Nel centenario della nascita di Peter Maag, domenica 12 maggio il teatro Regio di Torino ha voluto ricordare il maestro d’orchestra con un concerto diretto da Sergey Galaktionov. La serata si è aperta con la Sinfonia n.1 in Mi bemolle maggiore di Mozart, seguita dal Concerto per violino e orchestra n.5. Queste sono due opere composte a nove anni di distanza, la prima quando il compositore austriaco aveva 9 anni, l’altra quando ne aveva 19. L’accostamento di queste due creazioni testimonia in maniera chiara l’evoluzione del bambino in giovane adulto. La sinfonia è semplice, lieve, la seconda, invece, un esempio delle maturate capacità compositive di Mozart, in una elaborazione inattesa e insolita di temi. L’orchestra del Teatro Regio, formata da pochi fiati, solo quattro, interpreta al meglio la raffinatezza della prima parte e, subito dopo, diventa il sostegno e il controcanto ideale del violino, protagonista del concerto. In questa seconda parte l’orchestra diventa un’unica forza musicale in grado di dialogare con il solo, ma centralissimo, quasi assertivo Galaktionov. Ed è proprio nella direzione e nell’esecuzione del concerto che il maestro dà una prova superba. Impossibile è astrarsi dalla realtà, limitandosi ad ascoltare la musica, impossibile infatti esimersi dal guardare Galaktionov alternarsi tra il ruolo di maestro e di musicista. Cogliamo tutta la sua capacità di rimanere fedele al suo ruolo di maestro, senza tradire l’estro del musicista. L’orchestra sembra lasciare spontaneamente, ipnotizzata dal violino, lo spazio ed il tempo a delle cadenze di eccezionale straordinarietà tecnica, che lasciano entrare di nuovo, a piccoli passi, il lirismo, solo apparentemente, latente nella musica di Mozart. Noi ascoltiamo un dialogo tra l’orchestra e Galaktionov che non è a senso unico: l’orchestra non è succube di nessuno, ha una sua identità, che, infatti, non ci fa rimpiangere la mancanza di un solista nella prima parte. Quando il solista arriva, essa lo accoglie, lo illumina, senza intenzione di sottomissione.
Ed ecco l’intervallo, necessario per riprendere fiato e apprezzare il cambio musicale: il programma mette la platea di fronte ad un requiem personale di Sostakovic. Il fil rouge di questa opera è un tema composto da quattro note, Re, Mi bemolle, Do, Si, che nella notazione tedesca, DSCH, formavano l’anagramma delle iniziali del compositore: un epitaffio, dunque, ma anche un testamento, una preghiera verso le vittime dei totalitarismi. Alla fine, Galaktionov confessa al pubblico la sua fatica, non solo fisica, ma anche mentale, nell’eseguire la sinfonia da camera in Do minore del compositore russo, scritta per un quartetto, ma qui riadattata per orchestra. Ed una certa fatica è sentita anche dal pubblico, nel vedere gli archetti del Regio furiosi e puntuali. La direzione di Galaktionov guida con precisione ed efficacia una interpretazione magistrale poiché impeccabile e comunicativa. Il bis finale, una romanza, quasi fosse un momento catartico dopo la tragedia, riporta la pace, solleva gli animi. Proviamo serenità nel pensare che anche Sostakovic, di cui, nella sinfonia, sentiamo tutto il senso di colpa, il dolore, potesse vivere momenti di tranquillità. Il superbo canto del violino di Galaktionov intona una poesia musicale, sul tappeto di 23 archi che pizzicano con leggiadria e morbida precisione le corde.
Laura Caccavale, 14/05/2019