SAN LAZZARO DI SAVENA – Pinocchio è come Moby Dick, come Don Chisciotte, come Il giovane Holden. C'è il passaggio e la scoperta del sé, c'è il cammino, la trasformazione che impaurisce e inquieta perché sconosciuta e perché conduce a luoghi ancora ignoti e che fanno tremare polsi e caviglie. E' il passaggio dall'adolescenza, dalla fanciullezza al mondo adulto, non solo avere delle responsabilità ma cercare di non far morire i sogni, il sorriso, di non inaridire la spensieratezza, la non prevedibilità, non uccidere i voli pindarici e le nuvole. Pinocchio è un Icaro che ce l'ha fatta. Certo Collodi ci dice che se facciamo i bravi e rispettiamo le regole alla fine verremo premiati e andrà tutto bene, ma questo è soltanto l'aspetto superficiale istituzionale conservatore. Dentro le pieghe di Pinocchio ci sono però le cadute proprio quando stava andando tutto per il verso giusto, ci si rialza a fatica per poi capitolare nuovamente e doversi rimettere in sesto è sempre un'ulteriore prova di coraggio e di rispetto verso se stessi e nei confronti di chi ha avuto fiducia in noi.
Questo progetto, “Nel Paese dei Pinocchi” (da un lato identifica anche l'Italia nel Paese dei bugiardi e dei furbetti, come dargli torto), messo in piedi dal Teatro dell'Argine ha raccolto cinquanta ragazzi con una età media di vent'anni, il momento del “tutta la vita davanti” che porta l'ebbrezza e la vertigine dell'incertezza del volo, ma anche la paura di non riuscire in un mondo stratificato e che ci pare impossibile e complesso con tutti questi adulti squali e iene che ci guardano dall'alto in basso, non dandoci credito, carezzandoci con tenerezza senza mai realmente ascoltarci né considerarci al loro stesso livello.
Cinquanta adolescenti che arrivano da trenta Paesi del mondo, molti dall'Africa in cerca d'asilo, ma anche dall'Albania come dall'Islanda, dall'Afghanistan come dal Paraguay, molti sono qui a Bologna in Erasmus, dall'Iran come dal Perù o dalla stessa Italia. Un incrocio che vive e si muove dietro finestre unite in un collage che diventa paravento e chiusura ma dalle cui ampie fessure ci si può affacciare per assaggiare con gli occhi il domani, il panorama che verrà, sporgersi come tartarughe oltre il guscio dall'acquietamento, oltre la patina collosa del silenzio.
Cinquanta ragazzi tutti alle prese con le stesse problematiche, il cambiamento, fisico e interiore, quel sottile patema del domani misto alla follia del diventare grandi, nel corpo e nelle proiezioni e possibilità mentali. Questi Pinocchi chiedono ascolto e fiducia nelle loro fragili azioni, supporto e non punizione quando sbaglieranno, perché sarà inevitabile l'errore che “nessuno nasce imparato”, chiedono una mano per tirarsi su dal fango e non occhi e indici e giudizi a colpire e scarnificare, a reprimere e tarpare. Vogliono solo avere la possibilità di essere se stessi quando ancora non sanno chi sono né chi saranno, in quel limbo dove potrebbero spiccare il volo o, per sempre, camminare carponi dediti alla nostalgia e al complottismo. Ci vuole ottimismo e sguardo verso l'oltre, nessuna zavorra, nessun peso e poi andrà come deve andare. Sono impauriti, è normale e comprensibile, ma hanno energie da vendere, le retine che brillano in cerca di emozioni e parole, si annoiano facilmente ma si esaltano altrettanto velocemente, sono accendini, bisogna averne cura, potrebbero bruciarsi, sono fragili, ma tutt'altro che deboli. I loro racconti sono stati miscelati da Lucia Bonini, Loris Fabrizi, Nicola Bonazzi e Vincenzo Picone, con questi ultimi due che ne hanno curato anche la regia, con il supporto visivo dei disegni dal vivo, sul grande pannello sul fondale di Francesca “Misstendo” Popolizio (suo anche il burattino di legno in copertina, gulliverizzato).
Questi nostri pinocchietti (nella bella amalgama da sottolineare l'hip hop caloroso di Francesco Quadri, il napoletano salmastro di Adriana Rumolo, l'ossigeno che dà alle parole Pierpaolo Savini, la “Todo cambia” soffice che s'insinua, a cappella di Giuliano Occhipinti, la presenza agguerrita e rigorosa di Marta Specolizzi) sono ancora tutti in bianco, perché puri e ingenui e perché ancora la loro storia sulla pelle (e non parlo di tatuaggi) non è stata scritta. Devono lottare per divenire di carne e ossa, hanno capito che niente sarà scontato quindi dovranno battersi con la forza della ragione, conquistando a piccoli passi faticosi senza pretendere, che niente è dovuto e che i traguardi così raggiunti saranno ancora più soddisfacenti. Devono lavorare sulle mancanze, immettere legna nuova da ardere, parole, letture, esperienze, libri, incontri per non essere più manichini, perché se rimani fantoccio sarai manovrabile per sempre.
Crescere è difficile, è un mestieraccio ma Pinocchio urla al mondo: “Ho fame di futuro, ho fame di giustizia, ho fame di libertà, ho fame di conoscenza”. Sono questi i torsoli di pera. Devono respingere gli adulti che invece che metterli in guardia gli incutono ancora più timore, lasciandoli liquefatti nello stallo stagnante: “Corri Pinocchio che tanto non arrivi da nessuna parte”. Adulti che li vogliono rompere, spezzare, che vogliono annientare l'adolescente che sono stati, quell'adolescente che ha ascoltato grandi che dicevano quello che loro stanno dicendo adesso: che tutto è brutto e che non ce la farai. Tutti i ragazzi sono “stranieri”, verso se stessi nella trasformazione da ciò che erano a ciò che diventeranno, verso gli adulti perché li guardano come si guarda il diverso, verso il mondo che li considera bambini e non meritevoli di occhi negli occhi, di spiegazioni, di confronto diretto. Dalle finestre aperte si vedono le utopie. I Pinocchi chiedono solo di non impallargli la visuale.
“Nel Paese dei Pinocchi”, produzione Teatro dell'Argine, PalaYuri, San Lazzaro di Savena, Bologna, visto il 9 luglio 2016.
Tommaso Chimenti 11/07/2016