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Duplice appuntamento per la terza serata di “Una Striscia di Terra Feconda”

Giu 26

La serata del 24 giugno - la terza del XIX Festival franco-italiano di jazz e di musiche improvvisate - ha visto come protagoniste, all’Auditorium Parco della Musica, due formazioni molto diverse tra loro.

Tra sonorità mediorientali e ritmi rubati al walzer e al tango il Trio Barolo (Remi Poulakis, Francesco Castellani, Philippe Euvrand) si distingue fortemente per le intromissioni liriche che Remi Poulakis - splendido alla fisarmonica - esercita triobarolo1sulle sue corde vocali. Francesco Castellani, pezzo nostrano del trio, comprime e distorce le note che escono dal suo strumento: il suo fiato si fa sentire palpabilmente, sospira dentro il suo trombone. Philippe Euvrand che occupa i brani con il suo contrabbasso mantiene una ritmica ben sostenuta anche dai “colpetti” sulla cassa armonica, trasforma il proprio strumento sfruttando l’effettistica dei pedali che raddoppiano il tappeto sonoro dei bassi e utilizza nel frattempo l’arco con la splendida capacità di rendere eclettico uno strumento del genere in pezzi bellissimi come “Maghreb”. Si rivelano speciali interpreti di Michel Petrucciani, suonando “Play Me”. L’esibizione di Poulakis dà prova della sua bravura da tenore in interpretazioni liriche come “Una furtiva lagrima” di Donizetti. Un trio che ha spaziato senz’altro oltre le sonorità jazz, senza farsi mancare niente.

Ruba gli occhi la serata, si chiudono per viaggiare sulle note dell’esemplare Franco D'Andrea Piano Trio che vede Aldo Mella e Zeno De Rossi maestosi accompagnatori del pianista. Se il contrabbasso si trasforma come cera tra le mani di Aldo Mella che lo plasma, lo fa stridere e lo accarezza con eccentrici risultati, Zeno De Rossi dalla sua parte ad un tratto suona con una, due, tre, quattro bacchette i tamburi della batteria. Prassi inconsueta quella di prenderne un gruzzoletto per farle trotterellare sul rullante, giocando tra i rudi suoni del legno e quelli sfasati di francodandrea2una cascata di colpi sui tamburi. O un’altra è quella di suonare direttamente con le mani. Per il resto De Rossi avvolgeva i pezzi di D’Andrea tra ritmi in levare, quelli più tipicamente jazz accarezzando i piatti con le spazzole, fino a movimenti che sfioravano timorosamente ritmicità breakbeat originalissime.
Franco D’Andrea lascia assaporare allo spettatore il piano in tutte le sfaccettature che riesce a regalare lo strumento principe della musica. Come sentire respirare un oggetto, i momenti più sospesi erano fatti di tuffi al cuore, di quelle note nere che avvolgono echi bassi che l’autore lascia fuggire via. I suoni che vengono fuori sembrano provocati da una cascata di sassi sui tasti come un crollo di pensieri che si riversano nell’istinto di quelle note.
Le parti concitate erano mirabolanti acrobazie delle dita che Franco D’Andrea lascia scivolare lungo la tastiera tra i momenti di desiderio orchestrale e quelli in cui lui stesso con una mano intrattiene un accompagnamento e con l’altra costruisce su un’improvvisazione, una prassi che lo distingue come uno dei più originali oltre che talentuosi pianisti jazz italiani.
Infine colpisce la distanza che intraprendono le tre parti del trio ognuna delle quali senza mai scostarsi dalle altre disegnava parabole e spirali nelle parti improvvisate, che nel fantasioso vagheggiamento riuscivano puntuali a ritornare al tema di partenza come un calcolo algebrico perfetto.

Emanuela Platania 26/06/2016

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