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Festa della Musica di Mantova: poesia del suono, cultura del tempo e di piazza

Giu 21

Basta un semplice suono emesso dal centro di una piazza. Al netto della pioggia improvvisa che ha inzuppato le scarpe estive di chi aveva decisamente sbagliato stagione, ritardato le esibizioni serali e spaventato tanti, fuggiti dalla zona monumentale prima che facesse buio, la Festa della Musica di Mantova è stata estremamente rincuorante. Giovani artisti, idee nuove, atmosfera piacevole e una location ammaliante e precisa come il tailleur di una bella signora.
Già dal primo pomeriggio la città pullula di musici che un po’ spaesati cercano il loro palco con gli strumenti in spalla. Turisti e locali sono già in strada a gustarsi la parata militare. C’è chi sa già dove andare e chi si perde nei vicoli del centro gonzaghiano inseguendo il profumo di fiori, uno scorcio da fotografare, un angolo da ricordare. Mantova è innanzitutto cultura. Cultura del tempo e di piazza. Non c’è frenesia, c’è pulizia. Non c’è fretta – e così nessuno è in ritardo – c’è gentilezza. Tra le vie assolate si trova il tempo di osservare i mosaici un po’ ingrigiti, simboli di fasti antichi e delle indimenticate origini etrusche. Le balconate da un portico all’altro quasi si sfiorano, come le teste di due amanti che placidamente si litigano il lembo del cuscino. Il pavimento rossiccio si alterna alla pietra, che calda pungola e affatica le piante dei piedi. Il sole picchia ancora forte, e prima di tuffarsi a piedi pari nella musica c’è tempo per salutare Virgilio e gironzolare nella sua verde, immensa e umida piazza. È qui che trionfa la stasi, ci si gode ogni singolo filo d’erba dove, nascosta in mezzo ai fiori, sta l’ispirazione. Qualche giovane coppia ancora si ferma ad apprezzare un momento, lasciando a casa, per una volta, il marcescente e frenetico andirivieni quotidiano. Tra quei fili d’erba c’è anche il tempo di sorridere, mentre un gruppo di bambini gioca a piedi nudi. Sono in quattro ma ne arriva un quinto che chiede di aggiungersi. Gli altri accettano ben volentieri: è il tempo della condivisione e del divertimento, dell’innocenza.
Tra un gazebo pieno di libri e gli stand degli espositori, in piazza Sordello troneggia il palco più grande della Festa, dove canterà Barbarossa, dove Pedrini omaggerà gli Area e Piero Ciampi. Più in fondo sta silenziosa la casa del Rigoletto, quel buffone di corte che Verdi riprese da Hugo e trapiantò nell’ansa del Mincio. Qui si alternano artisti provenienti dalle zone più disparate del Bel Paese, raccolti nella grande etichetta di “cantautori pop”. Ognuno porta una storia particolare, raccontata attraverso tre, quattro o cinque brani. Incontriamo l’eterea Marlò, Francesco Costantini e le sue storie di frontiera marsicana, il blues romanesco di Davide Finesi. In un angolo, stipato e ben nascosto dalle sovrapposizioni acustiche che ogni tanto si riversano nelle altre piazze, sta il palco jazz, necessariamente avvolto dalla quiete di un sagrato. C’è il tempo per sedersi e ascoltare le altalene di un pianista e gli sfoghi pizzicati di un contrabbassista. Mantova si raccoglie e si ordina geometricamente attraverso i colonnati sottili. Tra piazza Marconi e piazza Mantegna corre una piccola lingua di pietra, e capita allora che l’etno-folk di Eugenio Bennato suonato sotto la volta della chiesa per ovviare alla pioggia si confonda di lontano con le schitarrate e gli acuti lanciati tra un caffè e l’altro.
Il temporale dell’ora di cena disperde l’entusiasmo e preoccupa, abbassando le temperature a livello autunnale. Ma concede il tempo di ricaricare le batterie con uno spritz o un par di birre. In piazza Marconi il programma è allettante, e l’occasione è troppo ghiotta per non decidere che quello sarà il palco che osserveremo finché le luci si spegneranno e gli amanti là in alto andranno a dormire. È d’altronde difficile seguire tutto, nemmeno per i più prossimi all’ubiquità. E come con i compagni di sbronze, alla sera va fatta una scelta e bisogna decidere se passare la notte con l’indie dei Kutso, il folk calabro di Peppe Voltarelli ai piedi del castello di San Giorgio, o con la sperimentazione dell’Officina Pasolini. Cantautori e cantautrici, interpreti e menestrelli: è come una busta di caramelle, è gustoso chiudere gli occhi, pescare a mano aperta e sorprendersi per la varietà di generi inanellata sul palco. L’idea della bottega si confà perfettamente allo spazio rinascimentale in cui si esibisce. Gabriella Martinelli scalda l’anima con il suo timbro intenso e la sua testa un po’ storta a sedurre il microfono. Toto Toralbo e i MiniMali portano in piazza i vocalizzi partenopi e l’immaginario carnevalesco. Caccavale-Pirozzi duo sprigiona un jazz a tratti celestiale, mentre Fabia Salvucci viaggia nella tradizione yiddish (così farà anche Tosca, con esito imponderabile), immergendo il pensiero nella Mantova orientale. Carlo Valente nasconde il tema dell’immigrazione nelle plettrate mancine della fantasiosa “Crociera Maraviglia”. Naelia invece trasporta tutti nella sua vasca sintetica con un ossessivo leitmotiv in tastiera condito da orgasmici ritornelli. L’aria sbarazzina di Marta Lucchesini – in arte Marat – è contagiosa quanto il ritmo della sua “Urgenza particolare”. Rosso Petrolio prima accompagna l’ugola gentile di Simone Ferrante e poi si mette in proprio, sfoggiando un intimismo che si consuma tra arpeggi secchi e acuti grattati.
Le giovani menti dell’Officina sono guidate da Tosca e Pilar, che chiudono la carrellata di talenti con un’esibizione da panico. Peccato che in prima fila a prendere appunti non ci siano le urlatrici catodiche dei nostri tempi. Capirebbero sul serio cosa significa usare davvero la voce per emozionare. “Allora io lo propongo per non fare confusione, a chi ha meno di cinquant’anni, di spegnere adesso la televisione”, cantava Niccolò Fabi in un suo famoso brano. Spegnere la televisione e scendere in piazza, consiglia Pilar, puntando il dito contro il “copia e incolla” che appiattisce e omologa. Eccola di nuovo la poesia del suono, eccola ancora la cultura di piazza. Tosca poi mette in fila tre perle assolute: “Prisencolinensinainciusol”, un canto da sposalizio yiddish e “Il suono della voce”, scritta per lei da Ivano Fossati. Là in alto gli amanti, che avevano smesso di litigare per quel lembo di cuscino, voltano lo sguardo e tendono il cuore. Mantova si risveglia, la piazza si affolla e gli applausi riempiono la via. Qualcuno accenna un ballo, una giravolta, ma tanti rimangono lì, immobili, ipnotizzati dallo sguardo passionale e dall’energia con cui Tosca illumina la pedana.
Dopo la frettolosa performance degli STAG – l’ora è tarda, tutto si accavalla e lo show perde forse un po’ di profondità – sono ancora tre donne a calcare il palco Marconi. Chiara Dello Iacovo nasconde la grinta sotto la bandana rossa e in versione acustica regala un’ode al “Signor Buio”, che ormai avvolge pietre e portici come una grossa coperta impolverata, la sua hit “Introverso”, “La mia città” e la più “introversa” “Soldatino”. Chiara Vidonis gratta le corde della sua chitarra per ondeggiare in un rock eterogeneo, mentre con il suo “pop simpatico con venature tragiche” Irene Ghiotto spegne le luci della Festa e rimanda la poesia a chissà quali altri tempi. Lassù in alto gli amanti trovano così posto sul cuscino, e la giornata va a dormire lasciando spazio solo a una bottiglia di birra mezza vuota e a qualche gatto acquattato sul ciglio della strada.
Al netto della lieve dispersione umana che un’offerta così variegata forzatamente comporta, la Festa della Musica di Mantova è stata una giornata – e peccato, che sia stata soltanto una – che chi vive la musica ha senz’altro apprezzato, comprendendo ancora una volta quanta poesia si nasconde dietro un semplice suono emesso da una pedana al centro di una piazza.

Daniele Sidonio 21/06/2016
Foto 3 e 4: Siae Twitter

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