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La 65° edizione dei David di Donatello ha visto trionfare Il traditore di Marco Bellocchio con 6 premi su 18 candidature (Regia, Film, Sceneggiatura originale, Montaggio, Attore protagonista e non protagonista, Favino e Lo Cascio), seguito da Pinocchio e Il Primo Re, rispettivamente con 5 e 3 statuette, che si spartiscono i principali premi tecnici. Grandi sconfitti Martin Eden (su 11 candidature, vince solo quella per la miglior sceneggiatura non originale) e 5 è il numero perfetto (9 candidature, 1 riconoscimento, per la miglior attrice non protagonista, Valeria Golino). Confermati, anche, i David già assegnati, fra cui quello dello Spettatore, andato a Il Primo Natale di Ficarra e Picone e quello al miglior film straniero, Parasite.

Ma questa edizione, più che i per i premi, verrà sicuramente ricordata per la modalità di svolgimento. Rimandata dal 3 aprile all’8 maggio, la cerimonia si è svolta nel rispetto delle normative dovute all’emergenza COVID-19: in uno studio deserto, Carlo Conti ha condotto “virtualmente” la serata, collegandosi, di volta in volta, con gli attori, le attrici o gli sceneggiatori candidati, in diretta dalle proprie case. Tutti gli altri premi, invece, sono stati consegnati senza alcun commento da parte del vincitore, in una rapida carrellata di nomi e buste. In questo strano clima, è stato quindi concesso a tutti gli attori di intervenire prima della premiazione. David di Donatello

La serata si è aperta con l’augurio di Conti per una pronta ripartenza, seguito dalla lettura del messaggio del presidente Mattarella, che non ha potuto incontrare i candidati come da tradizione. Al suo appello per il mondo del cinema, si è unito quello di tutti gli interpreti candidati che, in un unico video collettivo, hanno richiesto le giuste garanzie e tutele sociali per il lavoratori dello spettacolo.

Appello che è stato riproposto, in maniera più o meno accorata, da quasi tutti coloro che hanno ricevuto il premio (su tutti Luigi Lo Cascio) portavoci, mai come quest’anno, di tutte quelle maestranze che non sono potute salire sul palco a prendersi i meritati riconoscimenti e applausi. In una stagione in cui il livello degli effetti speciali, del trucco, della fotografia, delle scenografie e di tutti i comparti tecnici è stato decisamente alto, non vedere coloro che lo hanno reso possibile è stato ancora più d’impatto.

Ringraziamenti, quindi, destinati, mai come quest’anno, a collaboratori e colleghi. Le famiglie, invece, sono potute entrare letteralmente in scena: fra i momenti più toccanti, infatti, l’irruzione dei figli di Lo Cascio e il bacio spontaneo della moglie a Favino. L’attore, nel suo discorso, ha ringraziato anche un’anziana signora incontrata per caso sotto casa, prima del lockdown, che lo aveva salutato augurandosi di rivederlo presto a cinema.

E quel “ci vediamo presto” è diventata immediatamente la frase della serata.

A interrompere, per un momento, l’emozione di un’edizione andata in onda in un momento “fragile e potente” (definito così da Valeria Golino), l’intervento di Benigni (candidato per il suo ruolo di Geppetto), solito implacabile mattatore, e i vari discorsi di Marco Bellocchio, che ringrazia in primis se stesso, augurandosi, a 80 anni, di poter continuare a fare film che lo entusiasmino, e successivamente tutte le maestranze, fra cui figura sua moglie Francesca Calvelli, premiata per il montaggio de Il traditore.

Al di là dei discorsi, molti sono stati i momenti significativi della cerimonia, primi fra tutti il ricordo di Alberto Sordi e Federico Fellini, in occasione dei 100 anni dalla nascita di entrambi, e di Franca Valeri, che ha vinto il David speciale alla carriera. E poi l’intervento del ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Franceschini. Infine il consueto In Memoriam per gli artisti venuti a mancare quest’anno, da Camilleri, a De Crescenzo, passando per Lucia Bosè e il premio Oscar Piero Tosi.

La serata è terminata con la premiazione del miglior film, Il Traditore, da parte della Presidente dell’Accademia del Cinema italiano Piera Detassis, che ha ricordato l’importanza di riportare fiducia negli spettatori.

Un’edizione equilibrata, in cui sono pochissimi i film che escono effettivamente a mani vuote (uno su tutti, Suspiria) e in cui sono stati premiati il talento di costruire mondi (come quello di Pinocchio) e quello di raccontare storie, sia tratte da vicende biografiche che completamente inventate. Forse il coraggio di Matteo Rovere e del suo Il primo Re avrebbero meritato maggior attenzione, ma di fronte ad una pellicola come Il traditore, diretta da uno degli ultimi grandi registi italiani viventi, Marco Bellocchio, la sconfitta era quasi inevitabile. David di Donatello

Di seguito la lista completa dei vincitori.

MIGLIOR FILM
Il traditore (Marco BELLOCCHIO) – prodotto da IBC MOVIE, KAVAC FILM, con RAI CINEMA 

MIGLIOR REGIA
Marco BELLOCCHIO (Il Traditore)

MIGLIORE ATTRICE PROTAGONISTA
Jasmine TRINCA (La Dea Fortuna)

 MIGLIORE ATTORE PROTAGONISTA

Pierfrancesco FAVINO (Il Traditore)

MIGLIORE ATTRICE NON PROTAGONISTA
Valeria GOLINO (5 è il numero perfetto)

MIGLIORE ATTORE NON PROTAGONISTA
Luigi LO CASCIO (Il traditore)

                                                                                                                                                  MIGLIOR REGISTA ESORDIENTE
                                                                                                                                                   Phaim BHUIYAN (Bangla)

MIGLIORE SCENEGGIATURA ORIGINALE
Marco BELLOCCHIO, Ludovica RAMPOLDI, Valia SANTELLA, Francesco PICCOLO (Il Traditore)

MIGLIORE SCENEGGIATURA NON ORIGINALE
Maurizio BRAUCCI, Pietro MARCELLO (Martin Eden)

MIGLIOR PRODUTTORE
Andrea PARIS e Matteo ROVERE per GROENLANDIA, RAI CINEMA, GAPBUSTERS, ROMAN CITIZEN (Il Primo Re)

MIGLIORE AUTORE DELLA FOTOGRAFIA
Daniele CIPRÌ (Il primo re)

MIGLIORE MUSICISTA
L’ORCHESTRA DI PIAZZA VITTORIO (Il Flauto Magico di Piazza Vittorio)

MIGLIORE CANZONE ORIGINALE
Che vita meravigliosa, Diodato (La dea fortuna)

MIGLIORE SCENOGRAFO
Dimitri CAPUANI (Pinocchio)

MIGLIOR COSTUMISTA
Massimo CANTINI PARRINI (Pinocchio)

MIGLIOR TRUCCATORE
Dalia COLLI e Mark COULIER (trucco prostetico) (Pinocchio)

MIGLIOR ACCONCIATORE
Francesco PEGORETTI (Pinocchio)

MIGLIORE MONTATORE
Francesca CALVELLI (Il traditore)

MIGLIOR SUONO
Presa diretta: Angelo BONANNI
Microfonista: Davide D’ONOFRIO
Montaggio: Mirko PERRI
Creazione suoni: Mauro EUSEPI
Mix: Michele MAZZUCCO
(Il primo re)

MIGLIORI EFFETTI VISIVI
Theo DEMIRIS e Rodolfo MIGLIARI (Pinocchio)

MIGLIOR DOCUMENTARIO
Selfie  (Agostino FERRENTE)

DAVID GIOVANI
Mio fratello rincorre i dinosauri (Stefano CIPANI)

DAVID DELLO SPETTATORE
Il primo Natale (Salvo FICARRA e Valentino PICONE)

DAVID SPECIALE
Franca Valeri

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO
Inverno  (Giulio MASTROMAURO)

MIGLIOR FILM STRANIERO
Parasite (BONG Joon Ho)

                                                                                                                                                                                                                                                                                                  Claudia Silvestri 09\05\2020

Questo sembra proprio essere l’anno della Corea. E non che ci fosse bisogno della pur meritatissima incetta fatta agli Oscar da Bong Joon-ho per riconoscerne l’enorme patrimonio culturale. Kingdom, serial coreano scritto da Kim Eun-hee e diretto da Kim Seong-hun, rinnovato già di una seconda stagione dal 13 marzo disponibile su Netflix, è la dimostrazione di un prodotto nato ai margini delle auree kermesse ma che vive e prolifera dal 25 gennaio dello scorso anno nello spazio produttivo sempre più corposo che la piattaforma va via via destinando alle cinematografie nazionali, nel tentativo di dare un maggior respiro ai prodotti non anglofoni.
Il sole sorge sul Sangju dove avevamo lasciato il principe ereditario e i suoi seguaci asserragliati su una fragile roccaforte e impegnati in una strenua difesa del regno dalle orde di contadini del Dongnae affetti da un virus che li aveva trasformati in zombie.
Il fatto è che anche i morti viventi hanno visto l’alba: quelli con cui combatte il principe Chang sono veloci e non temono la luce del sole, pare non abbiano talloni d’Achille, o almeno questo si crede prima che gli studi che la dottoressa Seo Bi conduce parallelamente sulla pianta della resurrezione, causa primaria della pandemia, non diano prova del contrario.
E intanto fiotti di sangue schizzano sullo schermo, come a volerci insozzare di quei liquidi corporei e di quella putrescenza che facevano da contorno alle altre storie di parassiti, scarafaggi e lerci seminterrati raccontateci da Bong Joon-ho. Allora, nel Medioevo della dinastia Joseon in cui si sviluppa la vicenda di Kingdom, come oggi, nella Corea di Parasite: racconti di potere e di classi sociali invalicabili, e la fame, che dai contadini del Dongnae cavalca secoli di storia e che, come una memoria atavica, raggiunge il sottoproletariato urbano del vischioso quartiere di Ki-taek, assumendo ancora i tratti ripugnanti di un morbo che si propaga. image asset
L’imperatore, padre di Chang, anch’egli segretamente trasformatosi in un non morto e tenuto legato ad un baldacchino circondato da incensi per coprire il fetore di carne marcia, era stato occultato alla vista del popolo per molto tempo con la scusa del vaiolo. La sua vita, che restava comunque necessaria per scongiurare la rivendicazione del di lui legittimo erede, viene stroncata proprio dal figlio costretto a difendersi dalla furia famelica in un incontro con ciò che del genitore era rimasto. E ora, il principe Chang, è più che mai consapevole di combattere un virus che si dipana su due fronti, non solo quello rappresentato dal popolo progressivamente cannibalizzatosi, ma anche quello che serpeggia fra l’élite godereccia al governo, incarnato dalla luciferina imperatrice e dal clan Hak-jo a cui appartiene, affetti non dalla stessa fame del loro popolo, ma di una parimenti mostruosa. Una strage degli innocenti si consuma fra gli shoji che dividono le stanze degli eleganti appartamenti reali, frutto della follia accentratrice della regina Cho Beom-il lanciatasi nella ricerca disperata, fra le partorienti popolane, di un neonato maschio al fine di preservare la discendenza legittima a discapito di Chang, figlio “bastardo” del re. 
La componente action dell’horror e al rigore storico del quale vive questo dramma in costume, si miscela così alla serratezza del thriller politico con la quale anche Joon-ho raccontava dei suoi scheletri nel seminterrato. In entrambi i casi il potere ha un volto noto, “sono gentili perché sono ricchi”, ribatteva mordace Kim Chung-sook in Parasite mentre la sua intera famiglia si “borghesizzava” per mascherarsi ed assomigliare allo status symbol; e invece Chang, che sin dalla prima stagione pareva insofferente all’etichetta che il suo ruolo gl’imponeva, si toglie il kat e l’hambok di cui si veste la corruzione, per indossare un umile completo di canapa col quale combattere per ciò che è giusto e ciò che è necessario accanto ai pochi seguaci e amici perennemente imbrattati di sangue. L’umanità del principe, bastardo e ora anche parricida e per questo non meno colpevole per la corona del resto dei suoi sedicenti legittimi titolari, spende di una candida purezza se si guarda al momento abbacinante dell’assalto degli zombie al palazzo reale che adesso non è più trincea, ma nuovo fronte.
Il piano d’isteria assolutista di Cho Beom-il non contempla assoggettamenti né reclamazioni; così, liberatasi prima del padre e capo del clan Cho Hak-Ju, dà ordine che alcune delle creature usate come oggetti di studio vengano liberate dalle prigioni reali al fine di impedire a Chang di deporla e rovesciare il governo. Le porte verso il potere si aprono, così, perché l’esodo di morte invada la corte, se ne cibi e la trasformi a sua volta in altra morte, fino a quando anche l’ultimo varco, quello dietro il quale si è trincerata la regina col neonato strappato ad un’altra madre, non sarà caduto. Cho Beom-il, arroccata sul suo trono mentre il mondo appena fuori conosce la più tetra devastazione, si lascia fagocitare dalle orde di non-morti in un estremo gesto di cieca avidità, proprio come i disperati tentativi di sabotaggio dei Kim al personale di casa Park, sgomitate di cupidigia di altri morti di fame.

Gabriella Longo

La Corea del Sud è un paese attraversato da una violenza carsica di cui non riesce a venire a capo. Una violenza che impregna l’intero paese. Non regge più – o forse non ha mai retto – la dicotomia tra la grande città, covo di degrado e perversione, e la piccola, idillica realtà della cittadina di provincia dove tutt’al più, se non si muore di vecchiaia, si muore di noia. Soprattutto non c’è un unico colpevole, un singolo capro espiatorio che la comunità condanna a portare la croce per i peccati di tutti. Nessuno è innocente, chiunque a modo suo commette una certa quantità, maggiore o minore, di male. Pure se nel farlo si crede nel giusto. Con larghe pennellate dense di una satira grottesca dall’effetto umoristico, il regista sudcoreano Bong Joon-ho ha dipinto così una vicenda che in primo piano si percepisce come una crime story. Scendendo in profondità, si scopre l’innesco di un meccanismo simile a quello che Pirandello aveva definito “il sentimento del contrario” – la riflessione indotta da una prima impressione comica – che ridicolizza e mette in crisi le certezze. L’intera società coreana e le sue istituzioni vengono rivelate per quello che sono, dietro la facciata formale: umane, troppo umane, sovraccariche - seppur inconsapevoli - di debolezze e preconcetti, oscillanti tra una ricerca del fine che giustifica i mezzi e l’ansia di rispettabilità. Questa è la complessa, ma non contorta, tela che si dipana in “Memorie di un assassino”, pellicola inserita dalla rivista cinematografica del British Film Institute “Sight & Sound” tra i trenta film chiave dei primi dieci anni del Duemila. Uscito nel 2003, è arrivato nelle sale italiane il 13 febbraio 2020, in ritardo di oltre tre lustri, sull’onda del successo mondiale dell’ultima opera di Bong, quel “Parasite” vincitore di quattro statuette agli ultimi Oscar, e del ridestato interesse per la sua produzione. Memorie di un assassino A differenza di quest’ultimo, film di pura fiction, “Memorie di un assassino” recupera una storia tratta delle pagine più buie della cronaca nera della Corea del Sud, già ispiratrice di uno spettacolo teatrale: quella del primo serial killer sudcoreano. Tra il 1986 e il 1991 nelle campagne intorno a Hwaseong dieci donne, dopo essere state immobilizzate e imbavagliate con i loro stessi indumenti intimi, furono violentate e uccise. Nemmeno le tracce biologiche presenti sulla scena del crimine si rivelarono utili per risolvere il caso, quando il film uscì il nome dell’assassino era ancora ignoto. Infine, nell’autunno del 2019 le autorità coreane hanno comunicato che uno dei sospettati della lunga scia di omicidi, Lee Choon-jae, era stato identificato. L’uomo, già condannato all’ergastolo nel 1994 per aver violentato e ucciso la cognata,dopo aver respinto le accuse, avrebbe confessato un numero molto più elevato di delitti, 46 tra uccisioni, abusi sessuali compiuti e tentati. Oggi Lee non può più essere perseguito perché quei reati sono ormai prescritti. Ma non sono né il sangue né il gusto morboso per la violenza a condurre lo spettatore nelle oltre due ore del racconto, bensì la lunga carrellata di tipi umani che si affastellano nel corso di un’investigazione condotta ora con brutali interrogatori fatti di calcioni volanti alla Bruce Lee e confessioni indotte ed estorte, ora con metodo scientifico e una rigorosa analisi psicologico-comportamentale. In una conduttura in aperta campagna, non lontano da un villaggio senza nome, uno qualunque del Paese, dei contadini rinvengono il corpo di una donna, denudata legata e imbavagliata. Il primo di una serie di cadaveri, quello che dà il via a una corsa contro il tempo per trovare l’omicida, voglioso mietitore di donne vestite di rosso, prima che colpisca di nuovo nelle notti di pioggia quando alla radio passa una romantica canzone d’amore per cuori infranti. È una corsa goffa e accidentata fin dall’inizio, quando degli uomini della scientifica scivolano in un fosso in mezzo ai campi per raggiungere la scena del crimine inquinata dal passaggio noncurante degli agricoltori. Ogni passo in cerca della verità sembra incontrare continui ostacoli, per incompetenza o per un qualche motivo che si frappone sempre fra la domanda e la risposta. I principali attori dell’indagine, il poliziotto ‘di campagna’ Park Doo-man (Song Kang-ho, attore feticcio di Bong), più intelligente e determinato dei suoi inetti colleghi ma pervaso da una forza irrazionale che gli fa credere di poter leggere negli occhi dei sospettati la loro colpevolezza o innocenza, e il pacato e metodico detective venuto dalla capitale Seul per risolvere il caso con le più aggiornate tecniche investigative, Seo Tae-yoon (Kim Sang-kyung), sono due mondi che entrano in collisione. Intorno a loro orbitano, in una grigia coltre di fumo di sigarette, un sergente di polizia a cui sono rimasti pochi scrupoli e un certo trasporto per gli alcolici, uno ‘sbirro’ violento con le labbra affilate e serrate in una storta smorfia sadica che ricorre ai suoi anfibi militari quando l’estorsione di una confessione non va come vorrebbe, una giovane e brillante collega che acquista importanza man mano che l’inchiesta procede, un’infermiera-prostituta dotata di buonsenso e calore umano. Tutta l’indagine è un grande contraddizione e al tempo stesso una disincanta rivelazione della natura umana. I delitti proseguono, la ricerca del colpevole si arricchisce di elementi che lasciano intravedere una parte di verità che rimane inafferrabile e inconoscibile. Per cui va costruita: se si hanno i pezzi del puzzle, bisogna incastrarli in qualunque modo così che il disegno - quale che esso sia - appaia sotto gli occhi di tutti. Così Park e lo ‘sbirro’ si convincono che il racconto ricco di particolari circa la morte della prima ragazza, sciorinato da un giovane con degli handicap mentali, sia da ritenersi valido tanto da convincere persino lui di essere autore di quell’efferatezza. Non sarà l’unico caso. Ma per il detective Seo l’incognita che risolve l’equazione è un’altra.  In un continuo alternarsi di close up fatti di immagini quasi sgranate come un vecchio telefilm degli anni Ottanta, atti a esasperare e quindi a depotenziare l’importanza data allo sguardo per cogliere la verità, e di riprese a spalla traballanti, i ruoli sbiadiscono e si contaminano mentre nella grande città, si arriva agli scontri di piazza tra i manifestanti e le forze dell’ordine. La realtà raccontata da Bong è priva di contorni nitidi e precisi, come si evince dal ricorso ad alcune inquadrature fuori fuoco. La violenza è nelle strade, nelle campagne, nelle città, nella caserma, nelle menti di chi monta una falsa verità e in quella di chi, sfinito, pensa di ricorrervi per chiudere l’ennesimo capitolo di questa storia. Invece l’ultima parola non è detta, non sono bastate né l’arcana magia del mondo rurale né il progresso scientifico e tecnologico della civiltà metropolitana per circoscrivere e debellare una malattia per cui non esistono né vaccini né cure. Se non un po’ più di umanità.

Lorenzo Cipolla

Le opere d’arte più belle e significative hanno il raro dono di racchiudere in sé lo spirito del proprio tempo e, in parallelo, di esprimere dei concetti esistenziali che travalicano i confini del presente e che si rispecchiano tanto nel passato quanto nel futuro. È questo il caso di Parasite del regista sudcoreano Bong Joon-ho, un film di straordinario pregio per l’efficacia con cui scandaglia i conflitti sociali della nostra epoca e per il modo arguto e coerente con il quale costruisce una narrazione ricca di sorprese, dai riflessi grotteschi e che suscita nello spettatore delle risate assai amare.
La vicenda si apre come una commedia e ha per protagoniste due famiglie agli antipodi della scala sociale: da una parte c’è il giovane Ki-woo (Choi Woo-shik) che vive con i genitori e la sorella in uno squallido e angusto seminterrato di un quartiere popolare dove la massima prospettiva lavorativa consiste nel confezionare delle scatole per le pizze; all’altra estremità vi è la benestante famiglia Park che abita in una lussuosa villa posta su una collina di Seul insieme alla propria nutrita servitù. Un giorno, sfruttando un aggancio fortuito, Ki-woo riesce a entrare nella casa dei Park spacciandosi per uno studente universitario disposto a dare ripetizioni di inglese alla figlia e a poco a poco, tramite una serie di geniali stratagemmi e assurdi inganni, anche il resto della famiglia si insedia nella villa per svolgere le mansioni di babysitter, autista e governante. La distanza tra i due gruppi umani rimane però immutata: Mr. Park ribadisce più volte l’importanza per la servitù di «non superare la linea» e il cattivo odore che Ki-woo e i suoi si portano dietro rappresenta un marchio infame e indelebile che ne identifica il rango di origine. Ma proprio a questo punto il film, attraverso un colpo di scena di grande effetto, cambia gradualmente tono e direzione, aggiungendo un ulteriore livello di scontro che va oltre quello classico tra ricchi e poveri e che, in un crescendo drammatico, pone in lotta i poveri e i più poveri fino a culminare in un violento e durissimo epilogo che esplica il radicale pessimismo dell’autore.Parasite 02
L’immagine che emerge con maggior forza dal film di Bong Joon-ho è quella di una società postmoderna saldamente individualista e capitalista, del tutto incapace di provare alcun sentimento di solidarietà, dove le relazioni tra le persone sono sempre regolate dal denaro. Gli unici barlumi di umanità residua sembrano conservarsi dentro i nuclei familiari ma pure in questo senso Bong insinua dei dubbi nel pubblico: a ben vedere, la famiglia di Ki-woo interagisce spesso in maniera artificiosa e calcolata, spinta dal comune interesse del guadagno economico, mentre i coniugi Park non hanno un rapporto autentico con i propri figli e si illudono di conoscerli solo perché in grado di poter comprare loro qualsiasi cosa. In una simile realtà, così arida e alienata, nessuno può uscirne vincitore ma ciò non significa che l’ordine gerarchico venga in qualche modo messo in discussione: per quanto infelici e feriti, i ricchi rimangono sopra i poveri e questa antitesi tra alto e basso costituisce uno dei motivi ricorrenti del film, come dimostrano sia la posizione delle rispettive dimore delle due famiglie sia la stessa struttura interna della villa dei Park. Se in Snowpiercer, uno dei più celebri lavori dell’autore, tale contrapposizione veniva espressa tramite una direttrice orizzontale – in riferimento alle classi dei vagoni del futuristico treno al centro della vicenda – qui la differenza di status sociale si manifesta in una verticalità che si fa metafora portante dell’intero film, grazie anche all’assoluta naturalezza con cui viene resa sul piano registico.Parasite 05
A questo proposito, è necessario evidenziare il valore della raffinata, brillante e rigorosa messa in scena di Bong, che esibisce una piena padronanza nella gestione degli spazi, nella meticolosa scelta dei quadri e nei misurati movimenti di macchina. Non si intravedono mai sbavature, ogni elemento trova una sua precisa collocazione e abbondano le invenzioni visive e sonore, alcune destinate a diventare cult – e vale la pena di citare almeno l’improbabile e spassosa sequenza che si sviluppa sulle note di In ginocchio da te di Gianni Morandi.
Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, dove è stato acclamato e ha ottenuto con merito l’ambita Palma d’oro, Parasite è un’opera che, come accennato in apertura, riesce a parlare del nostro mondo in modo semplice e caustico e lo fa andando a toccare dei temi universali con sincera ispirazione e profonda acutezza di sguardo. Forse è presto per gridare al capolavoro ma l’impressione è che il tempo saprà confermare un simile, entusiastico giudizio.

Francesco Biselli  23/06/2019

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