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The last dreamer: in ricordo di Bernardo Bertolucci

La notizia giunge improvvisa, come i colpi di fucile che colpiscono il partigiano in Novecento. Lunedì 26 novembre 2018 è venuto a mancare uno degli ultimi grandi del cinema italiano: Bernardo Bertolucci. Ogni parola risulta vana dinnanzi alla grandezza di questo autore, troppo spesso criticato e sottovalutato da una nazione come quella italiana che lui stesso ha saputo paradossalmente raccontare così bene, così onestamente. Intellettuale, visionario, ribelle; sono tanti, troppi e forse inutili gli aggettivi con cui si possono ricordare Bertolucci, la cui carriera è iniziata come assistente alla regia di Pierpaolo Pasolini. Perché lui era questo e molto altro. Forse allora è giusto ricordarlo per quel suo genio capace di dar vita a opere immortali, proprio come immortale è ora la figura di Bertolucci.


Corrono i personaggi di Bernardo Bertolucci. Corrono per scappare da un mondo a cui non vogliono appartenere, a cui non vogliono conformarsi. Si alzano i baveri delle giacche, si nascondono il viso dietro cappelli, quasi a reprimere un istinto, una sensualità che sanno non potranno trattenere. E poi danzano, sinuosi o animaleschi. Danzano un ballo sensuale, in nome della vita, o della passione.
Sono sognatori, rivoluzionari, uomini e donne forgiati dal fuoco degli ideali, incapaci di sostenere il peso di una società che non riconoscono come propria, o di un ruolo impostogli e per cui si credono inadeguati. E la loro vita scivola così via, come burro sciolto, o acqua sporca. C’è l’imperatore che non regna (“L’ultimo imperatore”); il padre che non accetta il suo non essere più padre (“La tragedia di un uomo ridicolo”); la madre che non vuole essere madre ma amante (“La luna”); la società in cui i personaggi di Bertolucci sono immessi è uno specchio riflettente una visione che i protagonisti non riconoscono e che vogliono – inutilmente -ribaltare. Un’ambiguità esistenziale e politica che Bertolucci non ha mai smesso di raccontare in tomi cinematografici passati alla storia come “La strategia del ragno”, “Il conformista”, “Il tè nel deserto” e ben espressa sin dall’inizio, con quella asserzione affidata a Fabrizio in "Prima della rivoluzione": «Sono una pietra, non cambierò mai. Ho la febbre: la nostalgia del presente, ma il mio futurBernardo Bertoluccio da borghese è nel mio passato da borghese. Così, per me, l'ideologia è stata una vacanza. Credevo di vivere gli anni della rivoluzione, invece vivevo gli anni prima della rivoluzione, perché è sempre prima della rivoluzione che si è sempre come me».


Sono uomini e donne votati alla trasgressione, nel senso letterale del termine, quelli di Bertolucci. Essi, cioè, non possono esimersi dal trasgredire il senso comune in tutte le sue forme: sessuale, politico, umano. Son uomini e donne passionali, che si lasciano trascinare dal ritmo prima sincopato, e poi accelerato, delle proprie pulsioni. Perfino nel suo ultimo lungometraggio, quel mediocre io e te dalla forza indebolita - come indebolito era il corpo del suo regista - si nascondeva quel desiderio di solitudine volto a rifuggire dalla quotidianità che sempre esige e nulla da in cambio.
Bertolucci era anche questo; un uomo fattosi cantore della propria provincia, quella Parma così rossa, così rivoluzionaria, eppure così bigotta. Tra le bandiere del Partito Comunista di “Prima della rivoluzione” inizia a insinuarsi il potere di una borghesia autocompiaciuta, che si nutre di false promesse tanto fino a scoppiare in “La tragedia di un uomo ridicolo”. Una dicotomia costante, un corpo a corpo tra rivoluzione e potere, che nasce, cresce e riempie di stupore gli occhi degli spettatori con quel Novecento capace di raccontare la vita di umili mezzadri come un kolossal hollywoodiano.


Mancherà Bernardo Bertolucci. O meglio, mancherà il Bernardo Bertolucci uomo, perché quello regista rimarrà per sempre.
"Non si può mica vivere senza Rossellini" diceva un amico a Fabrizio in "Prima della rivoluzione". E da oggi sarà un po’ più difficile vivere senza Bertolucci.
Teniamocela stretta la sua eredità. È una delle cose più preziose che il cinema italiano, sempre più povero, ha.

Elisa Torsiello, 26 novembre 2018

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