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Daniele Gatti dirige Schumann: eccellenze musicali ed emozioni universali all'Auditorium Parco della Musica di Roma

Feb 07

Non si ferma mai la giostra dell'Auditorium Parco della Musica di Roma. A gennaio l'orchestra e il coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia si erano confrontati con la Russia di Gergiev e Ciajkovskij (leggi qui la nostra recensione); dall'1 al 3 febbraio compiono un viaggio nell'universo sinfonico schumanniano. La missione della prestigiosa istituzione si conferma non solo nell'eccellenza delle proposte musicali, ma anche nella ricchezza di una didattica divulgativa: è il Maestro Antonio Rostagno a introdurre Schumann all'interno dell'iniziativa "Spirito Classico", lezioni in forma di degustazione.
Il concerto si apre con la Sinfonia n. 2 (1845-1846), seguono il "Nacthlied" per coro e orchestra (1849) e la Sinfonia n. 4 (1841-1853). Protagonista ex aequo dell'evento insieme al compositore tedesco è il direttore d'orchestra Daniele Gatti. Punta di diamante nel panorama internazionale, ha tecnica certosina (tanto da valergli soprannomi quali "il miniaturista", o "il direttore del cesello") ed è un grande preparatore di organici orchestrali, come denotano da una parte la sicurezza di un gesto direttoriale denso e minimalista, dall'altra la purezza disciplinata del respiro e del suono dell'orchestra di Santa Cecilia. Direttore della Royal Concertgebouw Orchestra di Amsterdam dal 2016, giovanissimo era stato direttore di Santa Cecilia (tra 1992 e 1997). La sua carriera si intreccia ancora una volta con i destini di Roma e dell'Accademia: nel marzo 2016 aveva in programma l'esecuzione delle sinfonie di Schumann, salvo poi essere impossibilitato all'ultimo momento ad eseguire le sinfonie pari. Due anni più tardi torna e chiude Daniele Gatti foto ph. web operaclick colidealmente quel ciclo. Nel dicembre 2017 è presente anche sul podio del Costanzi con la "Damnation de Faust" di Berlioz, dove un contratto che ha il sapore di una promessa lo impegna nel triennio 2016-2018 ad aprire la stagione lirica romana.
Per un singolare battito d'ali di farfalla, le prime mondiali della Sinfonia n. 2 e del "Faust" avvengono a un mese e qualche chilometro di distanza, rispettivamente il 5 novembre 1846 al Gewandhaus di Lipsia e il 6 dicembre all'Opéra-Comique di Parigi. Si aggiunga che, nello stesso giro di anni, nemmeno Schumann era rimasto impermeabile al fascino del poeta tedesco: le "Scene dal Faust" composte tra 1844 e 1849 ne sono il risultato. Nonostante le premesse diverse per età, formazione e provenienza degli autori, entrambe le composizioni del 1846, a due anni da quell'epico 1848, contengono brani simili ad una cavalcata furiosa e allucinata: la "Corsa all'abisso" nella scena 18 del "Faust" e lo "Scherzo" nella Sinfonia n. 2. Se una coppia di cavalli infernali galoppa conducendo Faust alla dannazione mentre questi crede di salvare Margherita, Schumann spinge gli archi ai limiti di un moto perpetuo, vorticoso latente e frammentato per risollevarsi da quell'inferno in cui l'aggravarsi di una malattia psichica lo aveva condotto. Nemmeno Schumann raggiunge l'agognata redenzione: la depressione lo condurrà all'isolamento in sanatorio e poi alla morte; persino nello svolgimento della sinfonia, come di tante altre sue composizioni, la salvezza non appare mai definitiva e risolutoria, ma sempre in equilibrio instabile. I turbamenti dello "Scherzo" del secondo movimento attraversano anche l'"Allegro molto vivace" dell'ultimo movimento, e in quel do maggiore finale si percepisce una tregua più che una vittoria. La grandezza della partitura, però, consente di interiorizzare suoni e sensazioni e di restituirli con l'autonomia espressiva propria delle grandi opere d'arte e dei suoi interpreti: il Maestro Daniele Gatti sceglie il superamento ottimista del dolore attraverso l'arte. La rappresentazione dei chiari e degli scuri della psiche umana è demandata alle sonorità dolci del "Nachtlied", ninna nanna funebre per coro e orchestra. Nel canto notturno di Schumann la notte si fa metafora di riposo, morte e redenzione e gli echi di un Requiem si mescolano a squarci luminosi paragonabili al "Mattino" di Grieg (seppur di un trentennio successivo).
Schumann fu orchestratore innovativo - non subito compreso, a onor del vero, al punto da subire persino le correzioni dei posteri, Malher in particolare. Insofferente ai limiti delle strutture convenzionali, le piegò alle sue esigenze di musicista e di uomo - dimensioni non così distanti se è vero che il suo progetto di scrittura dell'io si riversò nella Sinfonia n. 2, definita "un'autobiografia in suoni". Particolarmente esemplificativa dell'aspirazione schumanniana verso la libertà costruttiva è la Sinfonia n. 4. Inizialmente immaginata in forma di poema come "Fantasia", pur restando nell'astrattezza della musica sinfonica, non viene concepita come pura forma da contemplare, ma come racconto. I personaggi sono i temi e le linee musicali ripresi che si sovrappongono, si interrompono, si modificano nel dialogo con gli altri strumenti dell'organico e con i grandi modelli del passato e del suo tempo (Haydin, Bach, Beethoven, Mendelssohn). Se si dovesse paragonare Schumann ad una forma geometrica, non ci sarebbero molte esitazioni nell'accostargli la spirale, mai immobile, vorticosa e travolgente quando centripeta, ma generosa e avvolgente nella direzione centrifuga. L'anelito all'autonomia espressiva si concretizza in accelerazioni, variazioni, allusioni: un gioco di specchi che raggiunge il suo acme nei brani per orchestra, solo strumento capace di garantirgli la ricchezza, la complessità e l'universalità che cercava.

Alessandra Pratesi

06/02/2018

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