Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 620

Print this page

Alt-J live al Rock in Roma: l'Italia è indie alle Capannelle

Lug 27

Dopo quattro mesi, l'Italia ama ancora gli Alt-J. Se lo scorso San Valentino il Forum di Assago tutto esaurito era stato una sorpresa, non stupiscono più le 6500 persone presenti ad accompagnare la delicata e posata performance della band di Leeds in occasione della "prima" del Rock in Roma, il 14 giugno.

La scaletta è stata mantenuta praticamente identica al live di Milano. Gli Alt-J spaziano e pescano bene all'interno dei due album "An Awesome Wave" e "This Is All Yours", piazzando impeccabilmente "Matilda", "Taro" e "The Gospel of John Hurt", picchi emotivi disarmanti per il pubblico delle Capannelle. "Nara" e "Leaving Nara" poi sono l'assist perfetto per la consueta chiusa affidata a "Breezeblocks", con cui la band inglese dà la buonanotte a Roma dopo un'ora e un quarto di delizia. L'unico neo della serata è, forse, proprio la durata, perché se è vero che gli Alt-J hanno all'attivo solo due album, allungare di 15 minuti uno spettacolo che comunque non annoia, non sarebbe stato un dramma.
Nei a parte, il live degli Alt-J è una panacea in tutto e per tutto. Grazie a un gioco di luci e ombre semplice quanto efficace, riflesso in una specie di vetrata alle loro spalle, i quattro di Leeds danno un colore a ogni canzone. Blu per "Something Good", bianco e arancio per "Left Hand Free" – pezzo sempre convincente, da battimani convinto – verde acqua per "Dissolve Me".
Le luci e i suoni fluidi proiettano sul cielo di Roma immagini oniriche e suggestive. Nel mosaico sonoro degli Alt-J c'è tutto: tastiere, xilofono, una chitarra che si accontenta di riff minimali o quasi nulli, bassi che spezzano la ritmica e batteria costruita secondo un'architettura complessa, dagli accenti quasi monchi. Tutti elementi mescolati con fantasia e tecnica sopraffine, che spostano il genere dall'indie al folk sino all'elettronica.
Il tutto accompagnato dalla voce biascicata di Joe Newman, il cui tono fa volutamente da sfondo al fluire degli strumenti. È questo l'elemento pregnante degli Alt-J: la voce si mescola con il suono e lo disperde, lo amplifica. Così Gus Unger-Hamilton è tutt'uno con le sue tastiere, che tuonano – come in "Tesselate" e "Bloodflood" – oppure soffiano sul pubblico, come in "Taro".
Gli Alt-J non sono degli animali da palcoscenico, la seconda apparizione italiana lo conferma. Poche parole, pochi fronzoli, solo qualche "grazie" a denti stretti. Ma il loro meccano strumentale andrebbe allungato. O forse no. Alla fine piacciono anche così.

Daniele Sidonio 15/06/2015