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"What did Jack do?": il cortometraggio noir di David Lynch

David Lynch, entra nel raggio visivo d’una mdp fissa su un tavolo e due sedie in una non ben identificata stazione ferroviaria. Il bianco e nero ci riporta immediatamente ai tempi di Ereaserhead, e la simulazione di uno schermo filigranato, ad un vecchio film anni Quaranta. “You know anything about birds, jack?”, chiede il regista e attore al suo interlocutore, un piccolo primate seduto difronte a lui. Niente di nuovo su quel fronte, Jack si aggiunge al vasto bestiario lynchano, con quella sua inquietante bocca umana sovrapposta al viso irsuto tramite un sistema di effetti visivi, e in cui ritroviamo tutto l’amore “malincomico” del regista per il mondo dei freaks.
What did Jack do?, scritto, diretto e interpretato da David Lynch, è un cortometraggio prodotto nel 2016 da Fondation Cartier in occasione del lancio di un libro fotografico sul regista. Netflix lo salva dalla damnatio memoriae, e lo inserisce nella coda dei prodotti d’autore dei quali si va arricchendo il suo catalogo. Riconosciuta immediatamente familiare l’estetica del genio dell’onirico, la diegesi imbrocca, invece, una strada sorprendentemente lineare, atta a fare luce su quelle prime domande bestiali: Jack è il principale indiziato di un delitto a movente passionale, e Lynch è lì per interrogarlo, nelle vesti di un elegante detective. What did Jack do? è il focus sul momento migliore di un’indagine, quello consumato nell’intimità del vis à vis fra potenziale colpevole e investigatore, fra i quali si mette in moto la macchina del linguaggio, della dialettica tensiva che oscilla continuamente fra la costruzione dell’alibi e della sua immediata distruzione e che scopre le carte migliori degli attanti. Per i diciassette minuti di durata del cortometraggio, la scena è popolata da due personaggi rubati ad un dramma di Beckett o Ionesco, impossibilitati a muoversi per una qualche ragione (Jack sarebbe potuto andare via, ma i treni sono stati bloccati per permettere il decorso delle indagini), monchi, manchevoli di una parte del corpo fondamentale alla deambulazione, e per questo costretti a veicolare la narrazione mediante il solo utilizzo della parola, mentre fuori dalla scatola in cui sono costretti, c’è quasi sempre un’apocalisse imminente o appena scampata.
Il dialogo procede serrato, le inquadrature secche, fra campi e controcampi, omaggianti il noir, plongée di wellesiana memoria, che a loro volta si rifacevano alla distorsione spaziale dell’espressionismo tedesco. Del noir classico, si rinvengono tutti gli stilemi e gli archetipi: c’è il detective, c’è il braccato, e c’è persino la femme fatale, che ironia della sorte, è qui diventata la gallina Tootatabon, contesa fra Jack, un certo scimmione Shelby, e Max Clegg, perito sotto i colpi di un’arma da fuoco. Le domande dell’investigatore si fanno sempre più incalzanti, e come se non bastasse lo straniamento prodotto dalla conversazione con la creatura antropomorfa, l’ironia, che s’insinua continuamente fra gli spazi di questo dramma dell’assurdo, è un ulteriore agente raffreddante: “Be a man Jack,and tell me about her”. unnamed
Fanno capolino, come in un compendio sull’ultima fase della sua carriera, i grandi feticci del regista, come quel “damn good coffee”, ampiamente abusato da Dale Cooper (Twin Peaks) e qui portato a Jack da una cameriera del diner, erotizzato dal primo piano sulla tazza fumante. E poi torna lo show, commento decadente del plot, ch’è la cifra di ogni loggia lynchana (e Blue Velvet è solo un esempio), questa volta riproposto da un intermezzo cabarettistico che devia per pochi minuti la narrazione e che vede Jack esibirsi in una malinconica canzone per dimostrare al detective il suo amore nei confronti di Tootatabon. Quello di Lynch è un gioco, con la macchina da presa, con gli stili cinematografici, con le potenzialità del racconto, un divertissement ch’è fatto della stessa sostanza dei sogni, come disse Humphrey Bogart nei panni del detective Sam Spade (Il Mistero del Falco) al quale Lynch, seduto nella sua poltrona e avvolto nel fumo delle sue troppe sigarette, sembra assomigliare inesorabilmente.

Gabriella Longo