“Si vivesse solo d’inizi, di eccitazioni da prima volta”, il concerto del 22 maggio all’Auditorium Parco della Musica di Roma, sarebbe il modo giusto per iniziare al meglio la settimana, ogni settimana.
Protagonista di questa onirica domenica sera è Niccolò Fabi, autore di una delle più poetiche raccolte musicali sfornate da questo ribollente 2016 e al timone di un’esibizione che rasenta la perfezione musicale ed emotiva.
Il buio è l’elemento centrale della semplice scenografia, che con esso gioca creando effetti luminosi e scambi di colore, che lo rende cornice di note sprigionate dalla forza di una singolarità perfettamente inserita nella totalità di una band.
Niccolò apre il concerto mostrando «le sue analisi del sangue», infilando le prime sei tracce dell’ultimo disco una dopo l’altra, senza interruzioni né parole superflue. “Una somma di piccole cose”, “Ha perso la città”, “Facciamo finta”, “Filosofia agricola”, “Non vale più” e “Una mano sugli occhi” ci intrappolano nella loro bellezza interiore. Solo dopo questa generosa confessione iniziale il cantautore romano fa sentire la propria presenza umana e inizia a guidarci all’interno di questo show che show non è, anzi proprio l’opposto. È un concerto in cameretta, un’esperienza privata e personale tra grandi successi e prime canzoni, tra ricordi di avventure con compagni di vita e di esperienze che invece la vita l’hanno segnata. Si viaggia in singolarità collettiva nella carriera e nella maturazione artistica del musicista, dagli esordi di “Ostinatamente” e “Lasciarsi a Roma” alle più recenti “Una buona idea” o “Ecco”, passando per una trascinante “Oriente” e una toccante “Il negozio di antiquariato” per voce e pianoforte. Fabi non parla tanto, ma scherza e dialoga con il suo pubblico emanando modestia e semplicità da ogni poro e mostrando al mondo quello che dovrebbe essere un vero artista: qualcuno che la musica non la declama ma la fa, che trasmette non con le apparenze ma con i testi, che emoziona non con gesta epiche e cannonate di coriandoli ma con sonorità e armonie.
Le sue canzoni sono storie di vita e pensieri sul presente che rimangono in bocca lasciando un sapore agrodolce: è un uomo che sa dire quello che noi non siamo in grado di esprimere. È uno di quei preziosi intagliatori di emozioni che sa incidere le frustrazioni, i sentimenti e le riflessioni che sono dentro tutti noi, trasformandole però in qualcosa di propositivo e stimolante. Canta certamente la sofferenza, i disagi di un mondo sull’orlo della bancarotta spirituale, di un’umanità che tante volte “dalle formiche ha imparato solo a mettersi in fila”. Ma riesce ad andare oltre, a fare quel passo in più che permette di guardare al di là della tempesta e della crisi totalizzante dell’oggi.
Perché, in fondo, “abbiamo due soluzioni: un bell’asteroide e si riparte da zero o una somma di piccole cose”. Sono spesso minuscole, nascoste, sotterrate: ma ci sono, e sta a noi lasciarne esplodere la bellezza e farne linfa vitale.
Ci piacerebbe rimanere lì in eterno, su quella poltroncina rossa, in quell’acustica meravigliosamente impeccabile, in quella trance che ci fa quasi dimenticare la molestia delle persone che ci circondano, a volta troppo impegnate a fare video, foto, audio, dirette streaming e tweet per lasciarsi trasportare da questa marea purificante.
Eppure servirebbe proprio estraniarsi ogni tanto: per ristabilire priorità e valori, per comprendere un po' meglio le cose fuori dalla frenesia del quotidiano, per regalarsi del tempo e dello spazio da riempire di sogni e speranze.
“Allontanarsi è conoscersi”. Non serve farlo troppo, non sempre, non ossessivamente: ma ogni tanto sì. Perché la vita non è una poesia, ma non deve neppure essere un post-it da strappare dal frigorifero: “in mezzo c’è tutto il resto, e tutto il resto è giorno dopo giorno, e giorno dopo giorno è silenziosamente costruire”.
Giulia Zanichelli 25/05/2016
Foto: Mariangela Savino