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La 91ª edizione degli Oscar passa alla storia come la più black mai ricordata, anche se molti cultori del cinema hollywoodiano hanno polemizzato sin da subito su questa ulteriore manifestazione di una ormai inarrestabile trasformazione delle politiche della rappresentazione cinematografica.
Le istanze di legittimazione e di inclusione nell’immaginario comune e nel sistema di realtà, da parte delle comunità minoritarie, però, non sono certo una novità. Esiste una ricca letteratura critica e sociologica sulla necessità di un maggiore pluralismo nella costruzione delle identità nel cinema americano. Ciò di cui, però, ci si è resi pienamente conto adesso è che Hollywood non può più permettersi un atteggiamento escapista nei confronti della realtà e degli attriti sociali statunitensi.

Fra le otto opere candidate al Miglior Film, solo una, probabilmente, incarnava ancora l’idea della vecchia Hollywood, fabbrica di sogni romantici e di successi, ma si trattava, non a caso, di un remake. A Star is Born di Bradley Cooper, infatti, è stato concepito al di fuori di qualsiasi contesto socio-politico, privo di riferimenti a un tempo determinato. Era una favola con ridottissime possibilità di vittoria.
La reale attenzione del pubblico e della critica, al contrario, è stata attirata dai film che si sono rivolti alla contemporaneità, all’America suprematista di Trump.
Se da un lato l’Academy non ha rischiato, premiando come Miglior Film lo stupendo ma moderato discorso sul razzismo, declinato al passato, di Green Book (Peter Farrelly), sono stati Spike Lee e Ryan Coogler a dominare invece l’opinione pubblica.
BlacKkKlansman, che è valso a Lee la prima nomination alla regia e la prima statuetta in assoluto, per la Migliore Sceneggiatura non originale, è un riuscitissimo esempio di critica metacinematografica della rappresentazione del soggetto afroamericano, oltre che, ovviamente, una palese dichiarazione politica. Lee è contemporaneamente riuscito a costruire un pezzo di ottima satira sociale e una sorta di trattato, in chiave funky-pop, di tutti i fondamentali concetti degli African American Studies. Celebrando, inoltre, la ricchezza e la resilienza della cultura afroamericana ha ridicolizzato l’ipocrisia del suprematismo bianco, realizzando una necessaria denuncia delle gravi tensioni che attraversano gli Stati Uniti negli ultimi anni.
L’intero film è un continuo riferimento critico nei confronti della persona e dell’operato di Trump, ma soprattutto è un lavoro specificamente pensato per il primo anniversario degli scontri di Charlottesville, a cui si fa riferimento documentaristico nell’epilogo. L’aperta militanza del regista è stata dichiarata ancora una volta, domenica sera, nel discorso di accettazione dell’Oscar, in cui Lee ha espressamente invitato i presenti a fare la cosa giusta e a scegliere l’amore anziché l’odio (come si leggeva sui suoi vistosi gioielli) alle prossime e molto vicine elezioni del 2020.

BlacKkKlansman, proclamandosi quasi una fonte di storia culturale, è stato creato per testimoniare e giudicare un periodo storico e le scelte socio-politiche che ne derivano, mentre, Black Panther ha rappresentato l’esatto opposto, l’utopia di una società impossibile, che affonda le sue radici nei principi dell’Afrofuturismo e del Panafricanesimo.
Ryan Coogler, infatti, è andato molto oltre le intenzioni di Stan Lee e Jack Kirby, trasformando un prodotto in serie della Marvel in un fenomeno culturale irripetibile e inarrestabile.
Se non si fuoriesce da una visione eurocentrica, è difficile capire la rivoluzione che questo film costituisce, celebrando sullo schermo la cultura afroamericana e le sue antiche radici africane, al di là degli schemi stereotipati e addomesticanti della visione bianca. Non a caso il film, su sette candidature, ha ottenuto proprio le statuette ai Migliori Costumi, alla Migliore Scenografia e alla Miglior Colonna sonora, perché è stato in grado di restituire fedelmente non solo un’atmosfera, ma un intero continente di culture.

Black Panther ha aperto una nuova era nell’ambito delle effettive possibilità produttive dei black movies, fino ad ora relegati per lo più al circuito indipendente. Grazie alla fiducia ben riposta nel progetto di Coogler, oggi è finalmente possibile sperare in una maggiore inclusione culturale e un maggior pluralismo dei modelli identitari proposti dal cinema, come ha affermato anche Cuarón, accettando l’Oscar alla Migliore Regia per il suo ROMA, che in fondo è anch’esso una storia sugli invisibili della nostra società.
In generale, dunque, questa stagione cinematografica, appena conclusa con l’assegnazione degli Oscar, ha posto le basi per la piena affermazione di nuovi linguaggi e nuove estetiche, in grado di raccontare la nostra stessa realtà attraverso prospettive e punti di vista necessariamente differenti.

Valeria Verbaro, 25/02/2019
Foto: Kevin Winter – Getty Images

LISBONA – Trentacinque anni di festival, quarant'anni della compagnia che lo organizza. Numeri tondi e importanti per il Festival de Almada, quello spicchio di terra collegato a Lisbona dal grande ponte in ferro rosso. Il Ponte e la statua del Cristo Redentore, i simboli di questa parte che s'affaccia sulla foce del Tejo e guarda l'oceano, grande e misterioso, lì ad un passo. Portogallo è il bacalau, è il pasteis de nata, è, inevitabilmente, Cristiano Ronaldo. Ma anche le maioliche azul che rivestono, dentro e fuori, le chiese, è la Chiesa del convento do Charmo che ha perso il tetto nel terremoto di36866233_10209226287372631_6506777403631599616_n.jpg metà '700 (ricorda San Galgano, l'abbazia vicino alla spada nella roccia), è indiscutibilmente il fado, i tram che s'inerpicano sulle vie in salita. Fascino e tradizione. Lisbona è Belem con la sua fortezza sull'acqua, con il monumento ai Padri delle Scoperte che si protende nel mare alla ricerca di nuove terre. E Almada sembra tuffarsi nel cuore di Lisbona. Non chiamatela periferia. Qui la Companhia de Teatro de Almada, diretta dal regista Rodrigo Francisco, mette in piedi, ogni anno dal 4 al 18 luglio, una rassegna internazionale con i grandi nomi del teatro; quest'anno, solo per citarne alcuni, Pippo Delbono, la Needcompany di Jan Lauwers, la Familie Floz, Spregelburd e Paolo Magelli. Gruppi provenienti dal Belgio come dalla Francia, dalla Croazia e dal Messico, Italia e Spagna, Slovenia e Germania, un'atmosfera multiculturale piena, vivace, frizzante.

28mar13-459.jpgHa una patina da Fratelli Coen l'“Arizona” dei messicani Teatro de Babel, testo smaccatamente anti-Trump, polemico con l'arma dell'ironia (facile), pungolo alle politiche migratori e anti-immigrazione che stanno sconvolgendo l'attualità, dal muro ai confini con il Messico ai barconi verso l'Italia, ai respingimenti in Ungheria. Ormai la politica interna degli Stati più sviluppati è la politica estera. Qui tutto è ipercolorato, acceso come un fumetto, volutamente, forzatamente spinto verso la tesi che gli statunitensi sia tutti dei bifolchi gringo con la camicia a scacchi e il fucile pronto a sparare mentre i messicani (o chi proviene dal Sud del mondo) sia buono, bravo, pacifico e non solo voglia venire in un altro Paese ma, arrogantemente, non chiede permesso ma pretende il libero passaggio, forse anche una casa e un'occupazione. La critica sociale verso le politiche di frontiera del governo Trump (il muro non lo ha fatto, quello che già c'è è dell'epoca di Clinton) avrebbe avuto senso e sostanza se fosse stata fatta dall'interno, ovvero dal una compagnia statunitense non certo da una messicana. Ma torniamo al teatro. Gli Stati Uniti sono un posto xenofobo, abitato da trogloditi che a male pena connettono concetti e parole. Semplificazioni. Tutto è parodia, sullo sfondo un confine che è metà fisico e altrettanto metaforico. In video le centinaia di persone che ogni notte scavalcano le recinzioni e in audio l'inno a stelle e strisce: la platea si scalda, tutti contro gli “invasori” americani, tutti con i jeans e cenando al MacDonald's. Altra facile speculazione l'uomo (ricorda il personaggio di Crozza Napalm51) è un bovaro ignorante mentre la moglie (le donne, si sa, sono sempre un passo avanti agli energumeni maschili), pur nei suoi dubbi e nelle sue incertezze, è più sensibile e aperta, progressista e possibilista. Il pic nic sulla frontiera è assurdo. Si sentono i profumi del “Grande Lebowsky” come gli afrori da “Breaking Bad”. I messicani del Teatro de Babel ci dicono che gli americani guardano con il binocolo un nemico che non esiste (infatti i due coniugi non scovano nemmeno un erede dei Maya intendo a passare il confine clandestinamente) ma è dentro di loro, alberga nelle loro coscienze sporche. C'è un sibilo che ci porta all'“Aspettando Godot”, ad un qualcosa che deve accadere ma che proprio nel momento giusto ritarda, tentenna, si stoppa, un coitus interruptus. Marito e moglie scrutano la platea, siamo noi i nemici, i messicani in un mix da musical campagnolo tracoloniapenal_04.png “La casa nella prateria” e il nostro Mulino Bianco, l'immancabile Bibbia e nel naso quel senso da Far West. Nel finale, pulp e splatter, la ridicolizzazione degli U.S.A. raggiunge il suo acme. Peccato che esistano ancora i confini, gli Stati, i passaporti, le leggi, i governi.

Da una frontiera da eludere ad una reale impossibile da oltrepassare una volta varcato il cancello: la prigione. I portoghesi del Teatro do Bairro hanno ricreato quel velo di angoscia claustrofobica del quale è impregnata “Colonia penal” di Genet riuscendo a rendere e restituire tutto il peso chiuso, tutto quello strato di impossibilità e rapporti deviati che scaturiscono dietro le sbarre, tutti i poteri e le subalternità da subire, le scale gerarchiche alle quali essere sottomesso. Ricorda le performance dei Living Theatre. Gli aguzzini hanno cappelli da Pinocchi, la ghigliottina sta in primo piano a ricordare la fine, la conclusione mentre le pareti semoventi si aprono o si richiudono, diventano un angolo ottuso o acuto come ventagli, come un incubo sotto il quale essere schiacciato senza via d'uscita in questa penombra, reale e dell'anima, che tutto ammanta come una lingua di catrame, in questo lager dalle sintonie fragili, in questo campo di concentramento allucinato senza scampo.

zapiranje_ljubezni-01-v.jpgInfine il “Final do amor” di Pascal Rambert a cura degli sloveni Mini Teater, un Lui e una Lei che si fronteggiano in monologhi lunghissimi, scagliandosi, scannandosi, insultandosi, tentando di amarsi odiandosi. In una scena vuota, svuotata e arida come il loro rapporto giunto al capolinea, si urlano in faccia come gatti randagi, vorrebbero andarsene ma ritornano perché hanno bisogno del nemico di una vita. Tanto sono immobili, fissi, statici, verticali nella loro postura, tanto i loro gargarismi vocali e il loro profluvio di parole azzanna l'altra, lo travolge, lo inonda, lo spazza come cascata, come valanga, come alluvione di rancore e di tutto quel non detto che adesso esonda, travalica, non riesce a rimanere negli argini. Sembrano Marina Abramovich e l'ex marito Ulay nella celebre performance “The Artist is Present”. Vanno a folate, attacchi e rinculi, reprimende e scuse, singhiozzi tremanti e accuse solide, una guerra, meglio una guerriglia dove avvicinarsi e ritirarsi a fisarmonica in un flusso di parole da apnea, una sfida, una mitragliatrice che spara critiche e denunce, mancanze e insoddisfazioni da “C'eravamo tanto amati”, una danza di morte, un ballo per rinascere.

Tommaso Chimenti 16/07/2018

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