Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

Print this page

Ezio Bosso incanta il Parco della Musica con “The 12th Room”: la vita in dodici stanze per pianoforte

Mag 10

«C’è una teoria antica che dice che la vita è composta da dodici stanze. Sono le dodici in cui lasceremo qualcosa di noi, che ci ricorderanno. Dodici sono le stanze che ricorderemo quando passeremo l’ultima. Nessuno può ricordare la prima stanza perché quando nasciamo non vediamo, ma pare che questo accada nell’ultima che raggiungeremo. E quindi si può tornare alla prima. E ricominciare» (Ezio Bosso).

Che cos’è una stanza? Un rifugio, un nido protettivo, un prolungamento del proprio io dove sentirsi al riparo dallo spazio circostante e lasciare il mondo fuori? Oppure uno spazio della mente possibile soltanto a patto di aver conquistato la propria libertà intellettuale? O, ancora, una gabbia munita solo di finestre e chiusa dall’esterno in cui perdersi totalmente per guardare senza essere visti, per viaggiare senza muoversi? Esistono stanze che ospitano giornate intere o solo brevi istanti, che contengono sogni e paure segrete, che liberano dai pregiudizi e dagli eccessi. Alcune si condividono, altre si custodiscono gelosamente come alcove inespugnabili dello spazio fisico e mentale. Diamo loro nomi, numeri, per affermarvi dentro la nostra identità, ma non pensiamo mai a quel che significano veramente. Hanno suoni, odori, colori così importanti per la bosso2nostra esistenza da apparire perfino scontate. Eppure, al loro interno, si consumano storie, si raccolgono oggetti, si vivono momenti tristi e allegri. Ezio Bosso, compositore, pianista e direttore d’orchestra di fama internazionale, lo sa bene. In Inghilterra, sua patria d’adozione da tempo, stanza vale prima di tutto per “spazio”: «in una via di Firenze c’è una targa che dice: “qui il 25 aprile la libertà ha preso stanza”; anche Bach scrive stanze; e poi c’è un libro misterioso ripudiato dal buddismo tibetano, apparso e scomparso nel corso dei secoli, che si intitola “Le dodici stanze”: dice che non viviamo un tempo, ma uno spazio».
Quando l’imprevedibilità del destino l’ha costretto a fermarsi, a rinchiudersi dentro una stanza «troppo grande perché il suo corpo potesse percorrerla tutta e troppo piccola per contenerlo», la sua ostinata volontà di trattenere il tempo e di fermarlo con la musica è stata talmente forte da indurlo a raccogliere un’opportunità soltanto sfiorata fino ad allora: incidere un disco, il primo di una carriera precocissima e costellata di successi, dopo la nomination ai David per la colonna sonora di “Io non ho paura” e “Il ragazzo invisibile” di Gabriele Salvatores, le collaborazioni con Mario Brunello e Sergej Krylov, la direzione artistica della London Strings e il concerto dell’aprile 2014 alla Ikon Gallery di Londra che “The Arts News Paper” ha definito «l’evento artistico dell’anno in Regno Unito». Doppio album per piano solo uscito a ottobre 2015 per l’etichetta Egea, composto da undici brani nel primo (quattro inediti e sette di repertorio pianistico) e dalla Sonata n. 1 in sol minore nel secondo, “The 12th Room” rappresenta, dunque, un piccolo ma intenso itinerario meta-narrativo tra le stanze comunicanti della sua formazione o, se vogliamo, l’anticamera che prelude al flusso dilatato, incessante, malinconico, dei tre tempi della Sonata. Un lavoro magnifico in cui compositore e interprete convivono felicemente, che racconta la ciclicità della vita umana, della necessità di perpetuare ogni attimo nell’eternità di una nota, di rubare il tempo per dissolverlo («ho smesso di soffrire quando ho cominciato a perdere tempo. Diamo sempre un’accezione negativa al verbo “perdere”, ma non è così: sono da perdere più le cose buone che quelle cattive. Perdete più che potete»). Storie di stanze che fanno parte dell’esperienza di Bosso e di altri maestri del passato, che l’hanno liberato dalla prigione della sua malattia per ricongiungerlo col potere incantatorio e vivificante della musica. E che, nel farlo, regalano anche a chi ascolta gli strumenti per farsi attrarre dalla stessa intima essenza. Già, perché il ritorno di Ezio Bosso lo scorso 7 maggio nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica, a poche settimane dal trionfale concerto di presentazione del disco del 12 aprile (un terzo si terrà il 19 giugno), non è soltanto il raddoppio romano di un tour sold-out praticamente a ogni tappa, ma la riaffermazione di un talento non comune della tastiera, che ogni volta si approccia allo spartito come fosse la prima, con l’entusiasmo dilagante dell’esordiente e la sensibilità interpretativa del professionista navigato. Insieme all’inseparabile Pianoforte Gran coda Steinway & Sons della collezione Bussotti-Fabbrini, appositamente preparato sulle specifiche del maestro da Piero bosso1Azzola (e completo di sgabello versatile chiamato “12”, nato dalla collaborazione con l’architetto Simone Gheduzzi), Bosso ha così eseguito i dodici brani di “The 12th Room” quasi senza sosta, alternando sonorità contemporanee (fondamentale la lezione di John Cage e Philip Glass) ad atmosfere impressionistiche e romantiche, tipiche del pianismo tradizionale. Dai rivoluzionari preludi del “vecchiaccio” Bach, estratti dal “Clavicembalo ben temperato” (BWV 846 in do maggiore) e dall’antologia didattica del “Klavierbüchlein” destinata al figlio Wilhelm Friedemann (BWV 855a in si minore e BWV 773 in do minore), che normalizzarono l’affermazione del tonalismo e della scala temperata negli strumenti a tastiera, a quelli altrettanto immortali di Chopin (dalla raccolta op. 28, composta durante il soggiorno alle Baleari in compagnia di George Sand, i numeri 6, 8, 20), dove ogni battuta splende come una gemma, per concentrazione, immediatezza, espressività, pur allontanandosi dal canone e concedendo pochissimo alla fioritura. Dall’omaggio al maestro John Cage (il lento e meditativo “In a Landscape”), avvicinato per la prima volta nell’aula “antipatica” del conservatorio e noto per le sperimentazioni della camera anecoica (stanza insonorizzata in cui poter ascoltare il silenzio) al ricordo della “poetessa delle stanze” per eccellenza, Emily Dickinson (“Sweet and Bitter”), sottratta al mondo per tutta la vita nel chiuso della propria camera, fino al racconto del reduce inglese che davanti alla casa in macerie sogna di vederla apparecchiata per il tè con le porcellane Royal Crown (“Split, Postcards from Far Away”). E poi, ancora, “Unconditioned, Following a Bird” e “Missing a Part”, che fra dolci smarrimenti dietro al volo di un uccello e malinconiche sale d’attesa adombrate da un dolore sottile, trascolorano nella genesi mistica della Sonata n.1 in tre tempi (“The 12th Room”), metafora dell’esistenza umana ricavata dalla lettura del “Libro proibito di Dzyan”, che con una tecnica di stoppamento del suono che ricorda la percussione delle corde con le mani del “piano preparato”, procede dalla frantumazione primigenia verso l’ordine sempre più urgente e complesso della vita. Vien da credere che quella prima e ultima stanza in cui ci si addentra rappresenti idealmente l’energia misteriosa della musica che innalza il genio dell’uomo verso la suprema regione dell’assoluto. Perché il genio di Bosso ci ha condotti per mano proprio su quelle vette, con la generosità e l’empatia di un vero “poeta” dei tasti bianchi e neri.

Valentina Crosetto 10/05/2016

Per ascoltare la Sonata n. 1 in sol minore per piano solo: http://bit.ly/1KMnhQq