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Martedì, 04 Settembre 2018 13:32

Venezia 75, The Favourite di Yorgos Lanthimos

Inghilterra, primi anni del ‘700. La regina Anna, ultima regnante Stuart e prima sovrana del Regno di Gran Bretagna dopo l’annessione della Scozia, si trova a regnare durante una guerra contro la Francia che non è in alcun modo in grado di gestire. Lontana dai campi di battaglia e dai morti provocati dalla guerra, Sua Maestà – interpretata da Olivia Colman – si aggira incerta e zoppicante nel suo palazzo anche a causa della gotta di cui soffre e lascia che a tenere le fila del regno sia la sua dama di compagnia e intima confidente Sarah Churchill, duchessa di Marlborough – Rachel Weisz – che intende far proseguire a oltranza il conflitto. Gli equilibri di corte mutano quando Abigail Masham – Emma Stone – cugina di Sarah, giunge a palazzo in cerca di un’occupazione qualsiasi dopo la bancarotta della sua famiglia. Yorgos Lanthimos si inserisce sorprendentemente all’interno di tali vicende storiche e racconta con spietata ironia le mosse e contromosse che le due cugine attuano a vicenda per conquistare i favori della regina. The Favourite 1


Il triangolo amoroso messo in atto dalle tre donne è perfettamente riuscito grazie alle prove sorprendenti delle tre attrici: Olivia Colman, che ha di recente preso il posto di Claire Foy nella terza stagione di The Crown vestendo i panni della regina Elisabetta II, interpreta qui una regnante totalmente diversa. La regina Anna è infatti una donna insicura, sofferente, volubile, capricciosa e bisognosa di affetto, provata dalla morte di diciassette figli – abortiti o nati morti – e dagli attacchi di gotta che riescono talvolta a sopraffarla, e la sua interpretazione da parte della Colman è sempre deliziosamente sopra le righe senza mai essere eccessiva. Calibratissime le interpretazioni di Emma Stone e Rachel Weisz, cugine spietate e senza scrupoli che ambiscono ad essere la favorita, per l’appunto, e sfruttano la debolezza psicologica della regina per ottenere potere e sistemazione economica, infilandosi tra le sue lenzuola e cercando entrambe di ottenere il suo affetto. Eppure, l’amore non è affatto protagonista della vicenda, a meno che per amore non si intenda quello malato della regina per il suoi 17 conigli – uno per ogni figlio morto prematuramente o non nato – o quello fasullo di Abigail per l’uomo che sposa unicamente per ottenere una rendita. Persino la relazione di lunga data tra la regina e la sua confidente Sarah, scoperta ben presto da Abigail, pare piuttosto dettata dalla vorace necessità di attenzioni di Sua Maestà piuttosto che da vero amore. The Favourite 2


Lanthimos, insomma, mette in scena una vera e propria satira del potere, che è forse il tema principale della storia: sorprende notare che le decisioni infantili e prese d’impulso dalla regina possono provocare migliaia di morti sul campo di battaglia e che un suo solo cenno della mano o una frase pronunciata in maniera incurante possono infliggere al popolo nuove sofferenze o lievi benefici. In questa storia tutta al femminile, poco spazio è riservato agli uomini: quelli rappresentati non sono quelli dei campi di battaglia ma i nobili imparruccati e imbellettati che si divertono a banchettare e a far correre anatre all’interno del palazzo. Il regista greco, insomma, sorprende ancora una volta con una pellicola di cui per la prima volta non firma la sceneggiatura – gli autori sono Deborah Davis e Tony McNamara –, e giunge al Festival del cinema di Venezia con quella che è stata definita una dramedy o una commedia nera, impreziosita dalla fotografia di Robbie Ryan e dai costumi di Sandy Powell.


Pasquale Pota 04-09-2018

Bastano davvero delle riprese in steadycam lungo corridoi claustrofobici o l’uso di inquadrature dal rigore geometrico, o ancora la massiccia presenza degli archi di György Ligeti per poter paragonare un qualsiasi film sulla disintegrazione di una famiglia borghese e sul confronto con l’incomprensibile a un’opera di Kubrick? La risposta è certamente no, non bastano neanche lontanamente. Eppure nei mesi precedenti più voci hanno sottolineato in modo precipitoso i parallelismi con l’estetica kubrickiana presenti ne Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos, premiato come miglior sceneggiatura a Cannes 2017 e uscito nelle sale italiane lo scorso 28 giugno.
Nell’ultimo thriller psicologico del regista greco la vita (troppo) perfetta di una famiglia benestante, composta dal padre chirurgo Steven (Colin Farrell), da Anna (Nicole Kidman) e dai figli Kim (Raffey Cassidy) e Bob (Sunny Suljic), viene sconvolta dalle visite insistenti di Martin (Barry Keoghan), ragazzo che profetizza come un oracolo la sciagura che si abbatterà sui famigliari del medico: paralisi alle gambe, perdita di appetito, sanguinamento dagli occhi e infine morte. L’unico modo per il dottore di evitare la tragedia è sacrificare uno dei suoi cari. Quando la profezia comincia ad avverarsi la situazione precipita verso il baratro. Cervo 2 
Dopo The Lobster (2015), Lanthimos torna a parlarci di rapporti umani bestiali, la cui insita deformità è suggerita fin dalle prime sequenze, grazie all’uso di riprese angolate e grandangolari, insieme al contrasto tra la tensione esercitata dal disturbante commento sonoro - quasi onnipresente - e la banalità delle situazioni rappresentate, con dialoghi al limite dell’assurdo. E già in questo procedimento c’è una considerevole differenza rispetto al modello kubrickiano. Se Kubrick lavora soprattutto sulla ricerca della perfetta simmetria compositiva, facendo esplodere l’orrore al suo interno, al contrario Lanthimos utilizza spesso inquadrature troppo alte o troppo basse rispetto ai soggetti inquadrati, esaltando la disfunzionalità, la mancanza di equilibrio già costitutiva del nucleo familiare. Ogni elemento è già di per sé doppio e portatore di un morbo latente, come la casa, dolce nido domestico e luogo maledetto, con le finestre della camera da letto simili a quelle della villa di Amityville Horror (1979). Il male si riversa all’interno della famiglia, costringendo il sacrilego dott. Steve, reo di una grave negligenza sul lavoro, a sacrificare uno dei familiari, così come, nella tragedia di Euripide  Ifigenia in Aulide, Agamennone è costretto a sacrificare la figlia Ifigenia per aver ucciso un cervo sacro alla dea Artemide.
La tragedia antica pone al suo centro l’abnormità di un gesto che infrange le leggi umane o divine, tanto atroce da sfidare i limiti della ragione. La gravità del castigo è il modo in cui la tragedia riflette la difficoltà per il pensiero di comprendere l’orrore perpetrato. Allo stesso modo, la famiglia del chirurgo è costretta a fare i conti con qualcosa a cui nemmeno le migliori menti della medicina possono trovare una spiegazione. Non resta che accettare il responso, prendere atto dell’incomprensibile e adeguarsi alle conseguenze, così come fanno i protagonisti del film nel momento in cui, caduto ogni presupposto realistico, il film si addentra definitivamente nei territori del fantastico e le leggi dell’antico soppiantano quelle della modernità. Il sacrificio porta la tragedia classica in un contesto contemporaneo, all’interno della marcescenza domestica, inscenando il conflitto tra antico e moderno, razionale e irrazionale, latente in ogni rapporto umano. Ma Lanthimos è troppo (!) interessato a stupire il pubblico per raggiungere il necessario rigore intellettuale, e le pretese non sono del tutto soddisfatte.
Di Kubrick resta al massimo un omaggio nell’incipit, con quei sessanta secondi circa di nero sotto cui scorre lo Stabat Mater di Schubert a richiamare l’inizio di 2001: Odissea nello spazio (1968), prima di venire violentati dall’immagine di un cuore pulsante sotto intervento chirurgico. Un omaggio suggestivo, per un incipit tra i migliori di quest’anno. Eppure, anche questo non basta.

Riccardo Bellini 06/07/2018

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