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"Pitch Perfect 2": tremate, tremate, le Bellas son tornate

High School Musical ha dato il via, Glee ha ripreso il tema e per sei stagioni, dal 2009, ha ripetuto che far parte di un coro non è cosa da loser.

Era il 2012 quando il pubblico ha conosciuto le Barden Bellas e la loro vittoria al Lincoln Center di New York, e ora sono tornate. In "Pitch Perfect 2", nelle sale dal 28 maggio, il tempo non si è fermato. Il gruppo originario delle Bellas si è modificato: Aubrey (Anna Camp) ha finito il college, e ora anche Beca, Chloe, Ciccia Amy sono all'ultimo anno. Campionesse nazionali per tre anni di fila sono state chiamate a festeggiare il compleanno del Presidente.

Sulle note di "Wrecking Ball" a Ciccia Amy le si strappa la tuta dove non si vorrebbe mai avere uno strappo. La figuraccia vola di talk show in talk show, non bastano le scuse in tv: le Bellas non possono più gareggiare nelle competizioni universitarie.

Per risollevare le sorti del gruppo, prima di lasciare il college, c'è solo una cosa che possono fare: diventare campionesse mondiali battendo i campioni in carica, i tedeschi Das Sound Machine.

Ma la situazione non è delle migliori. Ogni ragazza affronta a modo proprio la paura della fine del college portando il gruppo a non essere più in sintonia e se non fosse abbastanza, i Das Sound Machine sono un esercito perfettamente sincronizzato con una potenza ed estensione vocale da far impallidire qualunque gruppo a cappella.

La storia, semplice e con happy ending scontato, lascia spazio alla dimensione musical. Coreografie molto più complesse del primo capitolo e a detta della regista, Elizabeth Banks, gli unici momenti seri sul set. Le esibizioni dei cori a cappella spingono sull'acceleratore della spettacolarità, per poi spegnersi -purtroppo- sul finale con la performance delle Bellas, tutt'altro che scoppiettante ma in linea con il tema della storia.

Accentuata anche la dimensione del comico: Ciccia Amy (Rebel Wilson), se possibile, ancora più divertente e stravagante come le poche e sussurrate battute di Lily (Hana Mae Lee). Se avevamo un assaggio della sorridente malignità di John (John Michael Higgins) con il secondo capitolo ne abbiamo la conferma, impeccabile nel suo completo dà voce ai pensieri più bigotti, razzisti e misogeni che si possono immaginare.

L'introduzione dei concorrenti tedeschi apre le porte a stereotipi etnici con i quali proporre battute scontate e datate, ma da considerare evergreen dell'umorismo etnico. Da menzionare i piccoli cammei di Snoop Dogg (interprete di se stesso) e dell'attore comico David Cross.

Con un ritmo mai calante, "Pitch Perfect 2" non è la mera copia del primo e seppur non indispensabile è un bel modo per salutare le ragazze delle Barden Bellas.


(Angela Parolin)

"Insidious 3: L''inizio" dal 3 giugno al cinema. È l''horror di Leigh Whannell

Nel 2010 era semplicemente "Insidious", film horror di James Wan, intessuto di terrore e mistero che, solitamente, invadono le vicende di spiritismo e paranormale. Il secondo capitolo nel 2013 con "Oltre i confini del male: Insidious 2", dove la storia si riproponeva nel tempo con la stessa matrice oscura: protagonista era la famiglia Lambert, assediata da presenze occulte, desiderose di rendersi vitali impossessandosi di corpi fisici. Madre, padre e figlio (Renai, Josh e Dalton) erano, dunque, impegnati in una dura e feroce lotta contro i demoni, che richiedeva l'intervento provvidenziale di una medico (Elise). La fine di ciascun capitolo aveva sempre uno spunto inquietante da cui ripartire: il primo si chiudeva con la sensitiva strangolata non dall'uomo Josh ma, presumibilmente, dal suo spettro e la mano di lui poggiata minacciosamente sulla spalla della moglie; mentre, nel secondo, era un'ombra a presagire il ritorno dell'incubo, mostratasi dinanzi ad Elise, riapparsa sulla scena immobile su una sedia a rotelle.

E ora, nel 2015, il sequel "Insidious 3: L'inizio" che segna l'avvio alla carriera di Leigh Whannell in qualità di regista, al posto di James Wan. Il suono metallico e roboante con cui si presenta il terzo capitolo preannuncia tutta l'ansia e l'angoscia tipica di un thriller.

Whannell conduce l'occhio del pubblico proprio laddove vuole che guardino i suoi protagonisti e, soprattutto, nei momenti in cui sarebbe sconsigliato vedere; mentre un rumore sordo e una musica ossessiva intervengono a puntualizzare gli attimi di panico. Si riprende qui il tema dell' "altrove", cioè il mondo dell' aldilà, abitato dalle anime dei defunti, che vengono chiamati in causa per lenire il dolore dei propri cari. La famiglia Benner, in questo caso, piomba nel buio più totale quando la figlia Quinn è intenzionata a contattare personalmente la madre (scomparsa da un anno e mezzo a causa di un tumore), ma ricorre presto all'aiuto di una sensitiva (Elise) la quale, in un primo momento, non sembra affatto accondiscendere alla sua richiesta. La vita di Quinn inizia a correre un grave pericolo, dopo essere scampata alla morte, travolta da un'auto in corsa. La ragazza si mostrerá, per gran parte del film, su una sedia a rotelle. Casa Benner è, ormai, nel mirino degli spiriti maligni e la paura è sempre dietro l'angolo.

Il finale diventa un prequel per una storia successiva, perchè l'oscurità non nasconde ma svela.  

 

(Simona Maiola) 

“Faber in Sardegna e l’ultimo concerto di Fabrizio De Andrè”: il film di Cabiddu per un ritratto nuovo del cantautore

“Mi sembra proprio di raccontare una bellissima favola…C’era una volta, e per fortuna ancora c’è, una follia tanto amata che si chiama Agnata”. Così Dori Ghezzi, moglie di Fabrizio De Andrè comincia a raccontare la loro avventura in Sardegna, terra in cui si trasferirono dal 1974 e che regalò loro grandi emozioni, ma anche un forte shock.

Un artista unico, che ha segnato l’evoluzione della musica leggera italiana e della letteratura, una mente geniale che ci ha lasciati troppo presto e che rivedere oggi sul grande schermo, è un’esperienza affascinante. Lo è ancor di più scoprire la passione che De Andrè nutriva per la Sardegna e il suo progetto di dare vita a un’azienda agricola. Un De Andrè diverso: un musicista che decise di indossare i panni dell’allevatore e del contadino e comprare giovenche e tori per allevarli come figli.

Il documentario di Gianfranco Cabiddu, uscito nelle sale per due serate il 27 e il 28 maggio, è un film dalla doppia anima, che unisce il racconto dei complessi rapporti, che legarono il cantautore genovese a un luogo speciale come l’Agnata (Sardegna), con l’ultimo indimenticabile concerto di Faber al Teatro Brancaccio di Roma.

Nella prima parte del film il regista alterna momenti passati al presente, video e immagini d’archivio con spezzoni di vari concerti organizzati all’Agnata dal Festival Time in Jazz. La musica di Faber va oltre il tempo, viaggia con noi e con i nostri ricordi. Sui prati delle campagne insieme al figlio Cristiano vari artisti omaggiano il cantautore scomparso: Morgan (autore di una commovente versione de “La canzone dell’amore perduto”), Paolo Fresu, Danilo Rea, Gianmaria Testa, Lella Costa, Maria Pia De Vito e Rita Marcotulli.

Ma questa terra però viene ricordata nella vita dal cantautore anche perché fu protagonista del sequestro di cui lui e Dori furono vittime: nell’agosto 1979 i due vennero rapiti dalla cosiddetta anonima sarda e rilasciati dopo quattro mesi, dietro il versamento di una riscatto, trattativa raccontata nel film dal parroco del posto, amico della coppia. Un’esperienza dalla quale poi nascerà “Hotel supramonte”, una delle più profonde canzoni del cantautore genovese.

Nella pellicola compaiono poi Renzo Piano, che definisce il suo amico il “profeta del mare”, e alcuni suoi lavoratori dipendenti, tra i quali il contadino, che ci racconta le sue curiosità iniziali nel guardare un De Andrè che di notte annaffiava il prato, perché non riusciva a dormire.

Il film nella seconda parte racchiude poi un altro fantastico ricordo del cantautore, l’ultimo concerto, che lo vede sul palcoscenico al fianco del figlio Cristiano, musicista eccezionale, e con una ricca band.

È il 1998 e De Andrè ci lascia con questo insegnamento: “ho sempre pensato che ci sia poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore, anche perché non ho ancora capito bene, malgrado i miei 58 anni, cosa sia esattamente la virtù e cosa esattamente sia l’errore. Tutto questo per dire che io non ho nessuna verità assoluta in cui credere, che non ho nessuna certezza in tasca e che quindi non posso nemmeno regalarla a nessuno”. Ciò che è certo è che Faber ci ha donato tanta poesia e ancora oggi, anche se sul grande schermo, la sua voce e le sue parole continuano a far venire i brividi.

 

(Silvia Mergiotti)

"E'' arrivata mia figlia!", una speranza nel Brasile che cambia

C'è una cucina, una porta socchiusa, una donna che origlia una famiglia a cena. Sa tutto di loro: cosa gradisce "donna Bàrbara" a colazione prima di correre elegantissima al suo lavoro, quale medicina deve prendere il dottor Carlos, per evitare di sprofondare nella depressione, quale sia il gelato riservato al giovane Fabiñho, che di notte quando non riesce a dormire cerca conforto tra le sue braccia. La conosce bene Val (Regina Casé), governante precisa e affidabile, questa famiglia alto borghese di San Paolo, ma sa stare al suo posto. Ha imparato che oltre certi varchi si va solo quando si è chiamati. “Val, prendimi un po' d'acqua”, “Val, prepara una torta per il mio compleanno”, “Val, apparecchia per la colazione”. Allora, solo allora, la macchina da presa può entrare nel sontuoso salotto, davanti alla piscina illuminata, nelle camere da letto.

Per tutto il resto del film “E' arrivata mia figlia!”, della regista brasiliana Anna Muylaert, premiato al Sundance e a Berlino, scopriremo anche noi questa famiglia dallo spiraglio di una porta socchiusa, dai rumori dietro una stanza chiusa. Almeno finché non arriva lei, Jessica. La figlia di Val va fieramente contromano rispetto alla tradizione brasiliana. Come la madre ha lasciato il nord del paese per affrontare un esame funzionale a iscriversi alla Fau (l'università di architettura di San Paolo), del tutto impermeabile ai sottili equilibri borghesi per i quali “sei di famiglia”, ma solo fino alla porta della cucina. Così, una volta in casa, eccola pranzare con il capofamiglia che, da quando lei è in casa, riscopre una nuova giovinezza, farsi preparare la colazione dalla moglie indispettita, fare il bagno in piscina con gli amici del figlio, piscina che Val, in tanti anni di servizio non ha mai nemmeno sfiorato con un dito.

La reazione di Val a questa naturalezza della figlia, che si sente pari grado dei suoi padroni, sarà una serie di espressioni esilaranti che saranno la cifra comica di un film invece profondamente serio. “E' arrivata mia figlia!”, circa vent'anni di lavorazione della Muylaert che lo ha anche scritto, è un trattato sociologico sulla società brasiliana e sulla sua evoluzione, in particolare sulle nuove speranze frutto delle politiche del Partito dei lavoratori al governo. Con il presidente Lula, in Brasile, è stata praticamente eliminata la manodopera domestica convivente, sulla quale invece si era basata una consolidata tradizione, sin dai tempi del colonialismo.

Sullo sfondo della storia, infatti, è analizzato il rapporto madre-figlio. Molte donne di alto rango in Brasile lasciavano i figli alle bambinaie, che spesso abbandonavano a loro volta i propri figli per potersi occupare di quelli degli altri.

Un paradosso che vive anche Val, diventata, di fatto, la madre di Fabiñho: con lei il ragazzo ha un'intimità che va ben oltre quella con la madre naturale. E del resto anche Jessica, come la madre, ha dovuto lasciare qualcuno, ma a differenza di Val e grazie alle nuove regole sociali, ha tutta una nuova consapevolezza, nonché una speranza. Una speranza che racconta l'evoluzione di un paese.

 

(Rosamaria Aquino)

 

 

 

 

“Leviathan": un ritratto delle corrotte macchine istituzionali

Nel libro biblico di Giobbe il Leviatano è "il re di tutte le bestie più superbe", mentre nel libro di Hobbes si identifica con un'entità che sta sopra gli uomini e che annulla le libertà del singolo per poter governare, garantendo pace e serenità in cambio di obbedienza e sottomissione.
Guardando il film di Zvyagintsev, lo spettatore presuppone che sia lo scheletro di una balena che appare e scompare con la marea, riposto vicino allo scoglio su cui vanno a riflettere i protagonisti della vicenda: una sorta di tramite con la propria interiorità o con qualcosa di trascendente che si propone come via di fuga alla tragicità dell'esistenza. Al di là dei simbolismi, il Leviathan del regista russo è la macchina istituzionale corrotta e corruttrice, che si nasconde dietro i volti inquietanti e sardonici dello Stato, della Chiesa e della Giustizia.
Il meccanico Kolya è il proprietario di un vasto terreno su cui ha messo gli occhi il sindaco per una speculazione immobiliare. Dinanzi al rifiuto di Kolya di vendere, il sindaco passa alle maniere forti: criminalità, giudice ed ecclesiastici sono tutti dalla sua parte, per ragioni di convenienza e potere. A niente servirà l'aiuto di un caro vecchio amico di Kolya, un avvocato venuto apposta da Mosca per aiutarlo. Il finale sarà tragico e terribile per tutti.
Detto questo, Zvyagintsev non cede mai al ricatto e al melodramma, il suo tono è drammatico ma freddo e distaccato, talvolta ironico, senza farsi impietosire dalla drammaticità degli eventi.
Il film è costellato di suggestioni pittoriche, che ammaliano ed estasiano. Il vero punto nevralgico è la contrapposizione tra una Natura meravigliosa e indifferente e la sofferenza della vita terrena, incatenata dalle piccolezze e dalle ipocrisie dell'essenza umana. Sullo sfondo, la vodka giganteggia: nel bene e nel male, per tutti i personaggi è l'unica compagna fedele nei brevi e sfuggenti attimi di distensione, nella rassegnazione, nella solitudine.

(Emiliano Dal Toso)

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