di questa così (apparente) tribolata redenzione, così pieno di inciampi e fatica. La musica risulta essere, pertanto, una compagna fedele e maestra quasi necessaria per affrontare momenti come questi, che alla fine fanno parte di quell’unico, grande attraversamento che siamo stati chiamati tutti a compiere, in un modo o nell’altro. Diventarne padroni consapevoli è il segreto, nascosto dietro le note.
Jacopo Ventura, 27/04/2020